Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
A questo punto del Racconto, dobbiamo fare un salto.
Il motivo è che da qui in poi accadono alcune cose che, ahinoi, rimangono piuttosto oscure e ci è impossibile proseguire la narrazione in modo lineare, come abbiamo cercato di fare finora.
E la maniera forse più onesta di andare avanti è raccontare come siamo venuti a conoscenza dei fatti.
Tutto è cominciato in un fine settimana di aprile, nel quale io e la mia famiglia siamo stati in gita al Parco Naturale della Foresta d’Oro, qui vicino Roma.
Il Centro Informazioni del Parco si trova in mezzo alla Valle, seguendo l’unica strada che la attraversa. Sta all’interno di una vecchia casetta di pietra.
Sull’architrave della porta d’ingresso c’è una scritta enigmatica:
«Rubata dai nemici, Divorata dal fuoco, Ricostruita dagli amici»
Ci arrivammo la mattina di sabato e c’erano due uomini dietro il bancone di legno. Chiedemmo una carta dei sentieri del Parco e uno dei due ci rispose che dovevamo attendere qualche minuto, che bisognava prenderne uno scatolone nuovo in magazzino.
Mentre aspettavamo, l’occhio mi cadde sullo scaffale che esponeva i libri sulla flora e la fauna del posto. Ne comprai uno e poi guardai se ce n’era qualcun altro che parlasse della leggenda dei campi d’oro, che mi aveva sempre incuriosito molto. Non trovandolo, chiesi all’uomo dietro il bancone, che mi guardò con aria un po’ stupita:
«Dice la leggenda che un tempo tutta la valle era ricoperta da magiche piante fatte di oro». Lo disse col tono con cui si ripete una lezioncina.
Indagare
Nel frattempo era arrivato l’altro tipo, con lo scatolone delle mappe del Parco. Aveva la faccia scura, folti capelli neri e barba ancora più nera e fitta.
Il suo collega disse:
«Il Signore, qui, cercava un libro sulla leggenda dei campi d’oro».
Il tipo con la faccia scura mi piantò addosso uno sguardo severo e indagatore. Poi si girò, sbattendo lo scatolone sul banco e mormorando:
«Queste cose non ci sono nei libri».
«E allora dove sono?», chiesi.
«Sono solo storie», tagliò corto con un’occhiata in tralice. Intanto con un coltellino tranciava il nastro da pacchi che chiudeva lo scatolone.
«Va bene, mi piacciono le storie», insistetti.
Mi ignorò e si mise con calma a sistemare le carte del Parco su un piccolo espositore di cartone. Ma siccome continuavo a fissarlo, alla fine sbuffò sonoramente:
«C’è una persona che ne sa più di tutti, ma di solito non ha voglia di parlarne. È la Signora Adele».
«Quella del Ristorante?», gli chiese il collega.
«E certo. Se magna bene e se spende poco, andateci a pranzo», mi disse porgendomi la Carta dei Sentieri. «Sono cinque euro».
Dopo una passeggiata di un paio d’ore tra i famosi faggi di quel bosco, andammo al paese.
Il locale era pieno. Stavamo seduti a un tavolo all’aperto, sulla piazza, e proprio davanti a noi c’era uno spettacolare affaccio panoramico sulla Valle verdissima. Solo una piccola parte era coltivata, per il resto era ricoperta da un pratone, fin dove iniziava la foresta che poi si arrampicava sulle montagne.
«Senta ma è qui che possiamo trovare una certa Signora Adele?», chiesi al cameriere. Quello mi guardò col blocchetto in una mano e la penna nell’altra:
«È la padrona», disse.
Mi chiedo ancora cosa la persuase a spostare le sue vecchie ossa dalla sedia dietro il registratore di cassa. La signora Adele era stanca di raccontare quelle storie e perdeva facilmente la pazienza.
S’era seduta al nostro tavolo e mi fissava con aria severa. Credo che la presenza della mia famiglia l’abbia ammorbidita, aveva evidentemente un debole per i bambini. Se fossi stato solo mi avrebbe certamente liquidato in malo modo.
Passò diversi minuti a chiacchierare coi miei figli, come se li conoscesse da sempre, senza degnarmi di uno sguardo.
«Chicco!», gridò voltandosi verso l’entrata del locale.
Il cameriere fece capolino dalla soglia e lei ordinò: «Portame l’album! E mezzo bianco!»
Testimonianze
Buttò giù il primo bicchiere di vino tutto insieme, poi girò il vecchio album verso di me. La prima pagina conteneva due fotografie in bianco e nero, dovevano avere almeno un secolo.
Nella prima c’erano un gruppo di contadini con falcetti e grandi sacchi.
L’altra foto mostrava un carretto stipato di sacchi pieni. Lo sfondo era lo stesso in entrambe le immagini: piantagioni di cespugli fitti che rimandavano la luce in modo anomalo, come se fossero fatti di tante piccole foglie lampeggianti sotto il sole.
«Questi erano i campi d’Ortica d’Oro», disse. Poi girò la pagina e indicò un’altra fotografia: ritraeva una coppia di ragazzi, lei era vestita di bianco e aveva un velo sulla testa. «Questi sò mi nonna Adele e mi nonno Antonio, il giorno del matrimonio».
Fece una lunga pausa, l’anziana ristoratrice.
«È incredibile!», commentai, «Queste foglie sembra davvero che luccicano!»
Lei mi fissava senza dire niente.
Alla fine, però, con l’aria di chi sta concedendo un’opportunità, parlò.
E così la Signora Adele, l’ultima testimone delle vecchie storie di famiglia, ci ha reso partecipi di tutta questa vicenda.
Partì dalle leggende che narravano di oscuri spiriti abitatori della Foresta, che i bambini del posto chiamavano Folletti. Raccontò della Tosse, degli Spettri Neri e di come suo nonno avesse viaggiato per le montagne in cerca dei Gigli Selvatici. E di come sua nonna avesse riunito tutti i sopravvissuti all’epidemia in una cantina, per convincerli a fare la Rivoluzione.
«È qua che è successo», disse buttando giù un altro bicchiere di vino e indicando l’entrata del suo locale. «Proprio qua dentro…».
La Rivoluzione
«Aprite!», aveva gridato una voce secca dall’altra parte della porta.
Subito era calato il silenzio. Quelli seduti nelle ultime file s’erano alzati, abbandonando le sedie per avvicinarsi agli altri.
«Aprite!», incalzava la voce. Ma nessuno muoveva un passo verso il fondo della sala, dove stava la porta che tremava sotto i colpi furiosi.
Antonio si fece avanti, ma Adele lo trattenne per un braccio e gridò minacciosa:
«Chi siete e che volete?».
Per un attimo ci fu silenzio e i colpi cessarono.
Poi un tonfo tremendo, con un crepitio di legno che si spacca. E poi un altro. Nessuno osava dire una parola.
Al terzo affondo, la porta cedette e gli scagnozzi dei Sassosecco varcarono la soglia.
Erano in sei, tutti armati di mazze tranne Sorrisone, che imbracciava un fucile.
«Di chi è stata questa bella idea?», disse in tono tranquillo. Poi lanciò un’occhiata al Dottor Nino: «C’entri tu, Dottore?»
L’anziano medico s’alzò, cercando di raddrizzare la schiena meglio che poteva, e lo guardò negli occhi:
«Sì», rispose, «C’entro io. Ma soprattutto c’entrate voi canaglie, che state facendo ammalà la gente per continuare a raccoglie oro!»
«Noi?», fece Sorrisone, la bocca piegata in un ghigno: «Tu fai uscire in piena notte tutti i paesani dalle loro case! Noi facciamo ammalare la gente?»
Gli scagnozzi si misero in fila a coprire il fondo della sala, con le mazze ben visibili. Sorrisone tuonò:
«La tosse viene dagli Spettri Neri, lo dicono tutti i più grandi medici di città!»
«Sta zitto, carogna!», gridò Adele. Nella cantina scese un silenzio gelido. Ma lei rincarò la dose, furiosa: «Buciardo! Solo bucie escono da quella boccaccia tua, infame maledetto!»
Sorrisone la guardò alzando le sopracciglia con aria di sufficienza:
«Tu! Se non fosse stato per me saresti morta sola coi tuoi figli, divorata dagli Spettri in quella schifosa baracca tra i campi! Ingrata e isterica, per forza che tuo marito t’ha abbandonata!»
«Nun è vero, il marito sta qua!», disse Antonio venendo avanti.
«Tu! Ecco dove t’avevo già visto!», gridò Sorrisone perdendo per un attimo la calma. «Te l’avevo detto che se ti rivedevo ti sparavo!» e dicendo questo puntò il fucile verso Antonio.
A quel punto s’alzò in piedi la Sora Checca, che era piuttosto vicina a Sorrisone. La Sora Checca era anziana, ma alta e robusta. Rovesciò in aria la sedia su cui stava seduta, brandendola come una mazza, e disse in tono pacato:
«Senti un po’, coso, come te chiami: se spari a quel brav’uomo te fracasso sta seggiola sur grugno».
Uno degli scagnozzi la raggiunse a grandi passi, ma un ragazzino di undici anni in calzoncini corti gli si parò davanti, brandendo un coltellino:
«Nun toccà mi nonna che te spanzo!».
Un’altro degli scagnozzi s’affrettò a strattonare il ragazzino per un braccio. Ma Fernanda, la giovane figlia della Sora Elvira, gli diede uno spintone:
«Lascialo sta, è un ragazzino!» Rimediò un ceffone dallo scagnozzo. Allora il suo innamorato, Oreste, si scapicollò in sua difesa, dall’altra parte della cantina. Gli saltarono addosso prendendolo a bastonate. Ma il ragazzo resisteva, coprendosi la testa con le braccia e gridando:
«Nun me fate paura, infami!»
La moglie di Aldo l’Oste tirò una sberla dietro la testa del marito:
«Aoh, e fa’ quarcosa, grande e grosso come sei!»
Aldo si avvicinò titubante a quelli che circondavano Oreste tartassandolo di legnate e, non sapendo che fare, dall’alto della sua mole calò un cazzotto come una martellata sulla testa di quello più vicino, che schiantò a terra.
«E mòvite, pure te!», gridò la moglie di Compare Nanni dando uno spintone al marito. E quello, trovandosi d’improvviso nella mischia, per la paura prese a menare pugni tutt’intorno come un ossesso, stendendo uno degli scagnozzi. A quel punto, tutti gli uomini adulti si fecero avanti.
È così che avvenne la Rivoluzione, con una rissa improvvisata.
Colto dal panico, Sorrisone esplose un colpo verso il soffitto, ma nessuno indietreggiò. Allora puntò il fucile verso uno degli uomini che gli stavano davanti, ma non fece in tempo a premere il grilletto, perché lo agguantarono in molti, lo disarmarono e lo picchiarono. Pesti e sanguinanti, gli scagnozzi mollarono le mazze e se la diedero a gambe. Nessuno sa che fine fecero, ma si inoltrarono nella notte, tra i campi, e probabilmente finirono tra le grinfie degli Spettri Neri.
Fuoco
I Paesani non potevano immaginare cosa avrebbero trovato. Tutti eccitati per la scazzottata vinta, gli uomini s’erano messi in marcia verso la Villa dei Sassosecco, trascinandosi dietro Sorrisone. Ma la presa della loro piccola Bastiglia fu una dolorosa delusione.
Aprirono la porta con un piede di porco e furono accolti da buio e silenzio.
Da diversi giorni si sospettava che il povero Franchino fosse stato arrestato e alcuni braccianti, guidati da Antonio, obbligarono Sorrisone a mostrare la via per la prigione.
Quello li condusse per una scala a chiocciola in una cantina buia e umida. C’era una stanzetta su cui si affacciava una porta di ferro. Gli dissero di aprirla. Sorrisone prese una grossa chiave che stava appesa a un chiodo nel muro.
Spalancata la porta, dovettero tutti coprirsi naso e bocca, perché la puzza era insopportabile. Alcuni vomitarono.
Dentro stavano i cadaveri del povero bracciante Franchino, di Mario Livio Filippo Sassosecco e del suo figlioletto, che aveva circa tredici anni.
Il Dottor Nino si disse convinto che erano morti di Tosse, da almeno una settimana.
«I Signori degli altri paesi manderanno della gente», minacciò Sorrisone, «ve la faranno pagare!».
«Sicuro!», gli rispose Antonio. «Sempre che non sò morti de Tosse».
Nel palazzetto non c’era nessun altro, Sorrisone e i suoi l’avevano trasformato in un bivacco. Il capo aveva preso possesso delle camere padronali e da lì governava e accumulava ricchezze. Gli fecero confessare che aveva fatto imprigionare il Signore e suo figlio mesi prima.
Quello che accadde dopo rimane piuttosto oscuro, nessuno di coloro che erano presenti ha mai fornito dettagli o comunque nessuno dei loro eredi ne ha sentiti.
Pare che in qualche modo Sorrisone fu trascinato ai piedi della collina del Paese e che lì accaddero molte e strane cose.
I paesani portavano delle fiaccole e c’erano gli Spettri. Ad ogni modo Sorrisone si inoltrò da solo nei campi, forse per fuggire a un linciaggio, forse costretto dagli stessi paesani.
Quello che gli capitò deve essere stato raccapricciante, perché mai nessuno ha voluto parlarne, nemmeno a distanza di decenni.
I paesani decisero di comune accordo di incendiare i campi.
Si muovevano a gruppi lungo tutta la Valle, con grosse fiaccole, appiccando le fiamme a intervalli regolari. Cantavano e bevevano e gli Spettri Neri fuggivano innanzi a un’orgia di fuoco, luce e grida.
Una festa di tre giorni seguì l’immenso incendio della Valle.
Eredi
«Tutto era nato da un padre che voleva qualche soldo per comperà il pane ai figli. La cosa buffa è che mi madre ha sempre detto che lei non se lo ricordava sto fatto che chiedeva il pane a mi nonno. A me tutta sta storia me metteva paura, quanno ero ragazzina. Ma èccome qua, sò rimasta l’unica che ha sentito raccontare ste storie direttamente da Nonno Antonio, Nonna Adele e gli amici loro».
«E che fine hanno fatto i suoi nonni?», chiesi.
La Signora Adele mi guardò interdetta:
«E che fine dovevano fa? Na fine normale, come tutti! Sò tornati a vive nella casetta de pietra, i figli sò cresciuti e hanno fatto altri figli e io mó sto qua e sò diventata vecchia pure io». Poi alzò un braccio, indicando la Valle:
«All’inizio hanno viaggiato per i paesi, portando i bulbi di giglio e dicendo alle persone che bisognava far tornare gli alberi.
«Ce sò voluti anni, ma alla fine hanno organizzato una cooperativa che ha rimboscato tutta la zona. Mi nonno lo chiamavano il Vecchio Verde, perché girava per la campagna co sta mantella col cappuccio verde scuro. È diventata un cimelio de famiglia, quella mantella. C’è voluta una vita, l’ultimi alberi l’hanno piantati che io avevo già sposato».
La Festa
Non sapevo niente della Festa dei Fuochi, fu per caso se arrivammo lì proprio in quei giorni.
Probabilmente i paesani non ne parlano molto in giro e in effetti non sembra il genere di tradizione portata avanti a beneficio dei turisti.
Nel tardo pomeriggio, vedemmo che nella piazza del Paese stavano alzando un grosso palo, certamente un albero della foresta opportunamente ripulito e scortecciato, sorretto da altri piccoli pali.
La sera, dopo cena, assistemmo alla cerimonia principale della Festa dei Fuochi.
Un gruppo di uomini portò a spalla un enorme pupazzo: era una sagoma piuttosto inquietante, ammantata di nero e con un cappuccio che copriva quasi del tutto la testa di paglia. Fu issato in cima al palo. Poi venne appiccato il fuoco alla base e tutti i paesani gridarono, applaudirono e brindarono.
C’erano alcuni con gli strumenti musicali e molti iniziarono a cantare.
Tutti si lasciarono trascinare dal ballo.
La Signora Adele mi disse che gli amici di suo nonno dicevano che quel canto l’aveva scritto Antonio durante i giorni in cui bruciarono i campi d’oro. Ma disse anche che Antonio negava di esserne l’autore.
È chiamato «Canto dei Fuochi», ma anche «Canto degli Appestati» e dice così:
Se io vò nel bosco scuro
Pe paura che me moro
Che me segue l’omo nero
Che me se magna tutto intero
Se je regge alla mia bocca
Se la testa mia ce imbrocca
E se er core ce se abbocca
Canterò sta filastrocca:
Santo fiore
Santo ramo
Santa la femmina che io amo
Santa voja
Santa foja
Viene dall’albero quanno se spoja
Santo l’odore
De la Campagna
Santo er grano e santa la vigna
Santo prato
Santa vacca
Santo er fiore de la sua cacca
Santa la luce
Der primo mattino
Santo er pane e pure er vino
Santo l’affanno
Santa la sosta
Santo er membro quanno se intosta
Santa la pelle
Santo er pelo
Santo er mare e pure er cielo
Santi li monti
Santi li mari
Santi li seni de le comari
Santa la pioggia
Che lava tutti
Santo er succo de tutti li frutti
Santa fatica
Santo sudore
Santo riposo a tutte l’ore
Sante le natiche
Quanno te siedi
Santi li calli de mani e piedi
Sante colline
Sante pianure
Santo riso de le creature
Santi li baci
Santi l’abbracci
Santa la gioia dei poveracci
Santa la musica
Dalle mie dita
Santo er canto e santa la vita.
La Foresta
Siccome dovevamo portare i bambini a dormire, non ci trattenemmo fino a tardi. Però ebbi il tempo di incontrare Chicco, il cameriere nipote della Signora Adele, e di scambiarci due parole. Se ne stava da solo con una bottiglia di birra in mano a contemplare l’enorme falò, decisamente alticcio.
«È uno Spettro Nero?», gli chiesi indicando l’enorme pupazzo che bruciava.
Diede una lunga sorsata alla birra e disse:
«La gente qua non lo sa nemmeno più, perché una volta all’anno damo foco a sti pupazzi. I miei bisnonni sò morti quanno ero un pupo, ma co ste storie ce sò cresciuto. La maggior parte di questi sò gente che vive nella Capitale, tornano solo pe le feste, qualche settimana d’estate. Semo rimasti in pochi a vive qua».
«È per questo che gran parte della Valle non viene coltivata?», chiesi.
Chicco si voltò a guardarmi, poi disse:
«Non è per quello. È che i Folletti non vogliono».
Lo guardai per capire se stava scherzando, ma lui cambiò discorso:
«Siete stati alla casetta?»
Non capivo di che parlava.
«La casetta de pietra nella Valle», aggiunse.
«Dici il Centro Informazioni?»
«Eh! Quella era la casa dei miei bisnonni. Quando i Campi d’Oro vennero messi a foco, la casa bruciò. I paesani la ricostruirono come segno di riconoscenza pe Antonio e Adele. Partecipò tutto il paese ai lavori, òmini, donne, vecchi e bambini, tanto che la ricostruirono dalle fondamenta in un paio de settimane. Almeno così dicono».
Foglie d’oro
I festeggiamenti andarono avanti tutta la notte e forse per questo non riuscii a chiudere occhio. Passai un po’ di tempo sfogliando il libro sulla flora della Foresta che avevo acquistato la mattina. Da nessuna parte erano menzionati i miracolosi Gigli Selvatici.
Dovevano essere le quattro e mezza del mattino, quando decisi di alzarmi dal letto. Ancora si sentiva qualche ubriaco gridare nella Piazza. Mi vestii e andai a passeggiare. Del pupazzo era rimasta solo cenere.
Camminai a lungo, uscendo dal paese, mentre il sole faceva capolino da dietro le montagne.
Vedevo la casetta di pietra grigia in lontananza, il tetto di un rosso acceso, colpito dai primi raggi del sole.
Tanti anni prima, la Signora Adele, ragazza, se ne stava da sola in mezzo al prato, davanti alla casa dei nonni.
Da lontano vide emergere la figura di nonno Antonio, che usciva dal fitto della boscaglia venendole incontro, avvolto nel suo mantello verde.
«Che vai a fà sempre nel bosco?», gli chiese quando lo ebbe raggiunto.
«Incontro un vecchio amico», rispose lui.
«Nel bosco?», disse lei. «E chi ce sta nel bosco?». Ma Antonio, appoggiato al lungo bastone, lasciava viaggiare lo sguardo sulla Valle.
«Ti piace questo posto?», le chiese. «O non vedi l’ora de andattene in città, come l’amici tuoi?»
«Non tutti l’amici miei se ne vogliono andà».
«Ah, già», sorrise lui guardandola con la coda dell’occhio: «Il nipote di Fernanda…».
«Mi piace tutta questa terra libera», cambiò discorso la nipote. «Mi dici chi incontri nella Foresta?»
Antonio la guardò e disse:
«Tanti tanti anni fa, una notte che stavo in mezzo ai guai e lontano da casa, ho incontrato qualcuno che m’ha dato un regalo e un consiglio. Co quel regalo e quel consiglio sò riuscito a tornare a casa sano e salvo. E siccome pure lui aveva perso la sua casa, quando ho potuto ho cercato de ridargliela».
«Perché casa sua era nella Foresta?», chiese Adele.
«Diciamo di sì. O forse lui è la Foresta». Antonio tornò a guardare la Valle. Poi, improvvisamente, scoppiò a ridere.
«E che te ridi?», lo guardò stupefatta la nipote.
Antonio rideva, a bocca spalancata: la risata roca di un vecchio, ma grassa e gustosa.
Poi si girò verso la ragazza e disse:
«Sei bella, come tu nonna quanno eravamo ragazzini. Adesso tutto è bello come quanno eravamo ragazzini».
E dopo alcuni decenni, eccomi lì, a guardare quella stessa Valle. In mezzo al folto pratone mosso dal vento fresco dell’alba, l’unica strada si srotolava dritta. La abbandonai seguendo una traccia di erba più rada. Nel giro di una mezz’ora mi ritrovai ai margini del bosco. Non avevo mai sentito il bubolare di un gufo, prima. Non dal vivo, intendo. I raggi del sole arrivavano obliqui a colpire i rami degli alberi e allora me ne accorsi: le foglie di quei faggi scintillavano con una sfumatura che non avevo mai visto su nessun faggio: scintillavano di oro.
+++FINE+++
Leggi ☞La Cerca dell’Arcobaleno
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Elisabetta says
Bello ! Sei riuscito a trovare il filo giusto per la conclusione e tutto è tornato a posto anche se con grande fatica e sacrificio per tutti!
Speriamo vada così anche nel mondo reale!
Luca Ricatti says
Grazie!
Gianni says
Incredibilmente bello. Bravo. Il mistero e il fascino di una antica legenda accompagnano questa lettura e a chi legge sembra di essere seduto anche lui a quel tavolino, in quella locanda, perdendosi in quel racconto nostalgico e fantasioso. Grazie per questa emozione.
Luca Ricatti says
Ma grazie!
Titti says
Complimenti per tutto il racconto sempre molto coinvolgente e ricco di pathos, ma la conclusione è sorprendente rientra tutto in uno schema, mi piace, bellissimo, bravo!!!!
Luca Ricatti says
Grazie di cuore, Titti!
Odette says
Caro Luca, mi è piaciuta molto la tua storia e il modo in cui l’hai scritta. Durante questi momenti difficili per tutti, non importa in quale parte del mondo ci troviamo, la tua storia dimostra che possiamo superare le difficoltà. Grazie! Odette – Toronto, ottobre 27, 2020
Luca Ricatti says
Grazie mille Odette,
sono molto contento che tu l’abbia letta e apprezzata!
Massimo Danesi says
Stupendo , mi ha fatto immaginare un mondo difficile con raggi di sole ed un finale con una grande morale.
Luca Ricatti says
Grazie per queste belle parole, Massimo!
Riccardo says
.. e se devo crepà, tanto vale provacce …
Sembra una frase banale, ma penso sia una delle cose più profonde di questo bellissimo racconto.
Sempre vale la pena provarci! Daje!
Un abbraccio e grazie,
Riccardo
Luca Ricatti says
Ma grazie a te per queste belle parole, Riccardo!
Marco says
Grazie Luca! Questa storia mi ha ispirato tantissimo! Ti tiene col fiato sospeso fino all’ultimo!
Leggerla in un momento come questo, soprattutto usare il tema della “tosse”, per chi legge port a il pensiero al Covid 19 e anche per questo ti ringrazio!
Luca Ricatti says
Grazie infinite a te, Marco.
Il «Canto» è stato scritto proprio nel 2020.
Stefano Bongini says
Bravo, Luca. Ho scoperto il tuo blog solo di recente. Ho letto un po’ per volta tutti i tuoi racconti fantastici e romanzi brevi e devo dire che mi hanno colpito. Man mano che andavo avanti nella lettura non riuscivo a smettere e non vedevo l’ora di scoprire come andava a finire. Togliendo l’ambientazione nostrana e la parlata dialettale, su cui confesso che inizialmente provavo un certo scetticismo, avrebbero potuto essere dei magnifici racconti/romanzi fantasy scritti da un ottimo autore d’oltreoceano. E non lo dico per sminuire il contesto, validissimo, ma perché mi piace il tuo modo di scrivere – semplice, ma curato nei dettagli – e coinvolgere il lettore tenendo alta la tensione. Visto che il tuo intento è narrare vicende ispirate alla tradizione italiana, secondo me sei riuscito nell’impresa come meglio non avresti potuto, perché le tue storie fantastiche sono davvero… fantastiche! Complimenti.
Luca Ricatti says
Stefano ti ringrazio davvero per queste splendide parole. Significano molto, soprattutto perché vengono da un estimatore della letteratura di genere.
Mentirei dicendo che c’è una qualche intenzionalità, un progetto o un’ideologia dietro ambientazioni e dialoghi: la verità è queste storie pretendono di essere raccontate in questo modo e in nessun altro e io sono solo il loro meschino esecutore.
Katia says
Letto tutto d’un fiato come non facevo da anni,coinvolgente! Ti viene voglia di leggere subito il titolo che segue per capire come va a finire. Grazie per avermi ridato la voglia di leggere.
Luca Ricatti says
Grazie di cuore, Katia!
Dan says
Davvero suggestivo coinvolgente, ricco di pathos e suspence… Si legge d’un fiato! Ma, come sempre nei tuoi racconti, la bellezza dell’arte esprime e comunica contenuti che sono nel cuore di tanti e che arrivano dritti ed efficaci al cuore di tutti. Bellezza che non ti lascia com’eri e ti stimola ad agire per costruire un mondo giusto. Grazie Luca!
Luca Ricatti says
Grazie veramente di cuore, Dan.