Carlo Airoldi era piccolo di statura, povero e di scarsa cultura. Aveva solo la sua forza. Forza del corpo, certo, ma soprattutto d’animo.
Se, come me, ti è capitato di frequentare ambienti molto disparati e di aver incrociato sul tuo cammino persone di ogni estrazione sociale, potresti aver notato quello che ho notato io.
Chi si guadagna da vivere col sudore delle proprie mani ha una punta di orgoglio in più per il proprio corpo.
Non parlo di cose come misurare il giro vita, mettere le creme antirughe o tingersi i capelli. Questa è roba che interessa ai borghesi e ai ricchi, che hanno paura di invecchiare. I poveri non si vergognano della pancia o dei capelli radi, ma sono molto orgogliosi della propria forza, perché è l’unica cosa che hanno.
Mica come i ricchi, a cui la forza non serve perché hanno il potere.
Carlo Airoldi veniva da Origgio, un paesino a vicino a Saronno. Era figlio di contadini. Era nato nel 1869 e faceva l’operaio in una fabbrica di cioccolata. Ma nel tempo libero si dedicava ad altro.
Hai mai sentito parlare del cuore d’atleta?
È un termine usato in medicina per spiegare il fatto che il cuore degli atleti di certe discipline cambia forma e dimensione, diventa letteralmente più grosso e più forte.
Il cuore di Carlo era molto forte, perché lui correva, correva tantissimo.
Poteva correre per giorni di seguito.
Un Principe
La nostra storia comincia in questo modo: con Carlo Airoldi in piedi, che sorride e annuisce, senza capire una parola.
Davanti a lui c’è nientepopodimeno che Sua Maestà il Principe ereditario di Grecia Costantino, figlio di Re Alessandro I.
Sua Altezza ha una striscia di medaglie sul petto e il mento ben rasato incorniciato da un rigido colletto ricamato d’oro. Appesa al fianco sinistro ha una spada, che dal giorno della forgiatura non hai mai lasciato il fodero.
Un giorno, il Principe diventerà Re e allora prenderà il nome di Costantino Dodicesimo, autoproclamandosi – seriamente! – erede degli antichi sovrani dell’Impero Romano.
Ma per ora suo padre è ancora in vita e lui è stato investito di un gravoso compito: presiedere a un evento che darà grande lustro al poverissimo Regno di Grecia: i primi Giochi Olimpici dell’era moderna.
Siamo nel 1896.
Il disastrato popolo greco aspetta trepidante di trionfare contro il mondo in una serie di gare sportive, la più importante delle quali è una corsa podistica di quaranta chilometri: partenza dal piccolo comune di Maratona, arrivo allo stadio di Atene.
Nobili e straccioni
Carlo Airoldi è vestito con abiti che gli hanno prestato, perché i sudici stracci coi quali è arrivato dall’Italia erano impresentabili.
Il Ministro italiano che lo ha ospitato e ristorato è accanto a lui e fa da interprete.
Quando il Principe finisce la sua domanda, Carlo risponde:
«Sì, ho ricevuto un premio in denaro per aver vinto la Milano-Barcellona».
Lo dice sorridendo e alzando il mento con orgoglio. Si sforza di non apparire intimidito.
Il Principe inarca le sopracciglia fingendo stupore, poi scuote la testa parlando in greco.
Mano a mano che il Ministro traduce in Italiano, il sorriso di Carlo si spegne. La sua faccia si trasforma in una maschera di angoscia. Impallidisce, inizia ad ansimare e, senza che abbia il tempo di vergognarsi, le lacrime gli rigano le guance.
Non riesce a credere che aver vinto la Milano-Barcellona possa costargli così tanto.
Gli ronza la testa. In pochi attimi rivive tutte le tappe che lo hanno portato fino a lì, dall’Italia.
Torniamoci anche noi, in Italia, per ripercorrerle insieme a lui.
Mi chiamo Carlo Airoldi
E l’inizio della primavera e il nostro eroe è davanti a una persona importante.
«Mi chiamo Carlo Airoldi – dice – e sono il vincitore della gara podistica Milano-Barcellona. Ne ha sentito parlare?»
Dall’altra parte della scrivania c’è il Direttore di uno dei più importanti giornali sportivi d’Italia. In effetti, a quel tempo, di giornali sportivi in Italia ce ne sono due.
Seduto davanti a Carlo c’è il Direttore de La Bicicletta.
«E cosa desidera?»
«Vorrei recarmi ai Giuochi Olimpici che si terranno ad Atene, per partecipare alla gran corsa pedestre da Maratona ad Atene»
«Buon per lei»
«Ma io intendo arrivare in Grecia a piedi»
Il Direttore guarda Carlo per un attimo.
«In che senso, a piedi?»
«A piedi, come lo vuole dire? Senza usare mezzi di trasporto, correndo, camminando. Insomma, a piedi. Attraverserò l’Austria, i Balcani e la Grecia. E quando sarò lì, parteciperò alla corsa pedestre e vincerò»
Gli occhi del Direttore ruotano in cerca di qualcosa da dire:
«È, uhm… un’idea… audace.»
«Sono circa duemila chilometri. Intendo percorrerli in un mese. Sono disposto a sfidare qualsiasi uomo e qualsiasi cavallo. Anzi, scommetto del denaro che posso batterli di almeno ventiquattr’ore.»
«Ma come farà a trovare la strada? E conosce le lingue?»
«Io? Lingue? No, so a mala pena parlare il milanese!»
Passi nella neve
«Quando partire? Anche domani, io sono sempre pronto!»
Non è vero, Carlo Airoldi non è pronto a partire, perché non ha un passaporto e il mondo è pieno di confini e di soldati che li sorvegliano.
Vuole fare una media di settanta chilometri al giorno. Lo sa che ci saranno momenti duri, «di scoramento», li chiama. Ma non ha idea di quanto.
Nel suo piccolo corpo ha la forza di un toro, così basso da sembrare quasi un nano, ma con un torace enorme e due braccia capaci di strangolare un mulo. Ha spesso arrotondato lo stipendio di operaio sollevando pesi nelle sagre di paese e improvvisando incontri di lotta per la strada.
Una volta ha sfidato Buffalo Bill, che era in tournée in Italia, in una gara di non so quanti mila chilometri: lui a piedi, Buffalo Bill a cavallo. La gara sfumò perché Buffalo Bill chiese di gareggiare avendo almeno due cavalli.
Carlo Airoldi è tanto convinto della sua forza da sembrare uno sbruffone.
Non lo è, ma si potrebbe obiettare che tutta la forza del mondo non può sconfiggere la diffidenza di una vecchia di campagna che ti sbatte la porta in faccia in una notte di pioggia. O un gruppo di paesani che ti caccia brandendo martelli e vanghe.
Tutta la forza del mondo non può sconfiggere la fame e la sete. Ma Carlo ha anche un altro tipo di forza, oltre a quella di gambe e braccia: quella di volontà.
Il 28 febbraio, a Milano, c’è la neve.
Carlo Airoldi parte indossando pantaloncini corti. A tracolla ha una piccola borsa del tipo a corsettina, dove c’entrano il passaporto, un paio di calze di ricambio e due fazzoletti.
Parte affondando i piedi nella neve. La prima tappa sarà Gorgonzola, dove la redazione de La Bicicletta gli farà trovare degli abiti puliti.
Morale alto
In tutte le tappe italiane trova ospitalità. I giornali locali lo fanno accomodare nelle loro redazioni o gli offrono ristoro in qualche osteria. Lui stesso scrive diversi messaggi a La Bicicletta in cui racconta come procede il viaggio. Riesce a fare una media di settanta chilometri al giorno.
Ma le condizioni sono pessime. Se non c’è neve, il gelo della notte ghiaccia le strade rendendole quasi impraticabili. Il sole, quando sale a metà mattina, scioglie il ghiaccio creando laghi di fango. Le scarpe si inzuppano e si appesantiscono, spesso è meno scomodo abbandonare la strada battuta.
Poi ci sono i giorni di pioggia. E a marzo i giorni sono spesso di pioggia.
Ci sono uomini che gli urlano per la strada che è un traditore della patria, perché corre verso il confine invece di arruolarsi soldato. A ventisei anni gli uomini per bene si rovinano la salute in fabbrica oppure si arruolano.
Ci sono anche i cani, che a volte non si limitano ad abbaiare, ma gli corrono dietro con l’intenzione di sbranarlo.
E può succedere che in una scarpa entri della sabbia, che dopo decine di chilometri finisce col provocargli una brutta infiammazione a un piede.
Eppure, tutti i giornalisti italiani che incontrano Carlo Airoldi sul suo percorso raccontano di averlo visto andare via di gran passo, sorridente e fiducioso.
Carlo continua a coprire tra i sessanta e i settanta chilometri al giorno.
Paura e dolore
La situazione peggiora molto quando Carlo Airoldi supera i confini italiani.
In Croazia, a Carlopago, incontra un uragano. È un uragano violento, che arriva dal mare e affonda una nave attraccata al porto. Riesce a trovare rifugio e la scampa.
Qualcuno lo mette in guardia sulla presenza dei lupi e gli assicura che finirà divorato vivo. Infatti attraversa lunghi tratti completamente desolati e dorme sotto le stelle. O sotto la pioggia.
Sulla via per Spalato, di notte, s’è accucciato vicino a un gruppo di cespugli, non lontano dalla strada. Non aveva mai pensato di poter essere ucciso da qualcuno.
Fa freddo e un uomo lo guarda, fermo in piedi. Dice qualcosa in croato. Il tono di voce non è per niente amichevole. Urla e agita le mani. Carlo non risponde, ma dietro la schiena raccoglie un sasso e lo stringe. Già pensa a dove colpire, se dovesse avvicinarsi: dritto alla tempia.
L’uomo sputa in terra, lo guarda ancora e se ne va.
A Ragusa, città al confine con l’Albania, Carlo Airoldi ci arriva provato nello spirito e nel corpo.
È caduto e si è ferito a una mano. Una profonda lacerazione che gli dà dolore.
Troppi pericoli
È ospite del Console italiano, che lo fa curare e cerca di dissuaderlo dalle sue intenzioni:
«Non può attraversare l’Albania. Non ci sono strade ed è pieno di banditi. Non arriverebbe vivo in Grecia!»
Incontra nobili e altre personalità italiane. Tutti gli dicono che quella strada è troppo pericolosa.
Questi ricchi signori non sanno quanto può essere forte un operaio figlio di contadini.
Ma Carlo poi fa la conoscenza di un inserviente, un vecchio omone che parla italiano per aver vissuto dodici anni a Trieste.
«Io non metto piede in Albania neanche se mi pagano», gli dice. «Pochi villaggi e i banditi ti fanno la pelle per un paio di scarpe bucate».
Carlo Airoldi si decide a prendere un traghetto per arrivare a Corfù via nave.
Sbarca il 26 marzo. Prosegue verso sud per Patrasso e di lì, in tre tappe, arriva finalmente ad Atene. È il 5 aprile, domani inizieranno i primi Giochi Olimpici dell’era moderna.
Il nostro eroe ha viaggiato a piedi per quasi un mese e mezzo.
Politica
Ed eccoci tornati ad Atene, davanti al Principe Costantino, con Carlo che non riesce a trattenere le lacrime.
«Ha mai vinto premi in denaro, nella sua attività podistica?»
Questo gli ha domandato l’erede al trono dall’alto del suo colletto coi ricami d’oro.
Da quando è arrivato in Grecia, Carlo ha incontrato solo grugni.
Mai un sorriso, a parte quelli di qualche italiano. I greci sembrano davvero poco felici della sua presenza.
Essere temuti è buon segno. Credeva che la sua prova di forza lo avrebbe presentato al mondo come un grande campione, che lo avrebbero celebrato.
Ora, davanti al dispiacere fasullo del Principe, che scuote la testa, inizia a capire che a nessuno interessa sapere davvero chi è il più forte. Questi nuovi Giochi Olimpici servono ad altri scopi.
La forza non conta niente, pensa col sapore delle lacrime in bocca: contano solo le manovre del potere.
E il potere è contorto, segreto, bugiardo.
Le Olimpiadi sono una faccenda politica, non si può mica permettere a uno sbruffone venuto dall’Italia di rovinare tutto.
La Maratona
Il 6 aprile c’è la cerimonia di apertura dei Primi Giochi Olimpici dell’era moderna.
Di tutti gli atleti partecipanti, centosessantanove sono Greci, meno di ottanta vengono dal resto del mondo.
Carlo Airoldi non può partecipare.
Il motivo ufficiale è che i giochi sono aperti solo ai dilettanti e lui non viene considerato tale, perché ha vinto un premio in denaro nella gara Milano-Barcellona.
Intervengono le autorità italiane, arrivano lettere ufficiali in cui si spiega che nell’Italia di fine ‘800 nessuno può essere considerato podista professionista. Carlo lavora in fabbrica e corre nel tempo libero.
Ma l’organizzazione è inflessibile.
Si erano iscritti in ventidue, forse in venticinque, non è chiaro, ma non tutti hanno avuto il coraggio di cimentarsi in questa prova.
Allo sparo di partenza ci sono diciassette corridori. Tredici di questi sono greci.
A sparare il segnale di partenza c’è un ufficiale dell’esercito greco, che è anche l’organizzatore della squadra di podisti greci.
Gli unici che hanno mai provato a correre su una distanza così lunga sono i Greci.
Infatti, un mese prima, il comitato organizzatore ha indetto dei Giochi Panellenici, per permettere agli atleti greci di cimentarsi in gare simili a quelle Olimpiche prima delle Olimpiadi vere e proprie.
L’eroe nazionale
Il pubblico (composto quasi solo di Greci) affolla numeroso lo stadio di Atene, ma non sembra molto interessato alle varie discipline che si svolgono sotto i suoi occhi. Attendono tutti una cosa: l’arrivo dei corridori che sono partiti da Maratona. E vogliono tutti la stessa cosa: che a tagliare il traguardo sia un Greco.
Durante la gara, il francese Albin Lermusiaux, che ha avuto la sfacciataggine di essere in vantaggio, viene preso per il collo da un prete ortodosso.
Il greco Belokas, per non affrontare l’umiliazione di una ritirata, bara e si fa trasportare per un tratto su un carretto.
Mentre il pubblico attende trepidante nello stadio, un ciclista giunge di corsa avvertendo che in testa c’è l’australiano Flack. La risposta è un immenso boato di delusione.
Quando, invece, a tagliare il traguardo arriva il greco Spiridon Louis, l’esplosione di gioia è incontenibile. Il Principe Costantino e suo fratello Nicola scendono sulla pista e si mettono a correre a fianco del vincitore.
Spiridon Louis è proclamato eroe nazionale.
E l’antieroe
Carlo Airoldi, che è capace di correre per distanze molto, molto più lunghe di una maratona, che ha percorso duemila chilometri a piedi per partecipare a questa gara, che è talmente povero e talmente dilettante da aver dovuto chiedere una sponsorizzazione a una rivista sportiva per pagarsi il viaggio, è rimasto a guardare.
Un’avventura finita amaramente, eppure, forse proprio per questo, diventata icona del complicato rapporto tra sport, politica e denaro che inquina tutti i grandi eventi ancora oggi.
Carlo Airoldi non poteva gareggiare alla maratona perché aveva vinto la Milano-Barcellona, è vero, ma non c’entrava il premio in denaro; c’entrava il fatto che in quella occasione aveva dimostrato di essere così forte da entrare nel mito.
E allora, prima di concludere, raccontiamo cosa è successo in quella gara.
La Milano-Barcellona
Il grande rivale di Airoldi era il marsigliese Louis Ortègue.
Corsero per quasi tutta la gara testa a testa.
Mille e cinquanta chilometri suddivisi in dodici tappe, un duello massacrante.
Quando mancavano circa trenta chilometri al traguardo, Carlo Airoldi era in testa. Correva senza pensare alla stanchezza, senza ascoltare quella vocina insistente che diceva fermati fermati.
Carlo non si fermò, ma si voltò indietro a guardare. E vide Louis Ortègue piegarsi sulle ginocchia e barcollare.
Carlo continuò a correre. Ma non riuscì a non voltarsi ancora.
Si fermò e aspettò.
Quando Ortègue lo raggiunse, strusciando i piedi, Carlo Airoldi lo prese fra le braccia.
«Forza amico mio, non puoi mica mollare adesso».
Il pubblico in attesa lo vide arrivare al traguardo così, Carlo Airoldi, il vincitore: con Louis Ortègue caricato sulle spalle.
Ritorno in Italia
Al suo ritorno, Carlo Airoldi verrà intervistato, celebrato. E rapidamente dimenticato.
Parteciperà a molte altre gare, sfidando uomini e cavalli.
Sempre in cerca di fama e di soldi, partirà per il Sud America, per cimentarsi in prove di forza sempre al limite tra lo sport e l’esibizione da circo.
Tornato in Italia, si sposerà e avrà dei figli, che racconteranno di lui ad altri giornalisti, decenni dopo.
Perché a dispetto del tempo che passa, c’è sempre qualcuno che incappa nella sua storia e si innamora di questo abbattitore di confini, primo fra tutti quello tra coraggio e follia.
Un po’ atleta, un po’ fenomeno da baraccone, un po’ spaccone e un po’ cavaliere.
Carlo Airoldi era un piccolo gigante che aveva un sacco di muscoli, ma quello più grande e più forte di tutti era senza dubbio il cuore.
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DA says
carlo airoldi era di Origgio non Origlio. Un paese contiguo a saronno
Luca Ricatti says
Ciao DA,
Ti ringrazio per la segnalazione, sono le assurdità generate dal correttore automatico. Non me ne ero accorto!
Nadia Bottai says
Leggo tutti i tuoi racconti ed ognuno di essi mi lascia nel cuore sensazioni diverse, umiltà, paura, coraggio, modestia, e tanto tanto altro. Ogni tanto li rileggo per sentire ancora, nell’anima, quelle sensazioni che oggi appartengono a pochi.I tuoi racconti mi infondono tenerezza, dolcezza come fare una carezza ad un piccolo bambino. Questo, per me, è il tuo modo di scrivere anche quando certe situazioni sono forti tu riesci sempre a trovare il modo di cercare il buono in ogni cosa.
Luca Ricatti says
Nadia ti ringrazio per queste bellissime parole.
È un onore essere letti da persone con l’animo aperto come te.