Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Nuvole basse e grigie si muovevano rapide e la terra era spazzata dal vento. Nella tetra campagna pochi alberi sparsi ondeggiavano scompigliati. Da molte ore Antonio camminava lungo i binari che correvano muti tra i campi, senza aver mai visto l’ombra di un treno. Era l’unico essere umano nel raggio di chilometri.
Lontano, oltre l’immensa distesa piatta della campagna, torreggiava il profilo caliginoso delle montagne.
Le gambe di Antonio erano rigide e stanche. Non dormiva da due giorni e avrebbe voluto fermarsi un po’ a riposare, magari a schiacciare un sonnellino rannicchiato a lato dei binari, col berretto sugli occhi. Ma al calare della notte i campi d’oro si sarebbero riempiti di Spettri Neri. Non c’era tempo da perdere, il pomeriggio avanzava veloce.
Era partito la mattina dalla stazione. Dopo l’incontro notturno col Folletto, aveva continuato a vagare tra i vicoli per sfuggire agli Spettri, che a un certo punto lo avevano quasi accerchiato. Si era ritrovato a correre lungo il fiume che attraversava la città e ancora una volta era stato salvato dal sorgere del sole.
Dopo era andato alla stazione e davanti al cancello sprangato aveva trovato due cadaveri. Uno era disteso sugli scalini davanti all’ingresso e apparteneva a un soldato, probabilmente quello che aveva sentito tossire quando c’era stato la prima volta.
L’altro era a pochi passi dalla guardia: era il ragazzo di Rocca Bianca. Non era morto di tosse, aveva gli occhi spalancati verso il cielo, una pozza di sangue dietro la schiena e un’orrenda ferita in mezzo al petto. Probabilmente aveva provato a entrare nella stazione e il soldato gli aveva sparato.
Antonio gli aveva chiuso gli occhi e lo aveva trascinato a lato della strada. Poi aveva scavalcato il cancello sprangato e si era incamminato.
Ogni tanto tirava fuori dalla tasca della giacca il fiore che gli aveva dato il Folletto. Non ne vedeva uno simile da quando era bambino e andava a giocare nella foresta: un piccolo giglio selvatico bianco. Ne prendeva sempre per portarli a sua nonna.
Coi gigli selvatici sua nonna ci curava la tosse.
La Foresta
A nord, più o meno alla sua destra, sotto le nuvole spinte dal vento, le montagne apparivano viola e grigie. Mano a mano che digradavano verso i campi le pendici si coprivano di un’ombra sempre più fitta.
A un tratto una luce folgorò le cime: un lampo serpeggiò giù dalle nuvole e per un attimo Antonio vide le montagne cambiare colore.
Non ci furono altri lampi.
C’è ancora un bosco, aveva detto il Folletto.
Ci volle qualche istante a trovare il coraggio, poi Antonio si tuffò tra le piante d’oro e iniziò a correre. Il suo corpo fu accolto dall’inquietante tintinnio delle foglie d’oro. Non sembrava esserci nessuno, anche se cani da guardia potevano spuntare da un momento all’altro. Ma quello che più lo preoccupava era l’enorme distanza da coprire prima del tramonto. Per questo, nonostante la stanchezza, la fame e la sete, si scapicollò.
Per un attimo brevissimo, il lampo aveva mostrato un’ampia macchia verde che copriva gran parte della montagna e Antonio aveva capito: doveva esserci una foresta e lui doveva raggiungerla!
Era l’unica possibilità che aveva.
Di lì a poco sarebbe sceso il buio e se si fosse trovato ancora sulla ferrovia, circondato da campi d’oro, non avrebbe avuto scampo. Ma se fosse riuscito a raggiungere la foresta prima del tramonto, vi avrebbe trovato un rifugio. E avrebbe potuto prendere la via dei monti: lunga, impervia e piena di pericoli, ma libera dagli Spettri.
Dopo qualche minuto, si rese conto che non poteva correre a perdifiato per chilometri. Rallentò e, senza fermarsi, si tolse la giacca e il cappello per non sudare troppo e prese un’andatura di corsa leggera. Avrebbe retto il più a lungo possibile in una gara disperata contro il sole, che scendeva sempre più rapido alla sua sinistra e aveva quasi raggiunto l’orlo dei monti più alti. Lo scampanellio delle piante suonava come un allarme incessante del suo passaggio.
Gli facevano male i piedi. Le vecchie scarpe avevano coperto troppi chilometri, le suole erano lise e sotto la pianta destra stava per aprirsi un buco. Lo avevano portato per anni su e giù tra i villaggi della sua terra, dove andava a cantare canzoni nelle piazze o a vendere il formaggio nei mercati. L’estate poi faceva lunghi giri su per i monti, per raggiungere i borghi più nascosti: stava via quattro, cinque giorni di seguito e macinava dozzine di chilometri per portare a casa un gruzzolo: nella bella stagione anche i paesani più diffidenti lo accoglievano volentieri e si disponevano in grandi cerchi nelle piazze per ascoltarlo. E lui cantava per loro canzoni che raccontavano fatti che aveva sentito o di cui aveva letto da qualche parte.
Antonio voltò lo sguardo a sinistra e vide che le nuvole si erano diradate, ma la sagoma arancione del sole appariva già frastagliata dalle cime delle montagne.
Guardando avanti, però, si accorse che si stava avvicinando alla fine del campo che stava attraversando.
Accelerò l’andatura ma ci vollero ancora molti minuti prima di arrivare fuori della piantagione.
Quando finalmente ne uscì, si fermò a riprendere fiato: ce l’aveva fatta, pensava. Si rinfilò giacca e berretto e s’incamminò più tranquillo. Ora riusciva a scorgere chiaramente la foresta: un’enorme coperta scura sdraiata sul fianco della montagna. Guardando in alto davanti a sé, vide che il lato sinistro della cima era ancora illuminato da un caldo raggio di sole. Ma sotto, la tenebra strisciava sempre più su, a coprire ogni cosa. Fu in quel momento che sentì raggelarsi il sangue e si voltò all’indietro: uno Spettro Nero era fermo al limitare del campo, rivolto verso di lui.
Il sole scomparve dietro la montagna.
Nell’oscurità
Non poteva essere solo, gli Spettri Neri si muovevano sempre in gruppo. Antonio correva a perdifiato. Il buio non era ancora calato del tutto ma gli Spettri lo avevano già trovato. Lo avrebbero inseguito per tutta la notte. Antonio continuava a correre verso la foresta ma sapeva che gli avrebbero tenuto dietro anche lì. Voltò per un attimo la testa e vide che erano tre, lenti ma inesorabili. Antonio poteva solo continuare a correre, sperando di mettere tanta distanza da non essere raggiunto prima del sorgere del sole.
Ma se fosse crollato prima? Camminava da due giorni, senza neanche un’ora di riposo, le sue gambe avrebbero ceduto, pensava. E allora lo avrebbero preso.
Quando tornò a guardare davanti a sé, si trovò dinnanzi all’ingresso della foresta.
Faggi dalle grosse fronde si stagliavano grigi, alle loro spalle un’oscurità profonda e densa. Antonio si guardò ancora alle spalle: gli Spettri continuavano ad avanzare. Entrò nel bosco.
In pochi passi fu in una penombra confusa, le sagome degli alberi erano ombre immobili. Cespugli dai rami appuntiti spuntavano continuamente dal buio per graffiare le mani e il volto. Antonio affondava i piedi tra muschio e foglie morte sperando di non calpestare un animale o cadere in una buca.
Procedeva troppo lentamente.
Voltandosi indietro non riusciva a distinguere nient’altro che le sagome nere degli alberi. Gli Spettri lo stavano certamente seguendo, ma non era in grado di individuarli.
Chiazze bluastre di buio meno denso apparivano qua e là, permettendogli di scorgere un varco tra due alberi o la sagoma di un cespuglio. Ma ecco che una spalla sbatteva contro un tronco, un piede s’impigliava in una radice. Finché Antonio non si trovò improvvisamente bloccato dentro le fronde di un grosso cespuglio spinoso. Si sentiva pungere le gambe e i fianchi e non riusciva a divincolarsi. «È finita», pensò: «sto pe morì dentro a sto bosco. Nessuno me troverà mai!». Tutto intorno il buio era sempre più profondo. Si agitava freneticamente per districarsi e infine ci riuscì. Ma in quel momento una mano lo afferrò dietro il collo. Una mano fredda e con lunghi artigli.
Una seconda mano lo agguantò alla spalla e lo voltò. Lo Spettro aleggiava davanti a lui, più buio del buio che li circondava. Antonio pensava che avrebbe dovuto voltarsi e correre. Ma non lo faceva. Lo Spettro lo tratteneva, Antonio attendeva e pur sapendo di essere spacciato fissava in faccia la morte col fiato sospeso. Finché una delle mani gli agguantò la gola e l’altra gli entrò nel cuore. Un gelo improvviso e una nausea violenta lo investirono e fu come se tutta la foresta si fosse rivoltata all’ingiù.
Morire all’infinito
Quando riaprì gli occhi il buio era sempre lì. Antonio si guardò attorno e vide che tre Spettri Neri stavano intorno a lui, immobili a mezz’aria. Voleva muoversi ma non lo faceva, obbedendo a una volontà non sua. Gli Spettri gli si strinsero intorno, di nuovo lo afferrarono, di nuovo una mano gelida gli penetrò il cuore. Di nuovo lo investì la nausea e la foresta vorticò.
La seconda volta che aprì gli occhi si sentì molto debole e la nausea era ancora più forte. Fece appena in tempo a voltare la testa per non vomitarsi addosso, poi gli Spettri lo avvinghiarono ancora. E ancora perse i sensi.
Fu come morire all’infinito e ogni volta svegliarsi per rivivere ancora e ancora il momento del proprio assassinio.
Da quanto durava? Minuti? Ore? «Basta», mormorava Antonio a se stesso con un filo di voce. Desiderava essere morto, ma nessuna pace sembrava essergli concessa, continuava a morire e a risorgere in un buio orribile, insopportabile e nauseabondo e ogni volta era peggiore della precedente.
Ad un certo punto udì il cinguettio degli uccelli: la notte stava finendo. La vita gli restava aggrappata dentro, ma gli Spettri insistevano a cercare di cavargliela via e sentì per l’ennesima volta la mano gelida penetrargli il cuore.
Quando fu in grado di riaprire gli occhi, sentì che il cinguettio era diventato più forte. E all’improvviso qualcosa balenò nella sua mente.
Per prima vide la luce dell’alba che entrava dalla finestra della cucina, poi sentì il profumo dell’erba del prato bagnato di rugiada. E vide se stesso correre intorno al tavolo coi bambini in braccio e anche sua moglie seduta difronte che gli teneva una mano. Sentì il profumo della sua pelle mentre facevano l’amore e quello del prato quando fioriva in primavera. Vide il bambino che era stato mentre correva nei boschi, sentì le mani di sua madre che lo accarezzavano, il sapore delle mandorle colte dagli alberi di casa sua e il succo dissetante delle mele. Sentì il calore del latte delle pecore mentre le mungeva, l’odore dello sterco e quello del camino nelle sere d’inverno. Sentì il suono delle risate, le lacrime sulla pelle e tutte le canzoni che aveva imparato e cantato.
Vide se stesso che rientrava in casa e i bambini che gli correvano incontro per abbracciarlo.
E un minuscolo brandello di forza gli scaturì dal cuore, insieme a un urlo che riecheggiò in tutta la foresta. E in quell’urlo c’erano tutto l’amore e tutto l’odio del mondo.
Afferrò la mano che gli stringeva la gola. E quando la strinse, scoprì che era fragilissima: il polso dello Spettro si sgretolò come fosse fatto di terra. Un grido agghiacciante si levò dal fantasma e gli altri due si allontanarono. Antonio si alzò con grande fatica, la testa che girava. Appena riuscì a tenersi in piedi, osservò lo Spettro che gridava davanti a lui, mise una mano dove doveva esserci il volto, afferrò qualcosa che doveva essere una specie di teschio in putrefazione e strinse, sgretolando senza sforzo tutto quello che c’era.
Il mostro cadde a terra come un mantello vuoto. Un piccolo raggio di sole si fece improvvisamente strada attraverso le fronde dei grandi faggi e gli altri due Spettri fuggirono.
Essere vivi
L’ombra della faggeta era fredda, anche se il sole doveva ormai essere alto. La foresta brulicava di vita. Una vacca bianca dalle lunghe corna lo fissava con occhi neri, immobile. Antonio allungò una mano verso il suo muso e la bestia si lasciò accarezzare. Si accucciò ai piedi di un albero e attese, accanto alla vacca che brucava qualche ciuffo d’erba tra le umide foglie morte che coprivano il sottobosco. Non voleveva addormentarsi, ma le palpebre gli si abbassarono senza che se ne accorgesse.
Fu svegliato da una mano che gli stringeva la spalla. Questa volta era una mano calda, umana.
Il vecchio vaccaro lo sorresse per tutto il tragitto in salita, perché Antonio non riusciva a camminare per più di pochi passi senza crollare. Quando giunsero alla baracca dove viveva, al limitare del bosco, vicino alla vetta del monte, lo fece sdraiare sulla sua branda e Antonio dormì per tutto il pomeriggio e tutta la notte, svegliandosi solo in tarda mattinata.
Aprendo gli occhi fu scosso da un accesso violento di tosse come non aveva mai avuto. Era solo.
C’era una brocca piena d’acqua pulita vicino a un lavabo e ci si sciacquò la faccia. Appeso al muro con uno spago c’era un pezzo di specchio. Continuando a tossire si mise a sedere sul letto, in attesa del ritorno del vaccaro.
E solo a quel punto si rese conto di quello che aveva visto nello specchio: la sua faccia era apparsa invecchiata improvvisamente di almeno dieci anni, con vistosi ciuffi bianchi tra i capelli e nella barba e rughe profonde che gli solcavano i lati degli occhi.
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Elisabetta says
Il ritorno di Antonio è irto di pericoli e minacce ma ha trovato un altro aiutante
Ora aspettiamo di sapere se come sembra ha preso anche lui il morbo e se si salverà e riuscirà a tornare a casa e a salvare la famiglia
Il racconto è sempre ricco di pathos e ci lascia in sospeso nel momento più intenso della narrazione
Aspettiamo con grande curiosità
Luca Ricatti says
Arriverà presto!
Giulia says
un succedersi di eventi ricco di pathos e suspence.. bellissimo! Grazie Luca, resto in attesa della quinta puntata..
Luca Ricatti says
Grazie mille!
Lord Hume says
Ma quindi sono gli Spettri Neri a procurare la tosse? Se tutto va come credo di sicuro saran collegati alle piantagioni di oro… e azzarderei pure che l’assassino è il maggiordomo!
Luca Ricatti says
Tutto si chiarirà (anche se c’è un maggiordomo!)