Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Il fuoco crepitava nel camino e la zuppa col pane raffermo fumava nelle ciotole. Un grosso cane bianco se ne stava acciambellato sotto il tavolo, comodamente appoggiato sopra i piedi di Antonio. Il vecchio vaccaro si chiamava Massimo, ma si faceva chiamare Mino. Stava sistemando il pentolone con la zuppa di fagioli, patate e riso vicino al fuoco, per tenerlo al caldo. Antonio soffiava sul piatto, guardando i pezzi di pane che galleggiavano con l’acquolina in bocca. Ebbe un accesso di tosse che lo fece piegare. Il cane alzò la testa.
«Non me dovevi portà a casa tua», disse quando si fu ripreso: «Te sei condannato a morte».
Mino non sembrò badargli.
«Ho consumato pure troppa aria, a sto monno», disse sedendosi all’altro capo del tavolo. «Sò talmente vecchio che pure sta foresta s’è stufata de vedemme in giro. Mó però me devi raccontà come hai fatto a sopravvive a li Spettri».
Aveva una fitta capigliatura bianchissima ben pettinata e la pelle del viso rugosa e crepata dalle intemperie perfettamente sbarbata. Si infilò un cucchiaio stracolmo in bocca, chino sul piatto, e masticò fissando Antonio negli occhi. Deglutì e poi aggiunse:
«Mai saputo di uno che ha affrontato quei mostri e poi l’ha raccontato in giro…». Puntava il cucchiaio vuoto contro Antonio come un dito accusatore. Ingurgitò un’altra cucchiaiata e rimase in attesa.
«Mica lo so, come ho fatto», rispose Antonio tranquillo, con la bocca ancora piena. «In verità pensavo de esse morto. Ma ogni volta me risvejiavo. Ogni volta credevo che m’avevano ammazzato e invece dopo me ritrovavo ancora là».
«Embè?», incalzò Mino: «Se ne sò andati perché nun morivi?»
«No, è arrivata la luce del sole… Però è successa pure na cosa… Me sa che n’ho ammazzato uno».
Mino rimase col cucchiaio a mezz’aria:
«Ammazzato? E mica se pò ammazzà uno spettro».
Antonio mandò giù un pezzo di pane, poi lasciò affondare il cucchiaio nella zuppa e si appoggiò allo schienale della sedia.
«Me sentivo male, ma così male che volevo morì. Me sa che fanno così, li Spettri: te entrano dentro e te levano la voja de vive. Me entravano dentro, capito? Me sentivo proprio che me rovistavano…E volevo solo morì, te lo giuro. Cercavano, cercavano ma nun trovavano quello che volevano. E allora io riaprivo l’occhi e stavo ancora là.
«E poi nullo so, è successo qualcosa. Ho visto mi moje, i ragazzini… Non te sò spiegà… È come se all’improvviso m’è esplosa la voja de vive. Un attimo prima volevo annammene all’altro monno e poi… All’improvviso volevo esse vivo!
«E quanno ho provato a liberamme, sto Spettro s’è sgretolato come un coso, come un pezzo de carbone! Ma nemmeno… Come se era fatto de sabbia!»
Non dissero altro per alcuni minuti. Ripulirono le ciotole, le riempirono e le svuotarono altre due volte, prima di sentirsi sazi. Intanto si rabboccavano a vicenda i bicchieri di vino. Quando ebbero finito, Antonio si mise a raccontare la sua storia dal principio: della partenza di notte da casa sua, del viaggio in treno, del lavoro da facchino in città, dell’epidemia di tosse.
Quando giunse all’incontro col Folletto, fu tentato di non menzionarlo. Ma il vino e il bisogno di sfogarsi ebbero il sopravvento.
«Me sò ricordato de mi nonna, pace all’anima sua: me raccontava de sti Folletti che giravano pe i boschi… »
«Che t’ha detto?», lo interruppe Mino. S’era fatto improvvisamente più serio: «E tu che j’hai detto? Che desiderio hai espresso?», chiese con tono grave.
«Niente!», rispose Antonio: «Ho fatto come me diceva mi nonna: j’ho detto che nun vojo niente».
Il vaccaro richiuse la bocca e alzò lo sguardo verso il soffitto, immerso nei pensieri.
Rimasero in silenzio per molti minuti. Il cane era sempre addormentato, il crepitio del fuoco era l’unico suono nella baracca. Poi Mino si alzò, prese due grossi chiocchi e li sistemò sul fuoco rimpicciolito, smosse le braci con l’attizzatoio e attese che la fiamma si rialzasse. Poi disse:
«Prennemo una boccata d’aria, ce vuole un po’ d’aria fresca de la notte»
La memoria di un vecchio
Il freddo entrava nei polmoni rinfrescando sangue e cervello, scaldati troppo dal vino e dal fuoco. Antonio tossì, ma non chiese di rientrare. Sentiva male alle ossa e le gambe erano stanche, ma lo tenne per sé.
«Domani mattina all’alba me ne vado», disse solo.
Stavano in piedi uno a fianco all’altro davanti alla porta di casa socchiusa, con lo sguardo verso il nero del bosco. La luna quasi piena era salita in alto a rischiarare il cielo stellato. Entrambi tenevano in mano il bicchiere di vino. Mino mandò giù un altro sorso, poi puntò il bicchiere verso un posto lontano, alla sua destra:
«Da quella parte, dietro tutti i monti, c’è na zona de colline e dietro ancora un mucchietto de case. Io sò nato là, magari lo conosci, è un borghetto che se chiama Lapile. Mi padre ciaveva un paio de pezzi de terra, faceva spaccà la schiena a due famije de mezzadri che ce tiravano fori poco e niente da quella terraccia pietrosa. C’erano n’antra mezza dozzina de contadini da quelle parti, tutti come lui: vecchi cocciuti che cercavano de cavà rape e patate. Poi un giorno venne sto tizio al paese, diceva che certi contadini, dalle parti de Cinello, avevano trovato il modo de diventà ricchi.
«È così che mi padre se mise a coltivare le piante d’oro. Ma queste sò cose che ho saputo tanti anni dopo, quanno ormai ero cresciuto.
«Sti Folletti, come li chiami te, una volta vivevano nei boschi, ciaveva ragione tu nonna. Ma poi semo arrivati noi. Cioè, mi padre e quelli come lui: hanno buttato giù l’alberi pe fà i campi, bruciavano, tajavano… Sti Folletti hanno maledetto la terra, l’hanno fatta diventà arida. Ma era solo l’inizio, la vendetta era molto più crudele. Hanno aspettato anni e quanno tutti sti contadini morti de fame erano ormai disperati, se sò presentati co sto bel regalo: i semi de ortica d’oro.
«C’è chi dice che l’idea è stata de un certo Berto, che viveva a Monte Pellaccia, che je l’ha chiesti lui ai Folletti dei semi così. Com’è come non è, nel giro de qualche anno tutti sti vecchi contadini s’erano messi a coltivare l’oro. E diventarono tutti così ricchi che presero a comprà altri campi, castelli, costruirono città intere. È così che sò diventati Signori, comprandose tutto.
«Io pure potevo fà er Signore, coll’oro de mi padre. E invece me ne sò venuto qua. Nell’ultima foresta».
Mino si voltò a guardare Antonio. Lo fissò per un po’, poi disse:
«Quanno mi padre è morto, ho visto quello che je succedeva».
Sospirò, voltandosi verso le stelle: «Io lo so perché li Spettri nun t’hanno ammazzato. Li Spettri sò l’anime de li morti. Sò l’anime dei Signori. Sò condannati a fà la guardia alle loro ortiche d’oro per sempre. Vanno a caccia de ladri, de gente avida come loro, li fiutano, li prendono e je succhiano via la vita. E li trasformano in altri Spettri Neri.
«Sei un brav’uomo, Antò. Non sei un ladro e non sei avido, è per questo che non sò riusciti a succhiarti la vita. Ma la vendetta de ste creature magiche ha previsto tutto. T’ammazzeranno co la tosse. Nun pòi torna a casa! Che fai? Porti la malattia a tu moje? Ai ragazzini? Nu c’è scampo ai Folletti, ce stermineranno tutti. Nun troveranno pace finché non ciavranno ammazzati tutti».
Antonio tossì forte, così forte da piegarsi in due. Rientrò.
La partenza
A oriente, alle spalle della baracca, l’alba avvampava. Nel cielo limpido le stelle si spegnevano, il pascolo si schiariva e un leggero vento portava profumo di fiori ed erba.
Antonio aveva a tracolla una grossa borraccia e sulle spalle un vecchio zaino di tela ricucito in più punti, con le cinghie di pelle e il telaio di legno; fuori c’era appeso un pentolino e in cima stava legata una spessa coperta arrotolata. Mino gli strinse le cinghie e gliele sistemò meglio sulle spalle:
«Non lo uso da tanti anni, ma dovrebbe regge». Diede uno schiaffetto sulla faccia di Antonio: «Che brutta faccia che ciài. Speriamo che funziona, sta cosa dei fiori. Non te dico più niente, tanto non senti ragioni. T’ho messo un grosso pezzo de corteccia de salice nello zaino».
Antonio sorrise, pallido:
«Me l’ha detto er Folletto che i fiori funzionano. Tu dici che vanno a caccia de disgraziati da imbroglià, ma io penso che invece quel Folletto m’ha voluto dà na possibilità. E poi se devo crepà, tanto vale provacce, no?»
«Tanto vale provacce», convenne sospirando Mino.
Antonio si chinò ad accarezzare il grosso muso del cane, dritto accanto al padrone:
«Tieni d’occhio sto vecchio!», gli disse stringendogli il muso fra le mani.
«Quanno finisce tutta sta storia te vengo a trovà», disse a Mino. «E poi te devo riportà lo zaino».
«Come no!», rispose ridendo il vaccaro. «Basta che non ce se mette de mezzo Sora Morte!»
Mentre si abbracciavano, Antonio ebbe la sensazione che Mino si riferisse alla propria, di morte. Le braccia del vecchio lo strinsero come quelle di un padre.
S’incamminò tossendo verso nord-ovest, in discesa, verso la foresta ancora buia che si stendeva ai suoi piedi. Aveva il cuore stretto, le ossa doloranti e una lunga strada davanti.
I Gigli
L’aria fredda e umida penetrava nei vestiti. Fuori dal bosco, la primavera scaldava i prati e gli insetti ronzavano tra i fiori, ma sotto gli alberi secolari era un regno di ombra. Antonio non aveva mappa né un sentiero cui affidarsi, solo la bussola arrugginita di Mino appesa al collo. Il vecchio gli aveva raccontato di una radura, nella quale in primavera aveva spesso trovato gigli bianchi e profumati. Antonio camminò per ore, consultando la bussola a ogni albero, ogni cespuglio, ogni tumulo invalicabile che gli si parava davanti costringendolo a deviare. Era partito già stanco, dopo mezza giornata di cammino aveva solo voglia di gettarsi in terra a dormire, avvolto nell’unica coperta che aveva.
Imprecò a voce alta, gemette, si accasciò diverse volte contro il tronco di un albero tossendo ferocemente. Si sedette in terra a gambe incrociate con un pezzo di pane tra le dita per invitare una volpe ad avvicinarsi; e quando quella lo fece, provò a raccontarle delle sue sventure. Ma la volpe fuggì in un attimo.
«Ciài ragione», le gridò dietro Antonio. «Tocca pensà alle cose pratiche, invece de piàgnese addosso!». E allora si alzò e ignorando la febbre che lo attanagliava si rimise in cammino: «Se devo crepà, tanto vale provacce! Vero Mino?», urlò verso le fronde degli alberi.
Ogni ramo, ogni uccello nascosto, ogni radice sembrava congiurare perché prendesse la direzione sbagliata. Ma Antonio chiedeva sempre alla bussola, stretta nella mano tremante, e quella lo rimetteva sulla via. E quando in mezzo al quadrante comparve una bocca che urlò: Guarda andove metti i piedi!, Antonio aprì gli occhi all’improvviso e si accorse che stava camminando nel sonno. E che stava per precipitare in una forra, sul fondo della quale correva un ruscello.
Non potè fare altro che seguire l’orlo del burrone, perché era troppo profondo e ripido per poterlo attraversare. E nonostante tutto, al tramonto trovò la radura. E trovò i gigli. Il ruscello correva tra gli alberi al limitare della radura, che era un prato alpino affacciato sulle montagne circostanti. Si inginocchiò ad annusare i gigli, tra i colpi sempre più violenti della tosse. E un pensiero angoscioso lo colse: alla fine dell’estate! I bulbi dei gigli andavano raccolti alla fine dell’estate, diceva sua nonna. Antonio si tolse lo zaino maledicendo il destino, convinto che sarebbe morto di febbre e di tosse in quella radura. Prese il coltello e scavò la terra attorno ai fiori per estrarre alcuni bulbi.
Raccolse dei rami asciutti che mise al centro di un piccolo cerchio di pietre, ci mise sotto foglie secche e ramoscelli sottili. Strofinò un pezzo di selce sull’acciarino e soffiando delicatamente ottenne un fuoco. Tagliò un bulbo in pezzi grossolani e li mise nel pentolino, vi aggiunse la corteccia di salice, frantumandola con le mani, e l’acqua della borraccia. Poi lasciò bollire tutto per molti minuti, durante i quali lottò contro il sonno che lo trascinava verso incubi insensati. Stava col viso rivolto agli ultimi raggi del sole che scendeva dietro la foresta e indorava la radura, luce effimera e dolcissima.
Quando il decotto fu pronto e si fu raffreddato un po’, lo bevve, poi si avvolse nella coperta e mise tutti i ciocchi che poteva sul fuoco, sperando che bastasse a tenere lontane le belve e la malasorte. E finalmente, tremando e gemendo, si lasciò andare al sonno.
La strada di casa
Antonio aprì gli occhi su due ali di farfalla. Il sole le attraversava facendone risplendere i colori. Poi le ali presero il volo battendo velocissime e Antonio cominciò a ricordare come era arrivato su quel prato. E si stupì di essere vivo. Tutto il suo corpo era un ammasso di dolore e appena si sollevò a sedere la tosse iniziò a scuoterlo e a piegarlo. Il fuoco era spento e, per prima cosa, cercò della legna e lo riaccese. Poi tagliò un altro bulbo di giglio, lo mise nel pentolino e lo coprì d’acqua, mescolandolo col salice. Tagliò due fette del pane che aveva nello zaino, le mangiò insieme a una mela e bevve il decotto. Poi andò al ruscello, sciacquò il pentolino, riempì la borraccia, spense il fuoco e si rimise in cammino.
Dall’alta radura poteva vedere le montagne oltre le quali c’era la valle dove sorgeva la sua casetta grigia. Non ebbe bisogno di consultare la bussola, sapeva dove si trovava e dove doveva andare. E mentre il sole saliva alle sue spalle facendo il cammino sempre più luminoso, si accorse che le gambe faticavano meno.
Per due giorni salì e discese da montagne, facendo lunghe soste nelle quali dormiva e preparava decotti. E all’alba del quarto giorno, si accorse che la tosse era diventata meno dura, sputava grumi di catarro e il petto era diventato leggero. Da lontano vedeva i campi d’oro scintillare accecanti sotto il sole alto nel cielo. E appollaiato sul fianco di un’alta montagna di grandi sassi spigolosi, vide l’ammasso di case del suo paese. Sotto doveva esserci il praticello con la casetta di pietra grigia. Stava attraversando un pratone a grandi passi, quando un grido lacerò l’aria per raggiungerlo:
«Ohhh…!»
Antonio si voltò verso destra e vide due uomini a cavallo, molto lontani. Sembravano armati di fucili. Si misero al galoppo e lo raggiunsero.
Uno dei due era un uomo alto e magro e col naso troppo lungo, in sella a un cavallo basso e massiccio. Guardò Antonio da sotto il cappello e disse:
«Chi sei? Dove vai?»
Antonio ricambiò lo sguardo sospettoso e disse solo:
«Chi lo chiede?»
I due cavalieri si scambiarono un’occhiata, poi quello alto e magro tornò a scrutare Antonio.
«Io t’ho già visto, a te». Rimase un attimo in silenzio, continuando a fissarlo, poi aggiunse: «Me ricordi uno, ma sei troppo vecchio per essere lui… Chi sei e dove vai?»
Antonio non lo aveva mai visto, ma si convinse che quello lo conoscesse. E non gli piacque. La sua faccia era molto cambiata, era invecchiata dopo lo scontro con gli Spettri e la sua barba era cresciuta. Erano passate molte settimane e potevano essere successe molte cose. Antonio pensò che fosse prudente non farsi riconoscere.
«Me chiamo Giovanni, vengo dalla città, sò fuggito dalla tosse. Ho vissuto alcuni giorni sui monti, ma cerco un tetto pe qualche notte, magari pure un lavoretto..»
«Qua non passa nessuno, specie quelli che vengono dalla città! Sei venuto a portare la tosse? Gira i tacchi e porta i tuoi stracci lontano». E dopo aver detto questo, puntò il fucile. Il suo compare fece altrettanto.
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Aspetto la sesta puntata!!!
Grazie Adriana!
Anche io aspetto! Il racconto è sempre più avvincente
Bene, grazie!