«Sono partiti i fenicotteri?», chiede Franco Serantini.
No, sono ancora lì, nello stagno di Santa Gilla. Camminando di buon passo ci vuole circa un’ora.
Forse più tardi ci andrà.
Franco attraversa il corridoio del Buon Pastore, si affaccia nella camerata dove ha dormito per anni.
Nell’atrio si è fermato a guardare le foto di gruppo, dove è ritratto insieme agli altri ragazzi, gli altri figli di nessuno come lui.
«Come mai sei tornato?», chiede Madre Lidia.
«Per affari».
Non è vero, non ha affari da sbrigare, è solo un ragazzo. Ha preso la nave, si è imbarcato per tornare lì in Sardegna a rivedere i posti dove è cresciuto. Vuole provare a rimettere insieme i pezzi.
Camerate, muri, sbarre, orari, regole.
Franco è cambiato, ha capito delle cose. Era un pessimo studente, svogliato e arrabbiato. Ora che è cresciuto cerca di recuperare. Ora non pensa più che la sua solitudine sia un problema personale, ma sociale. Il dolore di quelli come lui dipende soprattutto da come vengono bollati, rinchiusi, controllati. Senza mai ricevere l’unica cosa che fa di un uomo un essere umano: amore.
Siamo nella primavera del 1972.
Bastardi
Le vacanze di Pasqua stanno finendo, ma sarebbe meglio non tornare a Pisa.
Sarebbe meglio restare lì, lontano da tutto, perché a Pisa lo attende un destino orribile.
Anche se non ce ne rendiamo conto, nel linguaggio che usiamo tutti i giorni la condizione di orfano, di chi è nato senza la dignità di una vera famiglia, è intesa come un insulto. È sinonimo di crudele, sleale, infido, senza scrupoli: bastardo, figlio di puttana, figlio d’un cane.
Questo ragazzo, questo Franco Serantini non è così.
A due anni, Franco (Francesco) Serantini aveva abbandonato l’orfanotrofio per essere affidato a una coppia che viveva in un paesino della Sicilia meridionale chiamato Campobello di Licata.
Ma poi la donna era morta e l’uomo non aveva ottenuto l’affido. Il piccolo Franco era passato ai genitori di lei, che però erano divenuti presto troppo vecchi.
A nove anni, le istituzioni decisero di rispedirlo in Sardegna, dove non conosceva nessuno, e Franco finì al Buon Pastore.
Da lì, una volta divenuto troppo grande, era stato mandato prima a Firenze e poi a Pisa, in un riformatorio.
Franco Serantini non era un giovane delinquente, non aveva commesso alcun reato.
Semplicemente, lo Stato non era in grado di offrire niente di meglio per dormire e mangiare, a uno come lui, che un carcere minorile.
Il giovane Franco Serantini fu condannato al riformatorio, in regime di semilibertà, perché nato bastardo o figlio di puttana. Ma da quella condizione voleva provare a cambiare il mondo.
Capire il mondo, cambiare il mondo
Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, Pisa è in grande fermento. Il movimento studentesco e quello operaio danno battaglia, la città offre grandi stimoli a un ragazzo che non ha cultura ma prova a farsela.
Franco è passato per le sezioni giovanili del Partito Comunista e di quello Socialista. Ha militato per un po’ in Lotta Continua, ma poi si è stancato dell’organizzazione gerarchica, quasi militarizzata.
La lezione più importante che ha ricevuto dalle istituzioni che lo hanno cresciuto è l’odio per la burocrazia, i capi, l’autorità.
Uno dei suoi migliori amici è Sauro Ceccanti. Suo fratello Soriano è paraplegico perché, nel dicembre del ’69, durante una manifestazione, un poliziotto ha sparato un proiettile ad altezza uomo e l’ha ferito gravemente.
Proprio nel ’69 l’Italia è stata scossa dall’attentato di Piazza Fontana, la morte di Pino Pinelli e l’arresto di Valpreda. Franco rimane molto colpito da quelle vicende e si avvicina agli anarchici.
Entra a far parte di un piccolo collettivo anarchico giovanile intitolato a Pinelli.
«Tu sei un altro Valpreda – gli dice una volta un amico più grande di lui – stai attento, sei un predestinato».
Di più, molto di più: la storia di Franco Serantini sembra quella di un Cristo troppo giovane.
Ha le idee chiare. Quello che ha passato è uno sprone potente. È deciso, risoluto e carismatico.
Lui e i suoi amici producono volantini, discutono. C’è l’avventura del mercato rosso del CEP.
Ragioni pratiche
Il CEP è un quartiere della periferia ovest di Pisa, abitato da gente povera.
Alcuni ragazzi, tra cui Serantini e gli altri del Gruppo Pinelli, hanno fatto questa pensata: si fa una colletta, si compra della roba ai mercati generali e la si rivende alla gente del CEP a prezzo di costo.
Gli abitanti del posto rispondono con grande partecipazione all’iniziativa di solidarietà. Meno entusiasti sono i commercianti. Neanche il Partito Comunista vede di buon occhio iniziative come questa, che rischiano di spaventare ancora di più il ceto medio e allontanarlo dalla sinistra.
Le ragioni pratiche per cui non si può cambiare il mondo.
Intervengono i Vigili Urbani a chiedere autorizzazioni e pezzi di carta, ma anche bande di fascisti a menare bastonate e cinghiate.
Già perché a Pisa non ci sono solo comunisti e anarchici, ci sono anche gli industriali, le vecchie famiglie aristocratiche, la Chiesa, la Democrazia Cristiana. E la manovalanza neofascista.
Questione di politica
La Democrazia Cristiana governa ininterrottamente l’Italia dalla fine della guerra. Nella primavera del ‘72 a capo dell’esecutivo c’è Giulio Andreotti. Ma tra poco ci saranno le elezioni e il Movimento Sociale Italiano ha guadagnato molti consensi, erodendo a destra la DC.
Così succede che i democristiani si mettono a rincorrere la destra e la campagna elettorale è tutta sul tema legge e ordine.
Candidato per il Movimento Sociale Italiano a Pisa c’è l’onorevole Beppe Niccolai, che vuole fare un comizio a Largo Ciro Menotti.
Largo Ciro Menotti è una minuscola piazzetta circondata da vicoli chiusi tra i palazzi, in pieno centro storico, dieci minuti a piedi da Piazza dei Miracoli.
Il Sindaco è contrario. Per ovvie ragioni di sicurezza vorrebbe che i comizi si facessero in piazze più ampie e meno centrali. Ma DC e MSI fanno muro.
Allora il Sindaco dice che va bene, ma ognuno si prenderà la responsabilità delle proprie decisioni.
Ovviamente non succederà, nessuno si prenderà la responsabilità di un bel niente.
E sta per avverarsi un disastro.
Ma perché i democristiani di Pisa si espongono per permettere al Movimento Sociale di fare il comizio in Largo Menotti?
Perché così vogliono a Roma.
La trovata machiavellica del governo guidato da Andreotti è questa:
– si lascia fare ai fascisti il comizio in quel luogo difficile;
– si porta a Pisa uno schieramento di polizia gigantesco;
– la sinistra extraparlamentare scende in piazza tutta arrabbiata spaventando cittadini, turisti e commercianti;
– si arrestano tutti i manifestanti;
– si dimostra a tutta l’Italia che La DC è capace a mantenere l’ordine;
– il popolo capirà che non serve votare troppo a destra.
Legge e ordine
Un esercito fatto di celerini e carabinieri invade Pisa.
I contestatori, militanti di Lotta Continua, anarchici, ma anche semplici operai e studenti, convergono in un corteo. Vanno in bocca ai leoni.
Beppe Niccolai sta arringando in una piazza circondata da agenti in tenuta antisommossa.
Valeria è giovane e sveglia. Sa che sta per succedere qualcosa di brutto e vuole togliersi dai piedi.
Franco è totalmente imbranato con le ragazze, ma sa farsi volere bene. Il padre di Valeria, Luciano Della Mea, è un noto attivista politico, lo zio è il cantautore Ivan. Tutta la famiglia di Valeria conosce Franco, a volte se lo portano a fare delle gite domenicali.
Lei sta passando sul Ponte di Mezzo, quando lo incontra. Gli dice di venire via, che tira una brutta aria.
«Non mi beccano», risponde lui un po’ smargiasso.
Di lì a poco, scoppia la guerra.
Camionette blindate corrono per il centro di Pisa sfondando barriere di fortuna costruite dai manifestanti. Poliziotti sparano candelotti lacrimogeni mirando al volto dei manifestanti, ragazzi vengono rincorsi fin dentro i portoni dei palazzi e dentro i negozi per essere pestati a sangue e poi arrestati. Diversi testimoni riferiscono di alcuni agenti che sparano con la pistola ad altezza uomo. Semplici passanti sono costretti a fuggire per non essere colpiti dalla polizia inferocita, altri raccolgono dai marciapiedi ragazzi privi di sensi.
Il centro di Pisa è fumo, sangue e sirene.
Chi non si dà alla fuga è spacciato.
Un corteo silenzioso
E poi è finito tutto.
Ora c’è silenzio, il proverbiale silenzio assordante.
«Come ti chiami?»
«Franco Serantini»
Sono passati quattro giorni dagli scontri.
Il Commissario Giuseppe Pironomonte è di nuovo di servizio, bisogna controllare che non ci siano incidenti.
Fermo in piedi, guarda sfilare una massa muta di persone.
«Perché eri lì?»
«Perché ci si crede»
«E in che cosa credi?»
Un lungo corteo che attraversa tutta la città. Ci sono anarchici da tutta la Toscana, i giovani in jeans e i vecchi coi cravattoni neri di una volta. Ci sono quelli di Lotta Continua, ci sono operai e studenti, ci sono gli abitanti del CEP. Ci sono tutti i suoi amici. Ci sono Sauro Ceccanti e suo fratello Soriano sulla sedia a rotelle, c’è Valeria e anche suo padre Luciano.
Ci sono striscioni e bandiere con la A, ma non ci sono canti né slogan. È un enorme corteo funebre.
Picchiatori
Quattro giorni prima, il Commissario Pironomonte era su una camionetta della Polizia, sul Lungarno Gambacorti.
Era il cinque maggio e Beppe Niccolai stava facendo il suo discorso in Largo Menotti.
«Perché eri lì?»
«Perché ci si crede»
«E in che cosa credi?»
La camionetta sfrecciava tra i fumi dei lacrimogeni.
Pironomonte ordinò di frenare, si catapultò fuori insieme ai suoi, si tuffò nella mischia. Afferrò il braccio di un collega che impugnava un manganello. Gridò:
«Basta, così lo ammazzate!»
Quello reagì male. Scoppiò una lite tra i due gruppi di poliziotti, tra quelli scesi dalla camionetta e quelli che stavano intorno al ragazzo e picchiavano come furie, coi manganelli, coi calci dei fucili, con gli scarponi.
Fuori controllo, violenza cieca. C’è chi dice che erano in cinque, chi dice che erano in quindici, di sicuro erano tutti grossi il doppio di Franco Serantini.
Di sicuro Franco era solo e disarmato.
Dopo aver sottratto il ragazzo al linciaggio dei colleghi, Pironomonte e i suoi lo caricarono sul furgone, sfondarono un’altra barricata, fecero dei giri e alla fine lo portarono in caserma.
A meno di dieci minuti di macchina c’era l’ospedale Santa Chiara. Lì Franco lo avrebbero accolto a braccia aperte, lo conoscevano tutti perché era donatore di sangue regolare, iscritto all’Avis.
Ma quel giorno Franco Serantini era andato a protestare contro chi nega la democrazia e fu arrestato.
Venne identificato, interrogato e incarcerato.
A domanda, l’interrogato Serantini Franco, nato a Cagliari il 16 luglio del 1951, rispose.
«Perché eri lì?»
«Perché ci si crede»
«E in che cosa credi?»
Lo videro in tanti: poliziotti, un magistrato, guardie penitenziarie, un medico. Solo gli altri ragazzi fermati e gli altri detenuti sembrarono accorgersi che Franco stava malissimo.
Non si reggeva in piedi, aveva un occhio gonfio, un ematoma enorme. Chiunque lo avesse guardato con appena un po’ di interesse avrebbe capito subito che si trattava di qualcosa di serio, non della solita manganellata.
La cura che gli somministrarono fu: borsa del ghiaccio.
Ponzio Pilato si lavò le mani.
Due giorni dopo, Franco Serantini venne trovato in coma nella sua cella. Lo portarono al Pronto Soccorso del carcere, e lì è morto poco dopo.
Obiezioni di coscienza
Ora, a quattro giorni di distanza, il Commissario Pironomonte è in piedi a guardare il corteo funebre. Non è tipo da farsi uscire la lacrimuccia.
Ma ha qualcosa dentro lo stomaco.
Non è certo un rivoluzionario, lui. È vero, qualche collega lo ritiene di vedute troppo aperte, per questo evita di raccontare di essersi laureato in Giurisprudenza con una tesi sull’obiezione di coscienza. Certe cose, in certi ambienti, è meglio tenersele per sé.
Ma non è mica uno che vuole fare la rivoluzione, lui. Ha deciso di fare il poliziotto perché ci crede.
Ci credeva.
Voleva provare a cambiare un po’ il mondo.
Sì, ma tu perché eri lì?
«Perché ci si crede»
«In che cosa credi?»
«Sono anarchico», aveva risposto Serantini Franco, con la testa poggiata al tavolo dell’interrogatorio. Era orgoglioso, non voleva piegarsi, ma proprio non riusciva a tenere il collo dritto.
«Ho male al capo, mi hanno picchiato», spiegò laconico a chi gli diceva di stare composto.
Soltanto durante l’autopsia lo hanno guardato: il suo corpo era completamente martoriato di lividi e sangue.
Davanti alla tomba del ragazzo la folla intona L’Internazionale col pugno in alto. Tanti neanche lo conoscevano, sanno solo che era una ragazzo povero, senza famiglia, che provava a cambiare il mondo e che era anarchico come loro. Pietà, rabbia e tristezza. Impossibile restare indifferenti, anche per chi, quel giorno, era dall’altra parte della barricata.
Sulla lapide sta scritto:
«Franco Serantini, anarchico ventenne, colpito a morte dalla Polizia mentre si opponeva a un comizio fascista».
È tutto lì, in quella frase incisa per sempre nella pietra.
Di lì a poco, il Commissario Giuseppe Pironomonte si dimetterà dalla Polizia. Troverà un posticino in un ufficietto di un ministero qualsiasi. Non parlerà mai di quei fatti, ma dentro casa conserverà, fra le altre cose, una foto di Franco Serantini.
Molti attivisti pisani si faranno in quattro per dare giustizia a Franco, tra cui Luciano della Mea. Suo fratello Ivan Della Mea scriverà una Ballata per Franco Serantini.
A Franco saranno dedicate una scuola e una biblioteca.
Un paio di anni dopo la sua morte, Corrado Stajano pubblicherà il libro Il Sovversivo, vita e morte dell’anarchico Serantini (da cui sono tratte la maggior parte delle informazioni per questo racconto), frutto di un meticoloso lavoro di inchiesta sul campo. Un testo che si vende ancora oggi, a decenni di distanza, e che forse più di ogni altra cosa ha contribuito a mantenere viva la memoria di questo ragazzo che è diventato un simbolo.
Non sarebbe stato meglio restare a guardare i fenicotteri?
Forse, ma c’era da cambiare il mondo.
Ma non ha mica cambiato il mondo, Franco Serantini.
Però ci ha provato. E comunque, forse, un po’ sì.
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Giuseppe Tadolini says
La vicenda di Franco Serantini la ricordo molto bene.
E anche le parole finali della ballata, nell’interpretazione di Giovanna Marini:
“..tenetemi nel cuore, ci dice Seratini,
tornate partigiani
ed io non morirò,
ed io non morirò…”