Non dovremmo iniziare così. Forse nessuna storia dovrebbe iniziare così, in una stanza da letto buia, in una notte di fine inverno, tra persone ostili e in condizioni tanto tragiche, orrende e inconcepibili. Forse dovremmo cominciare da un mattino assolato di tanti anni prima. Ma non sarebbe lo stesso. I fatti che stiamo per narrare segnarono così profondamente l’animo del protagonista di questa storia, che non avrebbe senso rimandarne il resoconto. No, non possiamo che prendere le mosse da quella notte e sappiamo che lettrici e lettori ne converranno, quando saremo alla conclusione della storia.
Abbiamo parlato di una stanza buia, ma non è il termine più adatto. Forse dovremmo definirla «tetra». Sì, era una stanza tetra.
S’intravedeva un’ombra, disegnata dalla fredda luce lunare che attraversava la finestra dalle tende aperte, l’ombra di qualcuno seduto con le spalle verso i vetri. Questa persona mormorava una giaculatoria incomprensibile, china su un cadavere che stava disteso su un letto a baldacchino. Il cadavere era certamente vestito di tutto punto, anche perché la prima cosa che si notava, entrando nella camera, la cui porta dava sui piedi del letto, erano le suole delle scarpe. E doveva avere le mani incrociate sul petto, si intuiva da un paio di gemelli sui polsini che riflettevano il fioco chiarore. Si udiva il fischio di uno spiffero che s’insinuava in qualche pertugio e poi lo sbattere di una persiana, da qualche parte, fuori. Era una notte molto ventosa.
Il protagonista della nostra storia stava in piedi sulla soglia da alcuni minuti e, per quanto i suoi occhi si fossero abituati al buio, faticava a distinguere volti e oggetti. D’altra parte, non metteva piede in quella casa da molti anni e molte cose erano cambiate da quando era partito. Per esempio non c’era un letto a baldacchino, al tempo in cui frequentava quelle stanze. E nessuno indossava preziosi gemelli, figurarsi poi lasciarli indosso a un cadavere da seppellire per sempre in una fossa. Le pallide tende erano un lusso del tutto nuovo, per non parlare delle porte che si dovevano attraversare per arrivare alla camera da letto padronale, opera di raffinati artigiani, con stipiti intagliati in forma di colonne e architravi decorati con teste di angeli e leoni. Il nostro protagonista era un uomo che tornava in una vecchia casa per scoprire di non conoscerla più. Eppure, a chi fosse appartenuto il corpo disteso sul letto non aveva bisogno di chiederlo.
A un certo momento, udì un sospiro leggero alle sue spalle, si voltò e incontrò il volto di un uomo che portava un cero di colza acceso, infilato in un candeliere che sembrava fatto d’oro. Si scostò per far passare l’uomo, certamente un servo, il quale andò a trafficare su un mobiletto accanto al letto. Da lì, subito dopo, un secondo cero prese a diffondere una luce tremula. Non era lo stesso servo che lo aveva accolto all’ingresso e nemmeno quello che lo aveva accompagnato fino alla soglia della camera. Anche questa era una novità: ai suoi tempi di servi non ce n’era neanche mezzo. Nel frattempo, aveva preso vita una terza fiammella e ben presto i ceri accessi divennero cinque. Poi si udirono passi che salivano le scale. Numerosi passi.
«Mino…?», chiamò una voce.
Il nostro protagonista si voltò e vide, ferma in mezzo al disimpegno in cima alle scale, una donna. Il viso era illuminato solo dalla traballante candela che lei teneva in mano, ma lui la riconobbe.
«Mino?», ripeté la donna. «Sei proprio te!». Lo disse senza alcuna gioia, solo con un’ombra di stupore. Forse c’era anche un nota di disappunto. Subito si voltò verso le persone alle sue spalle. Alcune stavano sugli scalini che portavano al piano terra, perché il pianerottolo era troppo piccolo. La donna che lo aveva chiamato per nome tornò a fissare il nostro protagonista. L’espressione era indecifrabile, ma gli occhi lo percorsero dalla testa ai piedi.
«Pensavamo ch’eri morto…», aggiunse in tono piatto. »E ‘nvece te sei fatto omo».
Lui pensò solo che era tanto tempo che nessuno lo chiamava in quel modo: Mino.
«Che sei venuto a fà?»
«E che dev’esse venuto a fà?», intervenne un uomo alle spalle della donna, in piedi sull’ultimo gradino delle scale.
«L’avvoltoi arivano quanno che c’è puzza de carogna», aggiunse un altro.
«E zitto!», lo redarguì un’altra donna che gli stava accanto.
Quella che lo aveva chiamato per nome disse:
«Mamma t’ha visto?»
Mino si voltò un attimo a guardare l’ombra seduta e china sul cadavere. Poi fece segno di no con la testa.
«Ecco, bravo, lasciala perde», fece la donna. «È vecchia e non sta mica bene. Arimani qua».
«Io dico ch’è mejo se se ne va proprio», aggiunse qualcuno. Poi la donna oltrepassò la soglia, seguita da altre due; l’ultima, quando gli fu accanto, fissò Mino con uno sguardo incuriosito e stizzito al tempo stesso. Sul pianerottolo rimasero tre uomini.
Le tre donne, forse si sarà intuito, erano le sorelle del nostro protagonista. L’ultima volta che le aveva viste era un ragazzino e loro erano già adulte, la più grande era fidanzata ufficialmente e le altre due avevano degli spasimanti. Ora le luci delle candele avevano mostrato vistose rughe attorno ai loro occhi e striature di grigio nei capelli. Quelli alle sue spalle, sul pianerottolo, erano i loro mariti. Se li avesse incontrati per la strada non li avrebbe riconosciuti, delle loro facce ricordava solo che non gli erano mai piaciute.
Le sorelle s’erano messe attorno alla madre e una di loro le sussurrava qualcosa all’orecchio. L’anziana stava sempre china a mormorare e non era chiaro se ascoltasse o meno quello che le veniva detto. Ora che ardevano tante candele era più facile distinguere volti e oggetti, ma l’anziana restava in ombra, perché aveva la testa coperta da un velo scuro. Sembrava che dondolasse avanti e indietro, ma forse era una effetto delle luci tremolanti.
Mino esitava. Non aveva voglia di stare lì, ma non voleva neanche andarsene. Non senza dare un’occhiata al cadavere e dare un saluto a sua madre. Rimase per diversi minuti nella penombra traballante, ascoltando il fischio dello spiffero, lo sbattere lontano della persiana e il borbottio sommesso della donna, con gli sguardi dei cognati sulla schiena. Finché decise di entrare.
Tre paia di occhi delle sorelle lo fulminarono e sentì un agitarsi e un vociare dietro di lui, sul pianerottolo. Il servo che aveva acceso i ceri se ne stava in piedi immobile, dalla parte del letto opposta a quella della finestra. Mino si avvicinò al lato dove si trovavano le donne, con l’idea di vedere in viso sua madre. Quando le fu accanto, si accorse che effettivamente l’anziana stava dondolando avanti e indietro. Mino spostò lo sguardo verso il morto, ma scoprì che la luce delle candele non arrivava a illuminare la metà superiore del volto. Non vedeva suo padre da venticinque anni. Ora era un corpo senza vita, avvolto nell’ombra. Posò delicatamente una mano sulla spalla della madre. A quel punto successe tutto.
La vecchia smise di dondolare e osservò dapprima il cadavere, per un attimo, poi girò verso Mino il volto che finalmente fu colpito dalla luce delle candele: era una maschera di orrore. La fronte era aggrottata, gli occhi spalancati, la bocca divaricata in un grido silenzioso e le labbra tirate lasciavano i denti scoperti. Una sorta di tremore le scuoteva tutta la testa. Mino fece istintivamente un passo indietro, la vecchia tornò a guardare il cadavere e fece per alzarsi, con una mossa tanto rapida quanto maldestra che fece rovesciare la sedia all’indietro. Poi le sorelle diedero voce al grido che la vecchia non era riuscita a emettere, in una cacofonia acutissima e agghiacciante. Quella che era più vicina al letto fece un tale scatto indietro che travolse le altre due e una rovinò a terra. Anche la vecchia cadde all’indietro, sulla sedia rovesciata. Mino stava chinandosi per rialzarla, ma in quel momento sopraggiunsero i mariti, da dietro, gridando verso di lui. Uno lo afferrò per le spalle e lo voltò, un altro lo prese per la giacca e lo spinse contro il muro:
«C’hai fatto?», gli urlò in faccia schizzando saliva. Ma poi anche gli altri due uomini iniziarono a gridare. E non per rabbia, erano raccapriccianti grida di panico. Allora quello che lo aveva spintonato si voltò pure lui e lo lasciò andare. E quando indietreggiò, anche Mino poté vedere.
Dal letto, il cadavere si stava agitando, il busto si scuoteva sussultando, come in una sorta di orribile ballo di morte, i piedi rimbalzavano sulla coperta e la mascella s’era spalancata. Ma la cosa più ripugnante erano le mani: Mino si accorse che si erano irrigidite, con le dita talmente tese e divaricate che le dita quasi si piegavano all’indietro e la pelle, da cadaverica che era, si scuriva a vista d’occhio, diventava sempre più nera e livida. Mentre tutti gli altri indietreggiavano orripilati, Mino, che era il più lontano, fece qualche passo per avvicinarsi, finché non riuscì a vedere il volto un pochino meglio: sembrava completamente annerito e vistose crepe si stavano allungando dal collo e su per la mascella cadente. La carne annerita e rinsecchita si spaccava e si apriva e Mino pensò a un ributtante guscio che si stava schiudendo. Dai vestiti aveva iniziato a salire una sorta di fumo, come se stessero bruciando; non proveniva alcun calore dal corpo sussultante, eppure sembrava che gli abiti si stessero carbonizzando. Presto cominciarono a sbriciolarsi. Mino fece un passo indietro coprendosi il naso e la bocca con il braccio, temendo che i fumi mortiferi che salivano dagli indumenti potessero avvelenarlo. Le grida erano cessate, ma non l’orrore. Mino si guardò attorno e vide che erano tutti pietrificati dalla paura. Si ricordò improvvisamente di sua madre, ancora in terra, piegata di fianco contro la sedia rovesciata e si chinò su di lei. Probabilmente s’era fratturata qualche costola, ma non si lamentava, guardava fisso verso il cadavere, il volto una maschera di terrore. Quando provò a prenderla per un braccio, quella lo ritrasse con uno scatto violento. Poi un rumore agghiacciante arrivò dal letto, come di legna secca che si spacca. Mino vide che gli abiti non c’erano più, inceneriti o evaporati, e il cadavere nudo sembrava carbonizzato. Le grida di terrore ricominciarono. E allora arrivò.
Il cadavere era attraversato da una fenditura che andava dall’inguine fino alla fronte e che si spalancava, mentre altre crepe più piccole si aprivano su braccia e gambe. Una massa nera cominciò a fuoriuscire dal corpo dilaniato, una putredine che inizialmente aveva la consistenza di un fumo molto denso e poi improvvisamente apparve come una lunga tela che si stendeva. Saliva verso l’alto, lentamente, e assumeva sembianze umane. La testa era coperta da una sorta di enorme cappuccio nero e, sotto un manto dello stesso colore, si intuivano un busto e delle spalle. Tuttavia, quando s’appoggiò al bordo del letto, come per guardarsi attorno prima di completare la fuoriuscita dal suo orrifico guscio, si vide che le mani non erano affatto umane: erano lunghe, scheletriche, grigie e le dita terminavano in artigli affilati come quelli di un rapace. Quando fu fuori dal letto, tutti poterono vedere che non aveva piedi e fluttuava sopra il pavimento.
Le sorelle di Mino e i loro mariti cercarono di guadagnare l’uscita, ma non poterono: si accalcarono urlando contro la porta chiusa, scuotendo istericamente la maniglia e inveendo le une contro gli altri, senza riuscire ad aprire l’uscio. Mino si guardò attorno e vide che mancava qualcuno: il servo dei ceri era fuggito e s’era chiuso la porta alle spalle con la chiave, evidentemente per impedire all’orrore di uscire dalla stanza. Intanto, il mostro si chinò sulla madre di Mino, poi spostò l’attenzione altrove. Mino la guardò: aveva gli occhi spalancati e vitrei e non si muoveva, il terrore l’aveva uccisa. Con la coda dell’occhio percepì che la creatura gli si stava avvicinando e si voltò di scatto. Ma quella s’era già diretta verso qualcun altro e con la mano scheletrica aveva artigliato per la gola uno dei mariti. Questi gemeva pietrificato, non reagiva e non tentava la fuga. Quello che avvenne poi fu di gran lunga la cosa che più sconvolse Mino e il cui ricordo lo perseguitò con incubi notturni e improvvisi attacchi di paura per il resto della vita.
Senza lasciare la presa al collo, il mostro infilò l’altra sua mano dentro il corpo della vittima, come fosse di fumo, e vi afferrò qualcosa. La testa dell’uomo ricadde su una spalla, senza vita. Il mostro lasciò cadere il cadavere al suolo e si volse verso la persona che gli era più vicina, una delle sorelle. In pochi attimi, il cadavere in terra cominciò ad annerirsi e a spaccarsi, come era avvenuto con quello sul letto, ma molto più rapidamente. Un secondo orrore già fuoriusciva mentre anche la sorella cadeva a terra morta. Mino si era rifugiato in un angolo buio e osservava paralizzato e impotente il mostro uccidere tutti i suoi parenti, uno dopo l’altro.
In pochi minuti nella camera fluttuarono sette esseri ammantati di nero e con lunghe mani scheletriche.
Un paio di loro si voltarono verso Mino, accucciato tra il muro e l’armadio. Due ceri erano rovesciati a terra, ma s’erano spenti nella caduta. Al posto dei cadaveri c’erano solo piccoli cumuli di cenere, che si vaporizzavano e svanivano rapidamente. Dopo interminabili minuti di grida laceranti, incombeva un silenzio assoluto. Mino andò con gli occhi alla finestra e pensò che avrebbe dovuto tentare di aprirla per lanciarsi fuori e che, se anche fosse morto, sarebbe stato meglio che fare la fine degli altri. Eppure non riusciva a muoversi.
Poi, i due esseri che lo guardavano si voltarono e tutti e sette uscirono, attraversando la porta chiusa e le pareti. E d’improvviso fu come se non ci fossero mai stati. Erano svaniti come degli spettri.
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