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Prima Puntata☜
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Era un mazzetto un po’ ridicolo, quattro o cinque calendule gialle e arancioni. Lei lo guardò più divertita che imbarazzata. La domenica, dopo la messa, tutti i ragazzi andavano al pratone che si arrampicava sulla collina a est del borgo. Ai piedi di quel pratone scosceso passava la strada che arrivava da Cinello, oltre la quale s’alzava il colle dei Sassi. Sandrina se ne stava per conto suo, come capitava spesso, e Mino le si era avvicinato col cuore che batteva come il martello di un fabbro, in un momento di coraggio che non si sarebbe mai ripetuto. Aveva strappato da terra i primi fiori che aveva trovato, per timore che lei se ne andasse.
«Perché?», disse la ragazza mentre si avvicinava le calendule al naso per annusarle. Sorrideva e lo guardava dritto negli occhi.
Mino, che le si era seduto accanto senza però ricambiare lo sguardo, rispose con un’alzata di spalle:
«Sò belli», riuscì a dire.
Sandrina continuava a fissarlo, curiosa. «Sì, sò belli», disse.
«Pure a me me piace sta seduto qua», fece Mino.
La ragazza accennò un’espressione stupita:
«Ah sì? Io me immagino la gente che viveva laggiù nei Sassi. E poi se vede la foresta, là in fondo, dietro dietro. E il vento: qua c’è sempre st’aria che ariva da giù, dalla strada. Magari un giorno me se porta via da qua». Rimase in silenzio per un attimo e dopo aggiunse: «E poi hai visto mai che arriva un ragazzino co un bel mazzo de fiori». Ora guardava Mino con la coda dell’occhio, per spiare se sarebbe arrossito.
Lo fece, Mino, diventò color papavero, abbassò la testa e bofonchiò:
«Ce lo so che sò solo un ragazzino. Mica che me sò montato la testa. È che ho visto sti fiori e ho pensato che te piacevano».
Sandrina soffocò una risata e si chinò per tentare di vedere i suoi occhi. Gli diede una gomitata:
«Certo che me piaciono. Sei strano, te. Sei caruccio. Non sei come mi fratello e quegli altri amici vostri. Ciài sempre st’aria… Sembra sempre che ciài qualcosa che te frulla pe la testa».
«Embè, pure te. Te vedo sempre pe conto tuo».
«Ah sì? E me guardi spesso?»
«No! No, no!», rispose Mino di nuovo arrossendo violentemente. Ma lei non lo stava più guardando. Stava aprendo la bocca per dire qualcosa, aveva voglia di chiacchierare, ma un fischio potente attraversò il pratone. Entrambi si voltarono a guardare in basso, dove iniziava la salita. C’era il padre di Mino che teneva due cavalli per le redini. Fece cenno al figlio di raggiungerlo.
«Me sa che te devi fà na cavalcata», disse Sandrina.
Mino sbuffò sonoramente.
«Devo annà», brontolò. Era già in piedi, quando lei gli tirò una manica.
«Sò belli», gli disse guardandolo col mazzetto vicino al viso. Aveva occhi castani grandi e luminosi e capelli dello stesso colore imbionditi dal sole e agitati dal vento. Mino non avrebbe scordato quel momento per il resto della vita.
«Pure te», disse e fuggì.
Sbudellare
Cornacchia prese le redini del cavallo di Fausto per tenerglielo fermo mentre scendeva di sella. Mino smontò da solo, strappò un ciuffo d’erba con la mano e lo mise sotto il muso della cavalla che l’aveva trasportato. Avevano percorso il sentiero che s’inerpicava tra i Sassi, girava attorno alla collina tufacea e scendeva nella radura erbosa che si stendeva ai piedi del versante opposto. Su quel prato pianeggiante, poche centinaia di passi più avanti, iniziava la foresta. Avevano fatto un viaggio di mezz’ora o poco più, ma faticoso, perché s’inerpicava su salite sdrucciolevoli, tra pietre malferme e fango. Mentre la bestia ruminava, Mino le accarezzava il muso, poi si chinava a strappare altri ciuffi d’erba per lei.
«Sò chissà quante decine de ettari, prima de arrivà al Monte Muto», diceva Cornacchia. Mino di solito non prestava troppa attenzione ai discorsi dei grandi, ma aveva fatto tutta la strada fin lì chiedendosi perché suo padre se lo fosse portato dietro.
«Posso trovà un po’ de òmini», proseguiva Cornacchia. «Je dai qualche lira prima e qualcos’altro a lavoro fatto e quelli te fanno na spianata da qua fino ar monte. Io dico che se pò fà». A questo punto si fermò a guardare il padrone, grattandosi la barba. «L’unico fatto è che me pare strano, sor Fà…», aggiunse titubante. «Com’è che nun l’ha ancora fatto nessuno…?»
«Pe la superstizione. Non lo sai?» Fausto guardò il mezzadro con stupore. «Davero non sai niente? Tutte le storie sulla foresta?».
La risposta di Cornacchia fu uno sguardo vuoto.
«Dice che dentro a sta foresta ce stanno certi spiriti…», tagliò corto Fausto. «Lascia perde, nun è importante, sò storie pe spaventà i ragazzini». Poi si voltò verso il figlio: «Viè qua», disse.
Mino, che stava strappando l’ennesimo ciuffo d’erba, lasciò tutto e s’avvicinò. Il padre gli passò un braccio attorno alle spalle:
«La vedi tutta sta tera?», gli disse. «Immagina che nun ce stanno più alberi, immagina che va avanti pe ettari e ettari. Tutto nostro, tutto coltivato. Immagina dozzine de braccianti a lavorà, a raccoje patate, uva, olive, grano. Co un bel mulino. Tutto nostro. Altro che i signori de Cinello. Lo devi vedé!», disse abbracciando con lo sguardo il panorama, come se tutto il bendiddio che evocava fosse già davanti a loro. Mino si sorprese nel vedere gli occhi del padre che s’illuminavano. «Tutti quei ricconi se leveranno er cappello pe la strada e te li guarderai dall’alto der cavallo senza risponde». Prese il viso del figlio tra le mani. «Er nome dei Serracchi farà tremà tutti. Quanno io me farò vecchio tu sarai er signore de Lapile e pure de Cinello. Forse fino a Monte Muto, sarai padrone». Lasciò il viso del ragazzo e indicò la foresta. «Ecco perché t’ho portato qua. Sei ancora un ragazzino, ma stai a cresce e devi incomincià a capì».
Rimasero tutti in silenzio per un po’. Finché Cornacchia si schiarì la gola:
«C’è n’antra cosa, però», disse.
«E sarebbe?»
«Embè, dietro qua, a nord, dopo sti alberi, c’è sta un terreno coltivato. È de uno del paese tuo. Come se chiama…?»
«Dici er terreno de sor Patrizio?»
«Eh»
«Je lo famo vende. Tanto già adesso nun ce campa la famija».
«Ah sì? A me nun me pare tanto piccolo»
«Tanto più», insistette Fausto, non senza una certa acrimonia. «Ce lo deve vende. Sta proprio in mezzo».
«Eh, però ciavrà quarcheccosa da dì, quando se vedrà er bosco tutto in fiamme attorno al terreno suo».
«Embé? È un problema?», chiese Fausto guardando il mezzadro dritto negli occhi.
«Sor Fà, io se vòi te lo sbudello pure subito. Lo dico perché è paesano tuo, perché abita vicino a casa tua».
Mino s’irrigidì, a quelle parole. Stavano parlando del padre di Peppe. E di Sandrina.
«Perché dovete sbudellà er sor Patrizio?», chiese con una vocina sottile.
I due uomini si voltarono a guardarlo vagamente stupiti.
«Nessuno sbudella nessuno», disse il padre in tono asciutto. «Cornacchia gioca»
Mino guardò Cornacchia, che però si voltò da un’altra parte. «Lo vòi costringe a vende la terra», disse guardando prima il padre e poi il mezzadro. «Je vòi levà la terra? Perché? Noi ciavemo la nostra e lui la sua». Cornacchia sputò e s’incamminò verso i cavalli.
«Mó però devi sta zitto», mormorò Fausto infilando le mani in tasca, guardando verso la foresta.
«Io non vojo che diventamo i padroni de sor Patrizio e la famija sua!».
«Arimonta a cavallo», fu la risposta.
Il visitatore
Mino stava seduto sul letto, con gli occhi fissi sulla falce di luna appoggiata in cima al comignolo della casa di fronte. Sarebbe stata una notte insonne, ne era certo perché succedeva sempre così: avrebbe preso sonno su un fianco, ma poi si sarebbe rigirato sulla schiena e il dolore lo avrebbe svegliato.
«Ciài tredici anni», gli aveva detto il padre sfilandosi con calma la cinta dai passanti dei calzoni, dopo avergli ordinato di togliere la maglia. «Una pe ogni anno, perché più diventi grande più è grave quanno sbagli. E più diventi grande più devi esse forte e sopportà er dolore».
Ripeteva sempre le stesse frasi, ogni volta. Gli faceva mettere le mani contro il muro e i piedi divaricati, perché diceva che così avrebbe resistito meglio. E poi frustava con tutta la forza delle braccia. Preparava ogni cinghiata con calma impassibile, per colpire in modo accurato, e le estenuanti pause tra una frustata e l’altra aumentavano la paura. Quando era piccolo Mino non resisteva e fuggiva urlando, con la faccia impiastrata di lacrime e moccolo, ma suo padre gli aveva insegnato a restare immobile contro il muro a forza di schiaffi. Quando la punizione era terminata, Mino doveva prendere la cinta, andare a pulirla dal sangue, riportarla a suo padre e poi doveva andare da sua madre a farsi disinfettare con lo spirito. Lei lo faceva mettere su una sedia girata al contrario, col petto contro lo schienale, si sedeva alle sue spalle, puliva e tamponava le ferite, senza dire niente. Lo spirito bruciava. Se Mino rifiutava di farsi medicare o se si faceva sentire che piagnucolava, suo padre tornava per dargli gli schiaffi: forti, precisi, metodici, prima su una guancia, poi sull’altra. Continuavano finché il ragazzo non riusciva a soffocare il pianto. Mino aveva imparato a smettere di piangere a comando.
«Lo sai che nun devi dì niente a quegli amici tua?», gli aveva detto quel pomeriggio mentre erano ancora in sella, sulla via del ritorno, dopo che Cornacchia se n’era andato per la sua strada.
«Sì, lo so».
«E sai pure che nun devi mai contraddì tu padre?»
«Sì, lo so».
«E che nun devi mette bocca quanno parlano i grandi?»
«Sì, lo so».
Non c’era stato bisogno di dire altro. Quando, rientrando a casa, Fausto aveva detto «Annamo su», Mino era andato ad aspettarlo davanti al solito muro, pronto a togliersi la maglia. Il mese scorso era stato il suo compleanno, perciò questa volta avrebbe contato fino a tredici.
La sua stanza conteneva un letto e una cassapanca. Era molto piccola, ma era anche un privilegio che nessuno dei suoi amici aveva. Era l’unico ragazzo di Lapile ad avere una stanza tutta sua. Anche le sue sorelle dormivano tutte assieme. Dalla finestra si vedeva il cielo, perché era al secondo piano e perché la casa stava nel punto più alto del borgo. Era una notte fredda, ma Mino teneva la maglia arrotolata fin sopra le spalle perché il contatto con i tagli sulla schiena era intollerabile. E poi aveva bisogno di aria perché aveva la testa in fiamme. Sarebbe diventato ricco, perché suo padre era disposto ad andare a braccetto col demonio: così gli aveva detto sua sorella Maria Pia un giorno di primavera dell’anno passato. Diceva che lui sarebbe diventato un principe. I principi prendevano le cinghiate sulla schiena per diventare forti? Il demonio. A Mino venne in mente don Flavio, il parroco, mentre chiacchierava con suo padre fuori dall’osteria. Il prete diceva a Fausto che il signore lo aveva benedetto, con tre figlie così belle e un ragazzo così gagliardo. Mino non si sentiva gagliardo, si sentiva terrorizzato. Cornacchia aveva parlato di sbudellare il papà di Peppe e Sandrina. A Mino non importava di sor Patrizio, non gli era simpatico. Gli importava dei suoi amici. Cosa sarebbe successo a loro? Alcune lacrime erano scappate fuori dagli occhi ma, a forza di stringere i denti e i pugni, il grosso del pianto era rimasto dentro la testa. Di solito era più bravo a frenare le lacrime. Però, quando faceva così la testa diventava calda e allora serviva l’aria della notte.
Con le tempie in fiamme, Mino guardava la luna e prendeva boccate d’aria notturna seduto davanti alla finestra spalancata. Quando all’improvviso vide il visitatore.
Notare la sua presenza era come accorgersi improvvisamente di un dettaglio che era sempre stato davanti agli occhi. Stava sul davanzale, come le altre volte, un’ombra contro la pallida luce della luna. Il ragazzo restò immobile per un minuto abbondante, fissando gli occhietti lucenti, che a loro volta fissavano lui.
«Da quanto tempo stai là?», chiese infine. Si sforzava di restare impassibile, ma una corrente gelida l’aveva attraversato, dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. E la creatura lo sapeva, conosceva la sua paura. Sapeva tutto. Il cuore martellava nel petto di Mino come un tamburo.
«Qui, lì, prima, dopo», rispose l’essere. «Che differenza fa?» Fece una lunga pausa. Nel buio era impossibile indovinare l’espressione sul suo viso. Poi disse: «Hai pensato a quello che ti ho detto?»
Mino non osava rispondere. Certo che lo aveva fatto, come avrebbe potuto non pensarci? Dopo la prima volta ai Sassi, in due diverse occasioni il visitatore s’era presentato alla sua finestra. Sempre di notte. La piccola figura scura arrivava dal nulla, come se il suo corpo fosse notte e i suoi occhi gelide stelle che brillavano dal buio profondo, e parlava con voce subdola e parole maliziose. Mino spesso lo sognava. E non era mai del tutto sicuro che si trattasse di veri e propri sogni. La creatura poteva entrare nelle sua mente, di questo era certo. Ora si stupiva di essere rimasto davanti alla finestra aperta sulla notte, come niente fosse, quando di solito si assicurava di serrare per bene anche gli scuri. Ma quella volta aveva la testa in fiamme, i tagli sulla schiena e l’angoscia del futuro ad annebbiargli la mente. Aveva lasciato la finestra aperta e l’essere fatato era venuto.
«Hai pensato a quello che ti ho detto?», ripeté.
«Sì».
«Bene. È un privilegio raro quello che ti si offre, credo che tu ne sia consapevole. Il tuo giovane cuoricino soffre, la tua testa è in preda a un incendio, la tua pelle sanguina. Tutto il tuo piccolo essere palpita di paura e desiderio. Ma puoi avere un dono. Uno solo. Devi scegliere con accuratezza».
Mino aveva paura e non parlava.
«Devi prendere il coraggio dal fondo del tuo pancino, caro ragazzo», diceva l’essere fatato. Era piccolo, come un bambino, ma la luce spettrale che scintillava ora negli occhi, ora nel sorriso lo rendevano più terrificante di qualsiasi orco o gigante. «Vuoi il cuore della tua amata?», diceva. «È così giovane e così bella da fare invidia a un principe. O forse preferisci il cuore del tuo crudele padre, servito in una coppa, a bagno nel suo stesso sangue?»
«Che vòi ammazzà mi padre?», chiese Mino in un sussulto, senza fare in tempo a frenare la lingua.
«Oh! Lo desideri?». Un ghigno s’illuminò nel buio.
«No! Te prego, no!». La voce uscì così bruscamente da strozzarsi in gola.
«Che caro ragazzo! La tua devozione filiale ti onora. Anche se al posto tuo caverei gli occhi di quel prepotente e lo impiccherei col suo stesso intestino. Ma mi solleva che tu voglia risparmiargli la vita, poiché quel riprovevole mentecatto fa parte di un piano già in atto e mi addolorerebbe dover modificare uno spettacolo così ben congeniato». Fece una lunga pausa. Poi aggiunse sussurrando in tono mellifluo: «D’altra parte, non avresti bisogno di me per prenderti la sua vita… Ti basterebbero una lama, una notte di quiete in cui tutti dormono e un passo leggero…»
«Io non vojo che more nessuno», disse Mino.
«Beh, ma caro fanciullo, la morte è una faccenda con la quale devi imparare a convivere, è un fatto ineluttabile per voi mortali. Avete vite così brevi e in continua trasformazione. Morire oggi, morire domani. Non è poi questa differenza. Prendi quella fanciulla per cui tremi d’amore: è già in età da marito e presto qualcuno la prenderà. Mentre tu sei qui che temporeggi! Devi deciderti, la mia offerta non dura per sempre. Preferisci che presenti il mio dono a qualcun altro? Qualche altro giovane in cerca d’amore, magari? Quante fanciulle ci sono da queste parti, desiderabili come lei? È così splendida!»
Dopo questa frase, Mino si accorse che non era più in grado di vederlo affatto. Esitò per un lunghissimo istante, finché trovò il coraggio di alzarsi dal letto per guardare più da vicino: sul davanzale non c’era più nessuno. Diede una rapida occhiata all’esterno, poi si sporse per tirare indentro gli scuri. Aveva il busto mezzo fuori dalla finestra, quando sentì la voce alle sue spalle:
«Potrei farla innamorare di te così profondamente che preferirebbe morire, piuttosto che essere di qualcun altro…»
Mino si voltò di scatto, ma non vide nessuno.
«Non chiudere la finestra, le prossime notti», disse la voce, che stavolta proveniva da fuori, «altrimenti dovrò entrare nei tuoi sogni».
Il ragazzo chiuse gli scuri con uno scatto, ma se ne pentì: una fitta di dolore lancinante gli trapassò la schiena. Una delle ferite s’era riaperta. Sentì un rivolo di sangue scendergli lungo un fianco.
☞Vai alla Quarta Puntata
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Elisabetta says
Questo tuo nuovo racconto è molto intrigante
La prima puntata sembrava presagire a qsa di diverso e tipicamente horror, nella seconda invece ritrovo la tua impronta narrativa che riporta al realismo magico
Attendiamo gli sviluppi
Luca Ricatti says
Grazie!