Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Dopo un’ora di viaggio, il vento che gli sferzava la faccia era diventato insopportabile. Ma se guardava alle sue spalle, Antonio tornava a rendersi conto di essere molto fortunato.
Il vagone merci in cui stava stipato insieme a dozzine di altre persone era talmente sudicio e maleodorante che stare affacciati sulla soglia del portellone era una benedizione. Nessuno parlava: chi rannicchiato a terra, chi in piedi, ognuno se ne stava coi suoi pensieri. Si udivano solo lo sferragliare del treno, il rombo del vento e, a intervalli regolari, colpi di tosse secca da qualche punto, nel buio.
Tutti i vagoni avevano i portelloni spalancati, altrimenti il puzzo sarebbe stato insopportabile. Antonio viaggiava col volto rivolto verso la coda del treno, per non avere occhi e bocca spazzati dal vento o investiti dagli insetti.
Ma i suoi pensieri non andavano al sudiciume del vagone, ai corpi ammassati, né al vento in faccia: andavano al paesaggio, sempre identico per tutto il tragitto.
La ferrovia attraversava immense distese di campi d’oro, interrotte qua e là da qualche villaggio di contadini. Le coltivazioni d’oro si seguivano senza soluzione di continuità da quando il treno aveva lasciato la stazione, in un lento su e giù tra le colline punteggiate di baracche dove i braccianti tenevano gli attrezzi da lavoro.
Ad un tratto lo sferragliare del treno iniziò a rallentare.
Quando il secchio pieno d’acqua arrivò nelle sue mani, Antonio fece come tutti gli altri: tirò su il mestolo, bevve a grandi sorsate e poi passò tutto al tizio alla sua destra. Stavano tutti in piedi, più o meno in fila, con le spalle al treno e gli occhi all’infinita distesa di campi d’oro. Dopo aver tuffato il mestolo nel secchio ed essersi asciugato la bocca su una manica, il tizio alla destra di Antonio gli rivolse la parola:
«Te sei quello che sòna in giro pe i villaggi. Na volta sei venuto a Rocca Bianca»
«Due volte», lo corresse Antonio squadrando il ragazzo per capire se lo conosceva. «Sò un giorno e mezzo de viaggio, da casa mia. Ci sò venuto d’estate, quando faccio giri de alcuni giorni su pe le montagne». Poi fu distratto da qualcosa che si muoveva in basso: un topo annusava la terra a un metro da loro. Si girò a fissare ancora il tizio: era giovanissimo, sedici, diciassette anni:
«Vieni da laggiù? Te la sei fatta a piedi?», gli chiese.
«Ho camminato quattro giorni! Sò passato da tutti i paesi lungo la costa delle montagne e poi ho attraversato la vallata de giorno, pe evità li Spettri Neri. Ho dovuto lascià mamma e na sorella. Al paese mio oramai ce sta solo la miseria. Mi padre e mi fratello se l’è portati via la tosse.»
«La tosse?», chiese Antonio.
«La tosse, te credo! Indove abiti te nun c’é? Chi dice che è colpa del vento, chi della pioggia, Mi padre diceva che sò li topi.»
«Li topi?»
«Diceva che lui l’aveva visto in guerra: che la gente pe nun morire de fame se magnava li topi e poi s’ammalava. Ma nun lo so se è vero, mi padre parlava sempre de la guerra…»
Il topo si avvicinò ad annusare la scarpa di Antonio.
I Signori
Ora davanti ai suoi piedi c’era un grosso ammasso di escrementi di cavallo.
La goccia di sudore che penzolava dall’arcata del suo sopracciglio cadde finalmente dentro l’occhio: era salata e l’occhio iniziò a bruciare. C’era un barroccio tirato da un mulo alla sua sinistra, alla sua destra una vecchia signora col bastone tenuta sotto braccio dalla sua serva e, dietro di lui, una massa di gente che si spostava confusamente attraverso il mercato.
Antonio doveva spostare il suo carico pesante, stava intasando il passaggio.
Era una giornata fredda, ma il sudore gli colava lungo la schiena ed era rosso in viso.
Se avesse pestato gli escrementi di cavallo avrebbe imbrattato il pavimento delle case dei Signori. Diede uno strattone ai manici del pesante carretto che trascinava per farlo muovere di due passi con uno slancio e, mentre quello avanzava verso la sua schiena, saltò l’ammasso di letame.
«Permesso, permesso!», gridava per farsi largo: «Attenzione!».
La gente si spostava malvolentieri, oppure non lo sentiva perché distratta da altro. E quando rischiava di essere investita gli gridava dietro imprecazioni.
Antonio trascinava un carretto a mano di legno, carico di pacchi: ognuno di questi era destinato alla casa di un Signore.
Non conosceva i nomi delle affollatissime stradine e doveva continuamente fermarsi a chiedere indicazioni. E non tutti sapevano o volevano rispondergli. Un uomo gli aveva fatto cenno di aspettare, che gli avrebbe indicato la strada: ma non riusciva a smettere di tossire e Antonio lo lasciò.
Quando infine si fermò davanti all’ingresso che stava cercando, vide che era un enorme portone, aperto su un vasto chiostro. Circondato da archi finemente scolpiti, c’era un giardino in cui si incrociavano vialetti con panchine, circondati da bassi cespugli potati e illuminati dal sole. Alle spalle di Antonio il vociare confuso, gli zoccoli dei cavalli, le grida dei venditori; dinnanzi a lui la calma irreale del giardino.
Fece tre passi in avanti, tirandosi dietro il carretto.
«Fermo là!». La voce spuntò dall’ombra dell’ingresso, seguita da un omone che indossava una livrea rossa: «Andò vai co sto carretto?!»
«Devo fà una consegna», rispose Antonio.
«Embè, mica poi entrare da qua! C’è l’ingresso de servizio!»
«E dove sta?»
«Devi fa tutto il giro del palazzo. E sbrìgate a levà de mezzo sto coso», disse indicando il carretto.
L’ingresso di servizio era molto stretto e Antonio fu costretto a lasciare il carretto fuori, incustodito. Trasportava merce di valore, ma non poteva fare altrimenti. S’infilò per la stretta scala mettendosi sulla spalla destra il pesante pacco che doveva recapitare. Ansimando giunse al secondo piano e bussò a una piccola porta di legno scuro, l’unica che c’era.
Gli aprì una donnetta curva con indosso un grembiule immacolato.
«Devo consegnà sto pacco», le disse.
La donnetta non rispose, prese il pacco, lo posò sul tavolo alla sua sinistra, tirò fuori un grosso coltello da cucina e tagliò lo spago che lo chiudeva. Aprì il pacco e ne tirò fuori il contenuto: una statuetta alta più di un braccio che raffigurava un gufo con le ali spiegate, il becco spalancato e gli artigli tesi, come in procinto di afferrare una preda. La statua era interamente fatta di oro.
La donnetta col grembiule posò la pesante statuetta sul tavolo con un gemito e fece segno di aspettare. Poi si allontanò.
E dopo molti minuti, Antonio era ancora lì in attesa.
Non poteva aspettare oltre, in strada c’era il carretto incustodito, doveva andarsene. Perciò entrò a cercare la donnetta.
Si accorse di essere dentro una cucina, la attraversò e sbucò in un vasto corridoio lastricato di marmi, nel quale correvano file di statue d’oro. Dalle pareti sputavano grossi candelabri d’oro e perfino il pavimento era cesellato con intarsi d’oro tra i marmi.
La donnetta spuntò da una delle porte che affacciavano sul corridoio in preda a un attacco di tosse. Gli fece cenno che la consegna andava bene, avvicinandosi, poi lo spinse senza gentilezza, per farlo tornare indietro più in fretta possibile: era sporco e sudato, non era conveniente che i Signori lo vedessero in casa.
Sbattuto fuori della porticina da cui era entrato, Antonio si fermò un attimo.
Si sentiva sfinito, ma era solo la prima consegna, doveva farne altre otto.
Il Contratto
L’uomo col naso schiacciato stava seduto dietro un tavolaccio di legno tutto graffiato. Da un lato c’era un grosso orologio, col quale controllava l’orario di partenza e di arrivo dei facchini, dall’altro c’erano fogli ammucchiati con nomi e indirizzi. Stava rovistando in un cassetto.
Il sole era già scomparso dietro i palazzi e la stanzetta era illuminata solo da una piccola lampada a gas sul davanzale della finestrella. Nell’alone giallo emanato dal lumino, l’uomo col naso schiacciato pieno di porri appariva quasi mostruoso.
Antonio non aveva idea di quanto avrebbe rimediato per quella giornata di lavoro. Era stanco. E non sarebbe tornato a scaldare e riposare le ossa dalla sua famiglia, nella sua casa. Non quella sera.
«Te la sei cavata», disse l’uomo col naso schiacciato: «Ciài messo tutta la giornata, ma lo sapevo: vieni da fuori, nun conosci le strade… ». Gli mise sotto il naso un foglio con un sacco di scritte e gli porse una penna: «Lo sai scrive il nome tuo?», chiese guardandolo in faccia.
«Che è sto foglio?», disse Antonio rispondendo allo sguardo.
«Ce sta scritto che accetti il lavoro. Se l’accetti, devi firmà»
«Ma che devo accettà?», fece Antonio. «Ho già lavorato! Ho portato statuette d’oro in giro pe tutta la città!»
«Questa era na giornata de prova!», ringhiò l’uomo col naso schiacciato. «Ahó, nun me fa perde tempo! Se vòi il lavoro, firma: vieni qua tutte le mattine, te dai da fà e a fine mese te metti in tasca quarantotto lire. Se nun te sta bene, quella è la porta. Gambe e braccia forti nun me mancano. Hai visto quanti ragazzi sò scesi dal treno?»
Un mese.
Era buio pesto. L’unico rumore erano i colpi di tosse dell’uomo sdraiato ai suoi piedi. Antonio non aveva idea di chi fosse, lo aveva trovato lì disteso, già sconquassato dai colpi di tosse.
Antonio aveva freddo, tremava avvolto in una copertaccia che non veniva lavata da chissà quanto. Se ne stava rannicchiato in un angolo, come tutti gli altri, imbozzolato, troppo stanco per pensare a un modo migliore per scaldarsi. Al centro della vecchia stalla adibita a deposito stavano i carretti e i pacchi da consegnare il giorno dopo.
Sperava di cavarsela con molto meno, invece prima di vedere i soldi avrebbe dovuto restare in città un mese. E quarantotto lire non erano molte. L’uomo col naso schiacciato gli avrebbe detratto venti centesimi al giorno in cambio dell’uso della coperta e di quell’angolo per dormire. E gli avrebbe anticipato una lira al giorno perché si comprasse da mangiare.
Dopo un mese di lavoro avrebbe riportato a casa forse dieci, venti lire. E doveva anche comprarci il biglietto del treno, a meno che non se la fosse fatta a piedi. Ma erano molti giorni di cammino attraverso i campi d’oro; e di notte, nei campi d’oro, c’erano gli Spettri Neri che sorvegliavano, pronti a divorare chiunque si avvicinasse alle piante.
Forse avrebbe potuto trovare un percorso alternativo che lo riportasse a casa aggirando i campi, ma mentre pensava queste cose il sonno l’ebbe vinta e le palpebre di Antonio scivolarono giù.
La Tosse
Antonio si svegliò all’alba, come tutte le mattine. Ma non gli parve di aver sentito le campane suonare.
Le campane suonavano sempre, a quell’ora.
Era in città ormai da due settimane.
Lavorava come una bestia, era sempre stanco. La sera, finito il turno, mangiava un boccone rimediato e poi andava a rannicchiarsi nel solito cantuccio nella vecchia stalla. Sempre nella stessa coperta sporca, come tutti gli altri.
Quasi tutti avevano la tosse. Molti stavano sempre peggio.
Anche in strada, mentre portava il carretto in giro per le consegne, incontrava sempre più gente che tossiva. La mattina precedente aveva visto un uomo con le mani e la faccia viola crollare a terra in preda a un accesso di tosse. Nessuno gli si era avvicinato per aiutarlo, era rimasto a terra a tossire.
Mentre si stropicciava gli occhi, si chiese se fosse finalmente arrivata una lettera da Adele. Gliene aveva scritte due, da quando era arrivato, ma non aveva ancora ricevuto risposta.
Si alzò a sedere, scrollandosi la coperta di dosso. Solo altri due uomini si erano alzati. Antonio si mise in piedi, prese la giacca e si avviò verso il lavatoio per darsi una sciacquata. Quello che dormiva ai suoi piedi non si muoveva. Gli diede un leggero calcetto chiamandolo per nome, ma quello rimase immobile.
«È meglio se nun lo tocchi», disse una voce accanto a lui. Era il ragazzo di Rocca Bianca, quello che aveva conosciuto durante il viaggio in treno. «Se nun è morto cià già un piede nella fossa», disse.
La maggior parte degli uomini era rimasta stesa a terra e quasi tutti tossivano o rantolavano.
Antonio e il ragazzo attraversarono la stalla e si affacciarono nella stanza dove ogni mattina incontravano l’uomo dal naso schiacciato, che gli dava la lista dei pacchi da consegnare.
Ma l’uomo dal naso schiacciato non c’era.
Allora uscirono in strada.
Davanti a loro passavano due uomini che ne portavano un terzo: uno lo teneva per le braccia, l’altro per i piedi.
Il terzo uomo era un cadavere. Lo posarono a lato della strada e se ne andarono.
Non era l’unico cadavere in strada, dandosi un’occhiata intorno Antonio ne contò almeno altri quattro.
Decisero di andare a fare un giro per capire come stavano le cose e arrivarono fino al palazzo del Governo. Non erano gli unici ad aver avuto questa idea, c’era un gruppetto di persone, perlopiù donne.
Il palazzo del Governo aveva un grande portone in cima a una scalinata.
Il portone era aperto e davanti stavano alcuni Signori. Indossavano i loro tipici abiti scintillanti, interamente tessuti in oro, e parlavano animatamente. Uno di loro si staccò dagli altri e si rivolse ai popolani gridando, perché potessero sentirlo chiaramente:
«Tornate a casa, chiudetevi dentro e aspettate! Al momento non c’è altro da sapere!»
Ma un altro dei Signori gli si affiancò e gli afferrò un braccio, per farlo tacere:
«Non c’è motivo di agitarsi! Le donne che hanno da fare in casa tornino a casa, ma gli uomini vadano regolarmente a lavorare! Non possiamo fermare gli affari!»
Un terzo intervenne e le donne da sotto iniziarono a gridare. In un attimo si generò una confusione totale in cui tutti dicevano la loro e nessuno ascoltava.
Passarono ore e davanti al palazzo del Governo si raccolse una folla. Nel frattempo i Signori erano entrati e i popolani discutevano tra loro. I più agitati erano quelli che avevano già perso un parente. Alcuni tossivano.
Il pomeriggio uscì finalmente un banditore.
Srotolò un foglio di carta e declamò:
«Vista la straordinaria situazione di sanità pubblica, in accordo coi Signori e le più alte cariche della Città, il Governo stabilisce quanto segue.
«Tutti dovranno stare chiusi in casa, non si potrà uscire che per comprovate urgenze.
Tutte le attività saranno sospese, eccetto la vendita di alimenti e medicine, le attività mediche, il becchinaggio, le fabbriche di merci da inviare fuori città, il trasporto di dette merci e il facchinaggio, le attività legali e notarili, la produzione di carbone, la produzione di carta, la coltivazione, la raccolta e il trasporto dell’oro…».
Antonio e il ragazzo decisero di tornare a vedere che aria tirava al magazzino e lasciarono il banditore che continuava a elencare attività che dovevano proseguire le loro funzioni.
Ma quando arrivarono trovarono tutto fermo. Nell’ufficio l’uomo col naso schiacciato non c’era, i carretti erano tutti al loro posto e gli unici uomini rimasti erano morti o moribondi.
False notizie
Più o meno una settimana prima, mentre il sole si stava per eclissare dietro le colline dorate a occidente e le foglioline d’oro tintinnavano nel vento, Adele apriva la porta di casa. Erano passati molti giorni da quando Antonio aveva lasciato un biglietto sul tavolo ed era sparito. La donna aveva fatto salire i bambini al piano di sopra, prima di aprire la porta. Aveva paura.
Sulla soglia stava un uomo alto e magro, col cappello in mano e un sorriso storto sotto il naso troppo lungo. Teneva le briglie di un cavallo basso e massiccio. Il cavallo aveva sulla groppa la borsa del portalettere.
«Chi sei?», chiese Adele sfoderando il tono più brusco che riusciva. «Te nun sei il postino, chi sei?». Teneva una mano nascosta nella tasca del grembiule, stretta attorno a un lungo coltello da cucina.
«Buongiorno, Signora. Ho cavalcato tanto per arrivare qui, non potrei entrare per riposarmi un po’?»
«No, nun puoi. Te ne devi annà da qua».
«Cara Signora, tra poco sarà buio e non ho di che mangiare. E poi sono venuto per riferirle alcune notizie importanti».
«Notizie?», fece Adele squadrandolo da capo a piedi. «E che notizie? Parla veloce. Tra un po’ ritorna mi marito. L’hai detto te che sta pe arrivà il buio. Col buio arrivano li Spettri Neri, perciò te conviene andàttene».
Il sorriso storto dell’uomo alto si spense all’improvviso. Si accigliò e divenne ancora più brutto:
«Tuo marito non verrà. Tuo marito è morto. È stato investito da un barroccio tirato da due cavalli, mentre lavorava giù in città, è morto sul colpo».
Adele fu scossa da un impeto di rabbia. Tirò fuori il coltello dalla tasca e lo agitò davanti al volto dell’uomo alto:
«Nun te credo! Vattene da qua o t’accoltello!»
L’uomo alto fece un passo indietro, ma non si mostrò spaventato. Fece di nuovo il suo sorriso storto:
«Devi capire che sei rimasta sola. Verranno altri uomini come me e ti offriranno dei soldi. Dovrai prendere i soldi e portare i tuoi figli via da questa baracca, in una casa in paese. Questa terra sarà coltivata a oro, come tutte le altre».
Adele ebbe l’istinto di piantare il coltello nello stomaco dell’uomo alto: si trattenne, ma gli occhi le si iniettarono di sangue e la voce fu un rantolo rabbioso:
«Vattene o t’ammazzo».
Il sole era sul punto di spengersi dietro le colline, in un alone violaceo. L’uomo alto si rinfilò il cappello, rimontò a cavallo senza più dire niente e si inoltrò tra i campi.
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