Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Tuonava e lampeggiava da tutto il pomeriggio e un vento furioso scuoteva la porta di casa, come se qualcuno la spingesse rabbiosamente tentando di entrare. Aria gelida turbinava dagli spifferi agitando il fuoco nel camino, che divorava ciocchi uno dopo l’altro. Lelletta se ne stava avvolta in una coperta vicino al focolare e tra le gambe teneva accoccolata Ludovica, alla quale stava impartendo una lezione su come si comporta una brava bambina davanti agli estranei. Ludovica era la sua bambola di pezza. Per quanto assorta nel discorso, Lelletta non poteva trattenersi dal lanciare occhiate alla porta di casa, ogni volta che questa sussultava. Finché un rumore più forte degli altri la costrinse a voltarsi del tutto. Anzi non un rumore, ma tre, tre colpi a intervalli regolari: stavano bussando.
Qualcuno era lì fuori, nella tempesta di vento e pioggerella che stava per trasformarsi in un temporale. Da una sedia, il padre di Lelletta si alzò e con passi pesanti attraversò la stanza. La madre, china su una stoffa che stava cucendo accanto al camino per farsi luce, alzò lo sguardo sul marito:
«È lui?»
«Lui chi?», le fece eco Lelletta.
Il padre non rispose alla madre e nessuno rispose a Lelletta. L’uomo aprì la porta e una folata di vento fece piegare il fuoco, riducendolo per un attimo a una timida fiammella. Nel grigio del pomeriggio, comparve una figura nera.
Il padre e la figura nera si dissero qualcosa che Lelletta non poté sentire, poi la porta si aprì del tutto e l’estraneo si fece avanti. Era un ometto avvolto in un mantello, che appena oltrepassò la soglia s’abbassò il cappuccio scuro tirando fuori una testolina glabra e ossuta, con due occhi grandi che sembravano sul punto di uscire dalle orbite, un naso sottile che scendeva fino alla bocca e il mento sfuggente. Iniziò subito a girare la testa intorno, senza salutare nessuno, come se cercasse qualcosa, finché lo sguardo cadde su Lelletta. Gli si accese per un attimo una strana luce negli occhi tondi, ma poi un’impercettibile smorfia di delusione la spense.
«Buonasera, cara», disse con una voce stridula, dopo avere scrutato la bambina.
«Buonasera», rispose a mezza bocca Lelletta, che non aveva nessuna voglia di parlare a quell’uomo. Ma le brave bambine rispondono a un saluto, lo diceva sempre alla sua bambola Ludovica.
«Mariella, va’ in cammera da letto», disse il padre. Lelletta non se lo fece ripetere, senza togliersi la coperta di dosso e stringendo Ludovica contro il petto, sgattaiolò via. C’era una porta, tra la stanza principale e quella da notte, e Lelletta la chiuse. Salì sul lettone dei genitori e si sistemò a sedere sulla spessa coperta di lana, affondando nel centro del materasso. Riprese il discorso che stava facendo a Ludovica da dove s’era interrotta, ma una parte di lei era rimasta al di là della porta, insieme ai genitori che confabulavano con lo sconosciuto dal mantello scuro. Solo che non lo poteva sentire, di cosa confabulavano.
Passarono molti minuti in cui Lelletta finse con se stessa di giocare insieme a Ludovica, ma alla fine lasciò andare la bambola e rimase a fissare il vuoto in silenzio, sperando di cogliere qualche frase dalla stanza accanto. Dopo un po’, sentì la voce stridula dello sconosciuto pronunciare ad alta voce, con tono imperioso, delle strane parole, che sembravano di una lingua sconosciuta.
Si alzò dal letto e andò ad appoggiare l’orecchio alla porta.
«Tu però non lo devi fa!», disse a Ludovica, «le brave bambine non le fanno ste cose!»
«È proprio così, non si origlia!» le rispose al di là della porta la voce stridula. Lelletta fece un salto indietro. La maniglia si abbassò e la porta si schiuse. L’ometto nel mantello scuro si affacciò e fissò la bambina coi suoi occhi enormi:
«Adesso ascoltami, piccola. Papà e Mamma devono dormire per un po’ e non potranno parlare con te. Ma tu non devi preoccuparti, perché stanno benissimo e quando si sveglieranno saranno molto felici».
Lelletta s’era accostata con la schiena alla parete opposta e fissava l’uomo con la bocca aperta. Sembrava voler spingere il muro per abbatterlo e fuggire il più lontano possibile.
«Non devi avere paura», diceva l’ometto, «da oggi la tua vita diventerà più bella e io non ti voglio fare niente di male. Ora me ne vado via e non mi vedrai mai più, però prima vorrei che tu mi levassi una piccola curiosità. Qualche giorno fa ho visto una bambina della tua età che parlava con una vecchia, davanti alla porta del paese. Conosco quella vecchia, è una strega pericolosa, che può fare del male ai bambini. Vorrei tanto sapere il nome di quella bambina, così da poterle parlare e metterla in guardia. Le chiacchiere di quella megera portano le peggiori sciagure».
Tradimenti
Dopo due giorni da quei fatti, in casa di Nannina e Ettore la pioggia batteva furiosa contro il vetro dell’unica finestra, che tremava a ogni tuono e sembrava sempre sul punto di scoppiare. Era da poco passata l’ora del pranzo, ma l’aria era gelida e i due bambini giocavano seduti a terra davanti al camino crepitante, girando ogni tanto gli occhi verso la finestra e rammaricandosi di non poter uscire a incontrare gli amici. Fuori, per le vie del paese, scrosciavano torrenti di acqua piovana.
Ma poi, quasi per caso, Nannina s’accorse che il rumore della pioggia s’era affievolito e corse alla finestra: il temporale che per due giorni aveva rovesciato il cielo su tetti e vicoli s’era improvvisamente trasformato in una pioggerellina rada e sottile. Ettorino corse a mettersi a fianco alla sorella e, coi nasi incollati al vetro, i due bambini guardarono le ultime gocce cadere e poi esplosero in un coro:
«Ha smesso, ha smesso! Potemo uscì?»
«Da un momento all’altro riprende», sentenziò la madre.
Ma il padre s’affacciò alla porta di casa per fare entrare l’aria e annusarla:
«No, non riprende fino a stasera», disse con assoluta certezza. Si sbagliava, la pioggia sarebbe tornata a cadere di lì a poco; ma siccome non capitava mai, che si sbagliasse, la previsione fu presa per buona e Nannina si infilò le scarpe mentre già si scapicollava fuori, inseguita dal fratellino, mentre sua madre le gridava inutilmente che avrebbe dovuto darsi una spazzolata ai capelli.
Le stradine contorte che giravano attorno alle casette di pietra erano tutte bagnate e torrentelli d’acqua piovana ancora scaricavano ai bordi la furia della tempesta appena passata. Il cielo era sempre grigio, fitto e scuro.
Nannina e Ettorino arrivarono per primi ai gradini della chiesa, ma nel giro di mezz’ora anche tutti i loro amici erano lì.
L’ultima a arrivare fu Lelletta. Era sempre la più graziosa, col vestitino più carino, i lunghi capelli sempre spazzolati adornati da un nastrino e il visetto pulito. Ma aveva lo sguardo basso e non parlava.
«A Lelletta j’ha mangiato la lingua er gatto!», sentenziò Gianni con una risatina.
«Non me chiamo Lelletta!», replicò lei a denti stretti.
«A casa tua come va?», chiese Nannina a Renzo, cambiando discorso.
Pure Renzo se ne stava sulle sue e non parlava, teneva lo sguardo fisso sulle scarpe nuove e agitava i pugni chiusi dentro le tasche. Con uno sforzo, aprì le labbra e bofonchiò:
«A casa mia non è più come prima» e poi sembrò non voler dire più niente. Ma Nannina continuava a guardarlo e in qualche modo lo obbligò a proseguire:
«Mi padre s’addormenta tutti i giorni, sempre a quella maniera, co l’occhi bianchi, rimane fermo così pe tutto il pomeriggio e quando se sveja dice che va tutto bene. Ma io lo vedo che non va bene pe niente: è sempre stanco e dice che je dole la testa e borbotta e strilla co mi madre. E poi se scorda le cose: stamattina non se ricordava come me chiamo. Ah papà, me chiamo Renzo, j’ho detto, ma che non te ricordi? Me fa, dice: certo che me ricordo, ma te pare?, ma io l’ho capito che me tirava pe la manica e diceva oh, oh, perché non je veniva in mente il nome mio!»
«Embè? Capirai!». Fu quasi un grido, quello che esplose dalla bocca di Lelletta. E quando tutti si voltarono a guardarla stupiti, si vergognò, come se l’avessero sorpresa a rubare. Allora tornò subito aggressiva:
«Aho, ma che ciavete da guardà?»
«Ma che ciài te», l’apostrofò Nannina: «Ma che ne sai de come se la passa Renzo? Te vojo vedé, al posto suo!»
«Ma che ne sai te, invece!», urlò Lelletta. E improvvisamente scoppiò a piangere. E raccontò dell’uomo col mantello scuro che era arrivato a casa sua due giorni prima e di come entrambi i suoi genitori restavano paralizzati sulle sedie con gli occhi bianchi, il papà di mattina, la mamma di pomeriggio ed erano diventati improvvisamente cupi e tristi, litigavano tra loro e la rimproveravano per qualsiasi sciocchezza.
«E poi voleva sapé de te!», gridò all’improvviso a Nannina. «Voleva sapé chi sei, dice che t’ha visto che parlavi co la Vecchia delle Pentole! Cercava a te, cercava! Quando è arrivato a casa mia pensava che ero te! È tutta colpa tua!»
«Ma che c’entro io? Che vole da me?», balbettò Nannina confusa.
«Nullo sò, che vole da te, ma voleva sapé chi sei e dove abiti!»
«E tu gliel’hai detto?»
«E certo che gliel’ho detto!»
Nella testa di Nannina risuonò improvvisamente la profezia che le aveva fatto la Vecchia Pazza delle Pentole: Sta venendo a prendersi tutti, anche i tuoi genitori!. E la bambina passò dall’espressionne di stupore a quella di rabbia:
«Brutta spia, stupida! Sei na scema e na spia!», urlò. E Lelletta riprese a piangere, incontenibile. «Non te sai tené un cecio in bocca, dico io?», la incalzava Nannina. «Zitta, dovevi sta!». Lelletta non rispondeva, riusciva solo a piangere. «Se arriva a casa mia è tutta colpa tua!», urlava Nannina, ma a quel punto il fratello la tirò per un braccio:
«E basta, mó lasciala stà», mormorò. La sorella lo fulminò, colma di rabbia:
«Ah, la difendi?»
Ettorino abbassò gli occhi, bofonchiando:
«Vabbè, ma sta a piagne…»
«Ma non l’hai capito, che guaio che c’ha combinato sta fifona?», sbraitò Nannina e poi passò lo sguardo su tutti e vide che nessuno la guardava. Allora capì che i suoi amici non condividevano la sua indignazione ed era sola. Così voltò le spalle e se ne andò e siccome le si stavano gonfiando gli occhi di lacrime si mise a correre, perché mai si sarebbe fatta scoprire a piangere dagli altri bambini. Intanto i singhiozzi di Lelletta riecheggiavano tra i muri di pietra.
Il servo
Le scarpe slacciate affondarono più di una volta nelle pozzanghere e l’acqua inzuppò le calze, ma Nannina non ci prestò attenzione e corse fino a che non giunse a pochi metri da casa. A quel punto si fermò a riprendere fiato, per non farsi trovare con l’affanno dai genitori e dover spiegare che era scappata via di corsa. Non voleva raccontare di essersi arrabbiata con tutti e che quasi le era venuto da piangere. Poi però pensò che avrebbe comunque dovuto spiegare perché tornava così presto, dopo aver aspettato per due giorni di poter stare fuori con gli amici. Stava per andarsene a passeggiare lontano, magari fuori dal paese, per guardare lo spettacolo della valle verdissima bagnata di pioggia sotto il cielo plumbeo, quando vide che la porta di casa si apriva e ne usciva qualcuno. Non era suo padre, né sua madre, era un ometto avvolto in un mantello scuro. Il cuore di Nannina iniziò a battere veloce.
L’ometto si chiuse la porta alle spalle, si guardò intorno e vide la bambina. Allora i suoi grandi occhi tondi si aprirono ancora di più e uno strano sorriso gli piegò la bocca. Scese gli scalini che davano sul vicolo, si avvicinò e quando le fu davanti la fissò per un attimo, prima di parlare:
«Finalmente ci conosciamo!», disse scrutandola da capo a piedi. Le prese la punta del mento per sollevarle il viso, ma Nannina s’allontanò con uno scatto.
«T’ho visto che parlavi con la strega, alcuni giorni fa», disse l’ometto.
Nannina non rispose subito, perché non capiva.
«Non conosco nessuna strega!», mormorò dopo un po’ fissando l’uomo, tesa come una gatta davanti a un grosso cane.
«Non sai che è una strega, quella vecchia con cui parlavi?», chiese l’ometto.
«La Vecchia delle Pentole?»
«È così che la chiamate? Cosa ti ha detto di me?», la incalzò l’ometto facendo un passetto in avanti, con la faccia china su quella di lei.
Nannina indietreggiò, ma un impeto di rabbia le risaliva dalla pancia:
«Che sei un amico dell’Ogni Mante… Onimante… vabbè un omo pericoloso che fa qualcheccosa de brutto ai nostri genitori!»
«È falso», rispose l’ometto, «è falso come tutto ciò che esce da quella viscida bocca di vecchia. Non ho alcuna intenzione malvagia verso i tuoi genitori o verso altri. Io sono qui perché una volontà superiore vuole portare nuove possibilità di ricchezza in questo piccolo villaggio e grazie e me la vita tua e dei tuoi amici cambierà in meglio».
«A noi non ce serve niente, vattene e lasciace in pace!», urlò Nannina. Non riusciva a trattenere le lacrime e questo la faceva arrabbiare ancora di più. «E poi che vòi da me? Perché me cerchi? Vattene via!»
«Oh, ma io devo metterti in guardia, piccola! Devi stare lontana dalla strega! Sono sicuro che anche i tuoi genitori te lo dicono». Improvvisamente l’ometto abbassò gli angoli della bocca trasformando il sorriso in una smorfia quasi rabbiosa: «Sta lontana dalla vecchia strega, o qualcosa di molto crudele capiterà alla tua famiglia!». Poi si voltò e se ne andò.
Nannina spiccò subito una corsa, salì gli scalini e aprì la porta. Da dentro non veniva alcun rumore. Entrata, trovò i genitori seduti accanto al camino, dove il focolare era ridotto a brace. Erano entrambi immobili, con gli occhi aperti rovesciati all’indietro. In quel momento ricominciò a piovere.
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Pietro says
La prima puntata era cosi bella che i miei bambini da un mese a intervalli regolari mi chiedono se ho ricevuto la mail con la seconda. Non vedo l’ora di leggere la seconda con loro. Grazie. Grazie e grazie ancora ?
Luca Ricatti says
Grazie Pietro del feedback!
Mi chiedo di continuo se potrebbe essere una racconto troppo oscuro per dei bambini, mi fa molto piacere il tuo riscontro!
Gianni says
Bella storia coinvolgente e imprevedibile che ti porta in un mondo fantastico eppure realistico in una contraddizione che ti sembra normale e non capisci perché. Però poi la tua perfidia sospende il racconto lasciando il lettore nell’ attesa di sapere. Fa presto aspettiamo la terza puntata. Bravo
Luca Ricatti says
Grazie,
la perfidia è parte del gioco!?
Elisabetta says
Nella seconda parte del racconto il livello della narrazione si fa ancora più misterioso ed inquietante portandoci in questo luogo reale e magico al tempo stesso e rendendoci ancora più impazienti di conoscere i prossimi sviluppi della trama
Aspettiamo il seguito
Bene Luca attendiamo il seguito
Luca Ricatti says
Grazie mille!