Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
Prima Puntata☜
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Quando vide spuntare i piedi, Ettorino ebbe un sussulto. Era lì che aspettava da un sacco di tempo e il pavimento era così duro. Quando aveva elaborato il suo piano gli era sembrato semplice e perfetto, era sicuro di poter restare in quella posizione per tutto il giorno senza alcun problema, anche perché ci si era messo dozzine di volte giocando a nascondino con la sorella. Per lui era facile intrufolarsi sotto il lettone, mentre i grandi ci ficcavano lo sguardo solo quando dovevano passarci la scopa (la mamma) o tirare fuori la scatola di legno con le seghe e gli scalpelli (il papà). Ma qualcosa era andato storto, chissà perché il padre era arrivato molto più tardi del solito e l’attesa era stata estenuante.
Erano passate quasi due settimane dal giorno in cui l’ometto col mantello e il cappuccio scuro era arrivato a casa loro. Era cambiato tutto.
Ora il papà non andava più in giro per in cerca di lavoretti di falegnameria che nessuno poteva pagare, avevano sempre pane freschissimo ed erano anche stati al mercato della domenica, dove avevano comprato scarpe per tutta la famiglia. E soprattutto giocattoli!
Ettorino aveva avuto un cavaliere di legno tutto dipinto e con le braccia e la testa che si muovevano e anche una mazzafionda nuova, colorata di rosso e tutta levigata, che tirava più forte e più lontano del vecchio pezzo di ramo che aveva scortecciato con l’aiuto del suo amico Renzo.
Però Nannina non gli parlava quasi più. Era arrabbiata con lui e con gli altri bambini e quando si incontravano davanti alla chiesa o fuori della porta del paese e tutti portavano i giocattoli nuovi, lei restava qualche minuto a guardarli senza parlare e poi se ne andava chissà dove.
«Giocamo insieme co la tua bambola e il mio cavaliere?», le chiedeva ogni tanto, ma la risposta era sempre la stessa:
«Adesso non me va, semmai dopo».
Ettorino si sentiva più solo. Anche perché mamma e papà erano quasi sempre occupati: come i genitori di tutti i suoi amici, passavano gran parte del giorno chiusi in una stanza. Vietavano ai bambini di entrare, ma Ettore sapeva benissimo cosa facevano: restavano seduti, immobili, in silenzio e con gli occhi rivolti all’indietro, per ore, e sembravano come morti.
E nonostante questo, dicevano continuamente di essere stanchi e si arrabbiavano facilmente. La notte dormivano, di questo Ettore era certo perché più di una volta si era svegliato nelle ore piccole e, senza alzarsi, aveva sbirciato il lettone e li aveva visti sotto le coperte. E poi papà che russava lo sentivano pure dall’altra parte della valle.
Però doveva essere un sonno poco riposante, se ogni mattina i grandi si svegliavano nervosi, si arrabbiavano per qualsiasi cosa e litigavano tra di loro.
Ora, nonostante il pavimento duro e il dolore alle costole, ai gomiti e al collo, la noia aveva reso le palpebre sempre più pesanti e Ettore era sul punto di appisolarsi; per questo la vista dei piedi del padre, sbucati all’improvviso dalla soglia, l’aveva fatto sobbalzare.
Non lo aveva udito entrare in casa, forse si era davvero addormentato. Il materasso si piegò sopra di lui, che guardava i tacchi delle scarpe nuove del papà seduto sul letto.
L’uomo si schiarì la voce e disse qualcosa di incomprensibile. Ettore non aveva mai sentito parole così, erano fatte di suoni duri e un po’ scivolosi ed erano piuttosto spaventose. Ricordò che Lelletta aveva raccontato di aver sentito l’ometto col mantello pronunciare frasi strane e terrificanti.
Poi fu silenzio.
«Aspetta, aspetta», ripeteva Ettore nella sua testa: «Hai aspettato fino a mó, pòi aspettà qualche altro minuto!»
E aspettò, finché non fu ragionevolmente certo che il papà fosse ormai morto-addormentato con gli occhi rovesciati. Solo a quel punto sgattaiolò fuori, non senza controllare che il padre fosse effettivamente incapace di accorgersi di niente. Continuò a tenerlo d’occhio mentre si concedeva uno stiracchiamento, poi gli girò intorno. Non è che cercasse niente in particolare, sperava solo di scoprire qualcosa che nessuno dei suoi amici sapeva. Ma non notava nulla di diverso da quello che già conoscevano. Sul letto non c’era niente, a eccezione del fazzoletto da collo che il padre doveva essersi snodato prima di pronunciare la formula magica. Da lì lo sguardo si spostò sulla gola nuda del genitore e allora si accorse di una catenina che s’infilava sotto la camicia. Non lo aveva mai visto indossare collane, monili o pendagli. Dopo alcuni minuti di nervosa esitazione, si decise ad allungare una mano. Col cuore che gli batteva in gola come un tamburo, scostò la camicia aperta sotto il panciotto sbottonato.
È così che Ettore guadagnò il suo posto di rilievo in questa storia e i suoi amici l’avrebbero sempre ricordato come colui che aveva scoperto il segreto della «collana», l’oggetto magico senza il quale non era possibile la stregoneria e che gli adulti indossavano prima di pronunciare la formula magica.
Sembrava un rosario, solo che al posto dei grani aveva schegge di osso e al posto della croce aveva una clessidra; questa non era più grande del pollice di un adulto e al suo interno gocciolava un misterioso liquido denso e scuro.
Una richiesta
Nannina stava seduta su un sasso, lo stesso dove s’era rifugiata il pomeriggio prima e quello prima ancora. Ma la pioggia aveva smesso da poco di scendere e l’aria era fredda e umida. Il cielo era scuro e basso e il vento frustava il manto erboso della valle, che ondeggiava come un mare verde sotto la volta grigia. Lontano, oltre le cime sul lato opposto della piana, la nuvolaglia si era aperta appena e lasciava passare un raggio di sole che scendeva dietro le vette. Da lì, in un semicerchio perfetto, si stagliava l’arcobaleno.
Nannina decise di alzarsi, a stare ferma su quel sasso aveva iniziato a tremare dal freddo. Però non aveva voglia di tornare a casa e nemmeno di raggiungere il fratello e gli altri bambini in piazza. Da così tanti giorni la infestavano rabbia, rancore e malinconia, che spesso si trovava a piangere in solitudine. E così accadde anche in quel freddo pomeriggio, davanti allo spettacolo maestoso dell’arcobaleno.
Si strofinò naso e occhi sulla manica e, rabbrividendo per una folata di vento, si alzò, con l’intenzione di avviarsi verso casa. Ma quando si voltò scoprì di non essere sola.
Davanti a lei c’erano suo fratello Ettore col suo amico Renzo, Marietta, Gianni e anche Lelletta. Stavano tutti fermi a guardarla con aria incerta e un po’ colpevole, come se si aspettassero di essere sgridati per essere arrivati lì. Nannina era così stupita che rimase senza parole per un lungo momento. A vederli così le fecero improvvisamente tenerezza: Gianni teneva la sorellina Marietta per mano, Renzo si nascondeva dietro Ettore, che stringeva il suo cavaliere di legno con entrambe le mani, e Lelletta si guardava i piedi.
Alla fine Nannina disse:
«Come lo sapevate che stavo qua?»
Lelletta fece un passetto timido in avanti, sempre con lo sguardo basso, e disse:
«È colpa mia se l’ometto gobbo è arrivato pure a casa tua, sò stata na stupida e na fifona, me dispiace».
Ci fu un lungo silenzio imbarazzato, prima che Nannina riuscisse a rispondere qualcosa.
«Non è colpa tua, invece», balbettò, «l’avrebbe trovata lo stesso casa mia, me cercava».
A quel punto si fece avanti anche Renzo, che con una vocina esile disse:
«Forse qualcosa la potemmo fà pure noi. Guarda». E dalla tasca tirò fuori la collana. «È questa che fa la stregoneria, i grandi se la mettono al collo, dicono na formula magica e poi diventano morti-addormentati. Questa l’ho rubata a mi padre stanotte, mentre dormiva, e infatti oggi non ha potuto fà il morto-addormentato. È arrabbiatissimo che non la trova più, ma non gliela ridò, tanto non se lo immagina che l’ho presa io, non lo sa mica che lo so, della collana». Posò l’oggetto magico nelle mani di Nannina.
«Come l’avete scoperto?», chiese lei.
«È stato tu fratello», rispose Renzo.
Nannina posò lo sguardo stupito su Ettore, che si vergognava di guardarla in viso:
«Ho spiato papà…», disse lui a mezza bocca. «Me sò nascosto in camera e l’ho guardato mentre faceva il morto-addormentato».
«Abbiamo pensato», intervenne Lelletta «visto che conosci la Vecchia Pazza delle Pentole, che è una mezza strega…»
Ecco cosa volevano, ecco perché erano venuti a cercarla su quel sasso fuori dal paese. Li guardò uno a uno presa da un’improvvisa angoscia. «Volete che gliela faccio vedere alla Vecchia?», chiese.
«Magari non serve a niente…», disse Lelletta
«Però è l’unica che sa le cose della magia», intervenne Renzo.
«E tu sei l’unica che ce parla», aggiunse Ettore.
Vide che suo fratello e la piccola Marietta e tutti gli altri la guardavano col fiato sospeso e le si strinse il cuore. Perché fu assolutamente certa che li avrebbe delusi tutti.
Una fessura tra le pietre
Una dozzina di piedi di bambini marciava in fila indiana lungo il sentiero che s’attorcigliava attorno alla montagna. In alto, la vetta del Monte Muto era nascosta da una densa nube scura, davanti a loro la stradina bianca e polverosa si districava tra il precipizio sulla destra e una parete fitta di cespugli sulla sinistra. Nannina faceva strada.
«Manca molto?», chiese Ettore. Camminavano da almeno mezz’ora.
«Dovrebbe essere da queste parti», rispose la sorella, l’unica di loro che conoscesse quella via. Non era mai stata nel rifugio della vecchia ed era abbastanza certa che fosse nascosto. Ma s’era avventurata già due volte lungo quel sentiero, tracciato da generazioni di pastori che nella bella stagione ci conducevano le pecore in direzione del pascolo che stava sotto la vetta.
L’ultimo tratto di sentiero era il più ripido, i bambini si arrampicarono senza protestare ma, quando furono sul prato del pascolo, un vento gelido li investì e qualcuno di loro si lamentò, perché non avevano vestiti adatti a proteggersi. Nannina si guardava intorno, ma c’erano solo erba, alberi e rocce. Poi Marietta gridò:
«È lei, eccola!»
Da chissà dove, in fondo al prato era apparsa la vecchia, con le sue pentole a tracolla, che guardava i bambini. S’incamminò e i bambini iniziarono a chiamarla, ma lei non si voltò.
Il gruppetto la seguì, alcuni continuavano a gridare per attirare la sua attenzione, ma la vecchia proseguiva la sua camminata ciondolante, tra lo sbatacchiare di pentole. Poi a un tratto si girò a guardarli, prima di infilarsi tra le rocce di una parete. I bambini spiccarono una corsa tutti insieme e quando giunsero nel punto in cui la vecchia era sparita, s’accorsero che c’era una fessura nascosta tra le pietre. Lì si fermarono e nessuno aveva il coraggio di fare un passo o dire niente. La fessura era alta un paio di metri e larga quanto le spalle di un uomo adulto, ma non era possibile vedere cosa ci fosse all’interno, perché il buio era assoluto.
Nannina sapeva di dover essere lei a entrare. Col tono di voce più saldo che riuscì a tirare fuori, disse:
«Aspettate qua». E poi entrò.
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Pietro says
Grazie x la terza!
Bella come le prime due!!
I bambini (8 e 9) dicono che la storia diventa sempre piu intrigante!
Io (43) ho fatto un po fatica a rientrare nella storia e ho dovuto rileggere metà della seconda. All inizio ci starebbe bene un classico “previously on la cerca….” 😉
Per il resto, non ci resta che aspettare la quarta!
Luca Ricatti says
Ma grazie a te e ai tuoi figli per l’apprezzamento!
E scusatemi per la lentezza con cui public le puntate.
(In effetti forse il «previously» ci vorrebbe!)