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☜Prima Puntata
Il sole era tornato a squarciare il cielo estivo.
Dopo aver brillato tutto il giorno, si avviava a scendere dietro le colline e dietro il bosco.
I temporali erano ormai lontani.
Gli uomini del paesino s’erano radunati davanti al portone chiuso della chiesa. Chi portava un bastone, chi un falcetto, chi un forcone. Ognuno aveva la sua da dire, tutti urlavano e si attizzavano a vicenda.
Il prete, le donne, i vecchi e i bambini se ne stavano dietro le finestre chiuse che circondavano la piazzetta.
«Lo Governatore è bono solo a fà le chiacchiere!»
«Che mannasse li soldati!»
«Sò settimane che dice da stare boni!»
«Che aspetta? Che trovamo morto lo sesto bambino?»
«Indove sarebbe finito sto eroe ammazza orchi? Nessuno lo ha visto né sentito!»
«È scappato! Quarcheduno l’ha aiutato a fuìre!»
«E lo sapemo tutti chi è stato!»
«Io dico: annamo da quella stregaccia maledetta che vive nello bosco! Ce deve dicere indove è annato l’eroe! E se non parla quant’è vero Iddio la scannamo, a lei e a quello cacasotto de lo marito suo!»
Il tempo delle parole e delle attese era finito.
Era il momento del sangue.
Ma non tutti erano d’accordo su quale sangue dovesse scorrere prima.
«Io dico: che ce ne viene de trovare l’eroe de lo Governatore? Io dico: annamo a trovarlo noi l’Orco! Troviamolo e scanniamolo! Tutti insieme! Che ciavesse puro la forza de dodici òmini, che noi semo venti e più! E ciavemo le lame e li bastoni e le torce per abbruciarlo vivo!»
A quel punto, le urla si trasformarono in brusio.
Il coraggio di ammazzare una vecchia disarmata lo trovavano tutti. Ma con un Orco gigantesco, la faccenda era diversa.
Allora emerse una vocetta stridula.
Era di un ometto magro e curvo, nascosto dalle schiene delle ultime file.
«È giusto, è giusto!», disse. «Tutto lo male nostro viene da quella bestia malnata!»
Il brusio s’interruppe.
Tra gli uomini s’era aperto un varco. S’erano tutti voltati a guardarlo.
«Dobbiamo scovarla, scannarla e abbruciarla, che lo foco possa mondare l’anima maledetta che tiene in quello corpo bestiale!»
«Lo dobbiamo Infilzare e abbruciare!», continuava. «Però io dico questo: quella bestia infernale vive nello fitto de lo bosco, dallo bosco viene e nello bosco ritorna dopo le sue orrende imprese. Ma pensiamo un attimo: chi altro vive nello bosco?»
A questa domanda, il brusio ricominciò.
Ma l’ometto riprese a parlare e gli uomini si zittirono:
«Chi è stato a dicere sempre, in tanti anni, che la bestia non era assassina? Chi vive nello disprezzo delle leggi de lo Signore?»
«È la vecchia!», strillò uno, dando voce ai pensieri della folla.
«Io dico», incalzò l’ometto: «troviamo la vecchia e troveremo la bestia!»
Esplose un coro di approvazione.
«Come può non sapere, quella strega? Quali segreti nasconde? Io dico: che parli!»
E la folla s’incamminò, senza più dubbi o timori che la dividessero.
Alcuni portavano delle torce accese.
L’ospite
La carrozza attraversava il vialetto che portava alla residenza del Governatore. Il sole di mezzogiorno infuocava ogni cosa.
Il Comandante delle guardie s’incamminò a passi lunghi, accompagnato da due soldati.
Il Vicario Pontificio era un uomo alto, magro, con un naso aguzzo, occhi a fessura e labbra sottili.
Scese dalla carrozza facendo commenti sugli uccelli di cui sentiva il canto tutto intorno. Non si aspettava alcuna risposta dai soldati e, anche se ci fosse stata, non l’avrebbe ascoltata.
Aveva braccia lunghe e nervose, mani grandi e dita sottili.
Portava la spada al fianco e aveva un lungo mantello che scendeva fino a terra.
Era un soldato, ma al Comandante delle guardie del Governatore non era simpatico. Il Signor Vicario usava troppe parole difficili e dava troppa importanza ai vestiti eleganti. Ma guidava un esercito di mercenari e rappresentava il Papa, per questo il Governatore era disposto a fargli continue concessioni. E aveva fama di essere un tagliagole svelto di mano.
Le guardie rimasero fuori, il Comandante e il Vicario attraversarono la soglia del portone.
Il Governatore gli andò incontro a braccia aperte.
Il Vicario lo salutò a mezza bocca. Andarono nella sala da pranzo.
Addentava il maiale arrosto dalla punta della forchetta, sorseggiava il vino tenendo il calice con due dita, si puliva la bocca dopo ogni boccone. Non smetteva mai di mangiare e rispondeva alle domande del Governatore solo a monosillabi. E solo se non poteva farne a meno.
Divorava un piatto dopo l’altro, con calma ma senza mai fermarsi.
Bevve tanto di quel vino da ubriacarsi.
I discorsi del Governatore non lo interessavano affatto, sembrava appena sentirlo.
Quando ebbe finito di mangiare e di bere, s’alzò con un grosso rutto a bocca chiusa.
«Ora voglio riposare nelle mie stanze», disse. «Appena possibile, avrei piacere di ricevere uno di quelli omaggi che sapete».
Piegò un tovagliolo in forma di triangolo, lo posò accanto al piatto sporco e si incamminò senza aspettare che un servo gli facesse strada.
Passaparola
«Fa’ chiamare lo Brutto», disse il Governatore.
Il Comandante stava per dire qualcosa, ma il Governatore sollevò la mano per zittirlo:
«Questa storia finirà, in un modo o nell’altro. Abbiamo da portare pazienza. E lo so: lo popolino è nervoso per questa faccenda. Ma lo popolo è meglio averlo nervoso che fatto a brandelli dalle spade de uno esercito de mercenari.
«È uno sacrifizio che si deve compiere per uno bene più alto. Qualche pastorello invece che cento donne e cento bambini e cento vecchi. E cento òmini ammazzati che ponno lavorare, strappare frutti alla terra. E pigliare le armi, quando serve.
«E mó basta chiacchierare. Avvisa lo Brutto: entro domani ha da trovare lo regalo per lo ospite nostro.»
Il Comandante uscì nel cortile.
Arrivò a grandi passi vicino a un soldato che stava affilando un coltello su una pietra. Gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio.
Quello annuì, infilò il coltello in un fodero che teneva al fianco e s’incamminò verso le stalle. Ne uscì a cavallo e lasciò il palazzo al trotto. Quando fu abbastanza lontano, colpì i fianchi dell’animale con gli speroni e partì al galoppo.
E galoppò fino alle soglie del paesino.
Chiese un’informazione a un contadino di passaggio su un carretto e ripartì.
Trovò il Brutto nei pressi di una casetta alla fine del paese.
Il Brutto era un ometto magro e curvo e dalla vocetta stridula.
«Entro domani?», protestò.
Il soldato non gli rispose, ma gli lanciò un sacchetto pieno di monete. Poi rimontò, si diede un’occhiata in giro per controllare di non essere stato visto, rimontò in sella e galoppò via.
L’ometto magro e curvo rientrò in casa col sacchetto tintinnante e ne riuscì subito dopo, tenendo in mano una sola moneta.
Si avviò verso il centro del paese.
Era ormai pomeriggio e gli uomini si stavano già radunando nella piazza.
Si mise in fondo ad ascoltare.
Poi, quando le urla si furono calmate, disse quello che doveva dire e tutti lo ascoltarono.
Belve
Intanto, nel bosco, Giovanni Benforte parlava.
Non era mai certo di quanto l’Orco lo ascoltasse.
Raccontava frottole e faceva trucchi.
A un certo punto aveva preso un sasso bianco in una mano e un fungo dello stesso colore nell’altra. Aveva giocherellato con il sasso per farlo notare, tenendo nascosto il fungo. Al momento giusto li aveva scambiati facendo credere all’Orco di aver stritolato il sasso con una mano. Un vecchio gioco di prestigio che faceva da ragazzino. L’Orco era parso impressionato.
Erano passati giorni.
E notti.
Bivaccava nella grotta dell’Orco da quando ancora c’erano i temporali.
Di giorno sudava per il caldo, di notte dormiva sulla nuda terra. I capelli si univano in grossi ciuffi impastati di polvere e sudore. Non sentiva neanche più l’odore dell’Orco.
Durante il giorno cacciavano qualche animale, andavano al ruscello a bere, sonnecchiavano sotto qualche albero.
Una volta avevano assaltato un gregge di pecore e ne avevano rubata una.
Giovanni Benforte aveva insegnato all’Orco a cucinare la carne sul fuoco.
«Ho sentito due paesani che parlavano al fiume, qualche giorno addietro», disse mentre stavano raccogliendo legna.
«Dicevano di voler dare la caccia a una creatura del bosco che si piglia i bambini».
L’Orco non disse nulla.
«Dicevano che vogliono dare la caccia alla bestia e scannarla».
L’Orco raccoglieva rami grossi come tronchi di piccoli alberi e se li caricava sotto il braccio.
Giovanni si avvicinò a una quercia quando sapeva di essere osservato. Fece per abbracciarla.
«Se sradico questa ciabbiamo legna per tutto l’anno», disse ansimando.
«Non puoi sradicare una quercia», grugnì l’Orco. «Li alberi devono stare allo posto loro. Sennò lo bosco muore. E poi n’ho già presa abbastanza, de legna».
Si voltò e prese il sentiero che riportava alla caverna.
Poi disse senza voltarsi:
«Non è la bestia che piglia i bambini. Sono i bambini che ci vanno, dalla bestia».
Giovanni Benforte sentì una stretta allo stomaco.
«E tu l’hai vista, questa bestia?»
«Io no, ma sta in un posto vicino alle case de pietra de li òmini».
«La voglio vedere», disse Giovanni.
L’Orco si fermò e si voltò verso di lui. Lo fissò sbuffando dal naso.
«Perché?», chiese.
C’era stato un tempo in cui Giovanni Benforte era stato abile a dire parole che potessero avere due significati.
«Mi piacciono i bambini», disse solo.
L’Orco si voltò e proseguì in silenzio.
Una moneta
Era l’ora in cui i pastori tornavano con le greggi.
L’ora in cui gli uomini del paese s’erano incamminati verso il bosco.
In cui il tramonto arrossa il cielo. Per questo nessuno aveva ancora notato il fiammeggiare lontano.
Un ometto magro e curvo e dalla vocetta stridula, chiamato lo Brutto, aspettava seduto su un sasso tra i campi erbosi.
La bambina passava di lì tutte le sere. Aveva un cestino di more sotto un braccio.
Aveva nove anni.
«La vuoi una moneta d’oro?»
La bambina si incamminò con la lettera in mano.
Una moneta d’oro per recapitarla a un Signore, uno che stava nella residenza del Governatore.
Avrebbe dovuto fare un profondo inchino e dargli la lettera. E poi aspettare che il Signore le desse il permesso di andarsene.
Lui l’avrebbe aspettata lì, a qualsiasi ora fosse tornata, anche di notte.
L’avrebbe aspettata con altre monete d’oro come quella.
E anche con un coltello, ma questo il Brutto non lo disse.
«Lascia pure qui il cesto di more. Lo riprenderai al ritorno».
La bambina si incamminò verso la casa del Governatore.
Alle loro spalle, il cielo era più rosso del solito. Più rosso di un normale tramonto.
Una colonna di fumo si stava alzando dal bosco.
Ma ci sarebbe voluta almeno un’altra ora, prima che qualcuno iniziasse a gridare al fuoco.
Al fuoco!
All’inizio erano volate male parole.
La vecchia era sola in casa. Aveva gridato dalla finestra:
«Andatevene!».
Ma gli uomini del paese non se ne erano andati.
Era arrivato il marito e se li era trovati lì.
Gli uomini del paese lo avevano aggredito.
Lo avevano picchiato con calci e pugni, il vecchio caduto subito a terra.
E lei era uscita fuori correndo.
Non le permisero neanche di arrivare da suo marito che agonizzava. La presero, la picchiarono con schiaffi, pugni e calci.
Poi portarono entrambi dentro la casa nel bosco e appiccarono l’incendio.
L’odore di bruciato arrivò alle narici dell’Orco mentre tornava verso la sua grotta.
Giovanni Benforte lo guardava annusare l’aria e non capiva.
«Fuoco», disse la bestia. «Fuoco grande».
E poi s’incamminò seguendo la scia.
Giovanni gli andò dietro senza dire niente.
Poi cominciò a sentire anche lui. Vide la luce rossastra diffondersi tra gli alberi. Il fumo iniziò a bruciare gli occhi.
«Brucia, brucia il bosco!», ripeteva l’Orco.
Giovanni Benforte non avrebbe mai pensato di sentire una simile inclinazione di disperazione nella voce della belva.
«Brucia il bosco! Brucia il bosco!»
Prima di scappare per non essere divorati anche loro dalle fiamme, fecero in tempo a vedere la casa che bruciava.
L’Orco urlò, forte.
Ma non era disperazione, quella.
Era furia.
E Giovanni Benforte ebbe paura.
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Gianni says
Ma quante puntate pensi di scrivere?
Comunque complimenti ma fa presto che l’aspettativa è alta.
Bravo
Luca Ricatti says
Non dipende da me, è la storia che si prende i suoi tempi!
Comunque grazie!