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Prima Puntata☜
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Aveva vispi occhietti a mandorla stranamente luminosi che scrutavano in profondità. Stava seduto a gambe incrociate, le mani posate sulle ginocchia, e li fissava a uno a uno.
«Che sei? Un folletto?», chiese Nannina e subito lo sguardo dell’omino scattò su di lei.
«Che sei?!», rispose lui con cipiglio. «Bada a come parli, ragazzina, si dice chi sei! Ma che razza di scuola hai frequentato?»
«Io non ce sò andata a scola»
«E invece sì», disse l’omino. «Ma solo per sei mesi, quindi ti perdono. E poi la vostra maestra era un’insignificante carciofa rinsecchita, nata tra i polverosi mattoni di città… Invece voi siete tipetti svegli e mi ispirate simpatia». Gli guizzò un’espressione furba, vagamente maliziosa, mentre continuava ad accarezzare il muso dell’unicorno: «E mi potreste essere utili…»
Ettore, Renzo e Gianni ringhiarono quasi all’unisono.
«Che ne sai tu, della maestra nostra?», intervenne Marietta.
L’omino fissò i ragazzi accigliandosi e gli occhi lampeggiarono così minacciosi che quelli s’acquattarono nell’erba mugolando. Allora mutò subito espressione, sorrise e il lampo negli occhi si spense per accendersi sulla piccola dentatura perfetta:
«Non fare domande oziose, bimba rondinella, o finiamo col perderci in dettagli di minore conto. Non vi dovete agitare, ho solo intenzione di proporre un patto!». Fece una pausa molto teatrale, alzando gli occhi al cielo con un sospiro carico di dolore:
«Vedete, mi trovo in una situazione incresciosa, a dir poco, e vorrei bentosto liberarmene. Non capitava da un centinaio di lustri che qualcuno della mia genia si trovasse a subire cotale iniquità e nondimeno tra i miei pari è giudicato sconveniente finire impastoiati in simili imbrogli. Ciò che rende la faccenda financo imbarazzante. Tanto più che detta circostanza perdura ormai da un tempo lungo quanto una vita d’uomo. Per queste e altre ragioni, non ultimo un certo sentimento di vendetta che mi alberga in cuore, mi renderei disponibile a fornirvi il mio modesto supporto, acciocché le vostre graziose personcine mi concedano in cambio un certo servigio…». Si interruppe, notando che i ragazzi lo fissavano a bocca aperta. «Sto forse parlando difficile?», aggiunse con un ghigno appena accennato.
«Vòi quarcheccosa da noi», rispose Nannina.
«Sì», rispose l’omino con una smorfia annoiata di sufficienza, «è più o meno quello che ho detto. Ma ho anche detto che posso darvi qualcosa in cambio».
«E che cosa?»
«Tu che sei venuta a fare, qui, ragazzina? Non devi rispondere, è una domanda retorica, vale a dire che conosco già la risposta. Quantunque, avete idee affatto fumose su ciò che vi necessita. Qualsiasi cosa si venga a cercare qui la si può trovare, a patto che si sappia cos’è. E, ahimè, non è questo il vostro caso, vi difetta ogni contezza al riguardo.
«Intendete salvare i vostri genitori da un incantamento. Ma si può mai sciogliere un garbuglio senza conoscere ove principia il filo?»
«Nannì!», sussurrò Ettore all’orecchio della sorella: «Ma c’ha detto?»
Il folletto si lasciò scappare un sorrisetto.
«Me sa che sto tizio sa come se ferma la stregoneria», rispose Nannina.
Gli angoli della bocca dell’omino si piegarono all’ingiù:
«Ma è chiaro che lo so, ne sono l’artefice!», esclamò e l’affermazione provocò un silenzio meravigliato.
Timidamente Gianni chiese:
«E che è?»
Il folletto inarcò le sopracciglia:
«Che è cosa, di grazia?»
«L’arfetice», rispose Gianni.
«Vòi dì che sei stato te?», chiese Nannina.
«Sì, ma non per mia volontà! Ecco la mia proposta: vi spiegherò da principio e con dovizia di dettagli cosa sta capitando alle vostre famiglie e cosa potete fare per salvarle. A patto che prima mi giuriate che aiuterete me a risolvere il mio problema. Ma badate bene: il giuramento è vincolante!»
«Te lo giuriamo», rispose Nannina, pur non sapendo cosa significasse vincolante. E il ghigno del folletto lampeggiò:
«E con questo considero l’accordo stipulato!».
La prigionia
L’omino parlava già da diversi minuti e le sue chiacchiere suonavano noiose come un libro. Nannina era rivoltata a guardare verso occidente. Era certa che fossero trascorse molte ore da quando avevano lasciato il rifugio della Vecchia delle Pentole; eppure il sole era sempre lì, appena sopra la cima delle montagne a ovest e il pomeriggio restava sospeso in una luce rosso-dorata. Cos’era quel posto? Dove li aveva condotti la porta che avevano evocato? Erano ancora nel mondo reale?
«Qualcuno vi avrà almeno insegnato che è segno di maleducazione voltare le spalle a chi vi parla», disse il folletto, «specie se l’oratore è una persona considerevole come me!» Ettore diede un colpo di gomito alla sorella per farla girare, mentre il folletto la apostrofava corrucciato: «Cosa mai può attrarre la tua attenzione tanto da distoglierla dall’esposizione delle vicende della mia ragguardevole vita?»
Nannina si voltò e chiese candidamente:
«Perché il sole non tramonta mai? Che posto è questo? Semo morti? Sto a sognà?»
Il folletto la scrutò per alcuni secondi con aria di disprezzo, poi bofonchiò a denti stretti:
«Non sei morta e non stai dormendo. Ora puoi farmi la cortesia di prestare attenzione al mio racconto?»
«Sì ma ‘ndove stamo?»
Il folletto sospirò spazientito:
«Dove credi di essere? Non vedi sotto i tuoi piedi?»
Nannina guardò l’erba iridescente che la circondava, poi guardò l’omino:
«Siamo ‘ndove nasce l’Arcobaleno?»
L’omino assunse un’espressione così sbalordita da sembrare quasi scandalizzato:
«Per tutti i numi, siamo sull’Arcobaleno!»
«Come sull‘Arcobaleno?» Nannina guardò il grande arco che saliva dal prato verso il cielo: «E allora quello che è?»
«Ci sono molti posti diversi quassù e questo è l’unico che sia possibile visitare a gente come voi», tagliò corto il folletto. Poi si fece serissimo, mise le mani sul cuore come se dovesse intonare un do di petto e riprese da dove s’era interrotto:
«Dunque, stavo dicendo… E fu così che il mio amatissimo padre Gallerio massacrò la legione di sprovveduti che aveva osato spingersi fino alla frontiera del suo giardino, liberò dalla prigionia la bella Lireide, che era rimasta vittima di un atroce maleficio, la sposò e insieme diedero alla luce dodici tra figlie e figli, dei quali mi pregio di essere l’ottavo.
«Nei primi secoli a noi giovani piaceva passeggiare per monti e laghi e ascoltare i vecchi racconti degli alberi, ma cominciarono a giungere uomini che predavano e saccheggiavano. E poi venne l’infausto giorno.
«A quel tempo eravamo rimasti in pochi a frequentare i boschi e le colline del vostro mondo sempre più tristo. Per la maggior parte dei miei fratelli e sorelle e cugini, i danni creati dalla vostra specie assassina erano tali da renderne insopportabile la vista. Troppo atroce l’orrore delle foreste abbattute per fare abominevoli campi con pianticelle tutte uguali, messe in riga come soldatini.
«Ad ogni modo, una sera d’autunno me ne stavo accomodato su un ramo di faggio a scambiare ghiande con uno scoiattolo, quando vidi comparirmi innanzi quel malnato. Aveva la faccia tosta di farsi chiamare Maestro dai due giovinetti che si portava dietro. Costui aveva scoperto il vecchio incantesimo in chissà quale grimorio impolverato e osò adoperarlo sulla mia persona! Ah, se lo avessi saputo! Ah, se avessi immaginato! Lo avrei appeso a un ramo per i piedi e torturato per sette volte il tempo della sua esecranda vita. Ma mi colse alla sprovvista! E così eccomi qua, incatenato come un servo, a fare il volere di quel cialtrone!». Detto questo, fece una pausa, sospirando sonoramente.
«Io non ciò capito niente!», disse Renzo. «Chi è che t’ha incatenato? E poi non me pari incatenato manco pe niente!»
La bocca del folletto si piegò in un sorrisetto beffardo:
«Non tutte le catene sono fatte di ferro, lupacchiotto!». Poi prese una smorfia di disprezzo: «Mago, stregone, così lo chiamereste voi. Ma è un borioso vanesio e ama farsi appellare Oniromante. Per me è solo un’avvizzita canaglia con il ghiribizzo dei libri ingialliti. Un barbuto e barboso marrano, ecco chi era e chi è! Almeno ipotizzo che ancora lo sia, giacché è un anno quasi che non si preoccupa nemmeno di farsi vedere. Evidentemente se ne sta rinchiuso nel maniero, manda solo quel suo apprendista ormai invecchiato e imbruttito, l’unico che è rimasto».
«Ma perché non parli come magni?», sbottò Ettore. «Che è un barbuto mannaro?»
«Si dice chi è, incolto giovanotto!», lo rimbeccò il folletto.
«No stregone che j’ha fatto n’incantesimo», intervenne Nannina. «E dice che sto stregone ciaveva due aiutanti più giovani, ma mó n’è rimasto uno solo, ch’è diventato un vecchio». Poi si rivolse al folletto: «Com’è fatto st’aiutante? È pelato col naso a pisciainbocca e gira col mantello e il cappuccio?»
«È lui», confermò il folletto con una smorfia di disgusto.
«Ma se è passato tutto sto tempo, allora lo stregone sarà morto pure lui, no?»
«No, Ahimè! Quello che voleva da me era esattamente che prolungassi la sua ignobile vita», rispose il folletto.
«Aspè, una cosa pe volta. Sto stregone, sto Ogni Mante t’ha fatto n’incantesimo? E tu sei costretto a fà quello che vole lui?»
«Mi ha fatto aprire un varco che gli permettesse di giungere qui e tornare al vostro mondo ogni volta che gli aggrada. E poi s’è fatto innalzare un castello, dietro quella collina».
«E perché qua?»
«Ma perché qui è dove ogni desiderio può prendere forma! Qui è dove le abilità della mia gente sono più efficaci!»
I bambini alzarono lo sguardo sull’arcobaleno.
«Qua se realizzano i desideri?», chiese Marietta.
«Così ha detto!», le rispose il fratello.
«E allora possiamo desiderà che finisce tutta sta stregoneria?», azzardò Renzo.
«Ma che c’entrano i genitori nostri?», disse Nannina, di nuovo rivolta al folletto. «Che vole da noi, sto Ogni Mante?»
«Oniromante. Quello scellerato truffatore fece di me il suo servo al fine di ottenere l’impossibile: che allungassi la sua vita all’eternità. Tale era il suo massimo desiderio. Avesse avuto un solo granello di sapienza in quel cranio canuto, avrebbe saputo che non è possibile metter mano al ciclo della vita. Così per accontentarlo dovetti spremere il mio intelletto fino a escogitare un espediente. Non sto a dirvi i particolari, il fatto è che trovai il modo di aggiungere tempo alla sua cattivissima vita. Vedete, il tempo non è cosa che nasce sugli alberi: è come l’acqua di un fiume, non si può inventarne di nuova dal nulla per ingrossare i flutti. Tuttavia…». E qui si fermò, come se fosse improvvisamente colto d’un certo imbarazzo. I bambini lo fissavano, in attesa che riprendesse il discorso. «Beh, insomma…». Li guardò tutti, con occhietti sfuggenti. «…Ecco, se indirizzi il corso di un altro fiume, in modo che vi affluisca dentro…».
La clessidra
«Feci per lui una clessidra…», disse infine, «grande, molto grande, e feci in modo di metterci dentro tutto il tempo che rimaneva alla sua turpe esistenza, che invero era piuttosto poco. Un autentico capolavoro! Poi ne realizzai una più piccola, tale da poterla mettere al collo come un ciondolo, e gli dissi di trovare qualcuno disposto a indossarla, che significava metterci dentro parte del di lei tempo». Fece una pausa, poi chiese: «Avete capito? No, non avete capito. Inventai un modo per prelevare il tempo da una persona e travasarlo nella grande clessidra. Insomma, chi indossava la collana poteva cedere parte dei suoi anni di vita all’Oniromante!»
«Invero credevo che avrebbe costretto il suo giovane apprendista a regalargli un po’ di quel tempo ch’egli aveva in abbondanza. Ma non fu così! Mi disse invece di fabbricare altre clessidre piccole, poi pretese da me oro e denaro e con quelle ricchezze andò in giro per i villaggi più meschini e malagiati, in cerca di poveri diavoli affamati. Proponeva loro qualche moneta in cambio di tempo. E come accettavano di buon grado, quei disgraziati! Vendevano il tempo delle loro miserrime esistenze! Fu così che, nel giro di un paio d’anni, quello spregevole furfante accumulò secoli di vita! È questo che fa ormai da tanti lustri. Anche se non si preoccupa più di fare il mercanteggio di persona, manda il suo apprendista».
I bambini si guardarono fra loro.
«Avete capito?», chiese Gianni agli amici. «Ecco da ‘ndove vengono i soldi dei nostri genitori! Er Nasone ‘Ncappucciato je compra anni de vita! E poi li dà all’Onimante!»
«Oniromante», precisò il folletto.
«Così pare», disse Nannina.
«Così è», chiosò l’omino.
«E che succede a quelli che vendono il tempo? Je s’accorcia la vita?»
«Il tempo andato è perso per sempre, questa è una legge immutabile».
«Insomma morono prima?!», chiese Renzo.
«È ovvio!»
«E sei stato te a inventà st’imbroglio?», ringhiò Ettore.
A quel punto il folletto ebbe una reazione inaspettata: si mise le mani sulla faccia e scoppiò in un pianto disperato. Piangeva tanto che in breve i polsini e il panciotto furono zuppi di lacrime:
«Ahimè, cosa potevo fare? Ero costretto da un maleficio!», si lamentava smoccolando: «Ah, se avessi indietro la mia piena libertà! Ah, se potessi sciogliermi dal tirannico giogo! Di certo la prima cosa che farei sarebbe distruggere il distruttibile, guastare il guastabile, ripristinare l’ordine sconvolto! Ma cosa posso fare da questa mia condizione di schiavitù?»
«Se eri libero potevi fermà sta stregoneria?», chiese Nannina.
«Ma è chiaro!», rispose lui con un sorriso smagliante e d’improvviso sulla sua faccia e sui vestiti non c’era più traccia di pianto.
«E che dovemo fà pe liberatte?»
L’unicorno, rimasto tutto il tempo accovacciato a terra, alzò il muso, puntò uno dei suoi occhi su Nannina e nitrì. La dentatura del folletto mandò un lampo:
«E veniamo al giuramento che hai fatto poc’anzi…».
Il Castello
Era un edificio malmesso, con pezzi di muro a pietra viva crollati e il tetto fatiscente. Non era quello che si aspettavano.
«È tutto scassato!», disse Marietta.
Il portone, di legno crepato e corroso dal tempo, mezzo aperto, era precariamente incastrato in un arco a sesto acuto; sopra, si aprivano delle finestre a bifora coi vetri rotti, su due piani.
«Me sa che non c’è nessuno, qua…», commentò Renzo.
Avevano camminato per una mezz’ora scarsa, per arrivare al maniero, come lo chiamava il folletto, convinti che avrebbero trovato un meraviglioso castello dalle guglie dorate, i cancelli d’argento e chissà quali altre meraviglie. Il folletto aveva raccontato di averlo costruito per l’Oniromante e che era l’edificio più bello che si fosse mai visto. Ma i ragazzi si trovarono davanti a un precario ammasso di pietre impolverate.
«A me non me pare bello pe niente», commentò Renzo.
«Forse na volta lo era», rispose Marietta.
«Pare che cianno fatto na guerra, qua dentro…», aggiunse Giovanni.
«Qualcosa de brutto è successo de sicuro!», fece Ettore.
«Comunque mica ho capito perché non ce viene lui», disse Giovanni.
«Perché j’ha fatto una magia!», rispose Renzo, che poi si voltò verso Nannina: «O no?»
«L’Ogni Mante j’ha vietato di entrarci e perciò non ce pò venì», confermò lei. «Per questo cià mandato a noi».
«Vabbè, entramo?», chiese Ettore.
«Entramo», rispose Nannina e poi spinse il battente del portone, che si aprì con tali schiocchi e scricchiolii da far temere che schiantasse a terra.
Trovarono un ambiente meno buio di quello che immaginavano, perché il soffitto era quasi completamente crollato e la luce del tramonto entrava dalle bifore al piano di sopra, rivolte a ovest.
Procedettero guardinghi. Erano al centro di un salone vuoto, tutto calcinacci e polvere. Non c’erano porte che conducessero ad altri ambienti, solo due scalinate che si alzavano ai lati della sala, ma che non portavano da nessuna parte perché il piano di sopra era collassato.
Al centro del pavimento sorgeva una clessidra alta più di un uomo. Si avvicinarono strabuzzando gli occhi per la meraviglia. I bulbi di vetro erano sorretti da una struttura di legno e all’interno c’era qualcosa di nero. I bambini incollarono i nasi al vetro, per guardare dentro, ma non videro altro che una massa densa che sgocciolava lentissima.
«È la clessidra che dice il folletto?», chiese Marietta.
«Sicuro», rispose Renzo.
«E se provamo a rompela?», disse Ettore. A quella proposta i ragazzi si guardarono. «Se questo è tutto il tempo che je rimane da vive a quello stregone, io dico: sfasciamo tutto, così de tempo non je ne resta più!»
«Tu dici che more, se rompemo sta clessidra?», chiese Renzo.
«Buttamola giu!», incitò Gianni.
«Non lo so», intervenne Nannina: «E se invece famo un guaio? E poi abbiamo giurato al folletto de fà quello che ha detto lui. Io non lo so mica che pò succede, se non manteniamo il giuramento».
L’obiezione di Nannina li convinse all’istante e tutti insieme staccarono i nasi dal vetro, come se avessero percepito un improvviso pericolo.
«Allora damose da fà», disse Ettore.
Cominciarono a guardarsi intorno, convinti di dover rovistare in chissà quali anfratti o ripostigli segreti. E invece quello che cercavano era proprio lì vicino a loro, a terra, in mezzo alla polvere. Fu Marietta a vederlo per prima:
«Ha detto che è come un forzierino? Com’è fatto un forzierino? Così?», chiese indicando un cofanetto di legno cinto da fasce di metallo, che giaceva a terra apparentemente abbandonato.
«Me sa che l’hai trovato!», le rispose Nannina, che si chinò a esaminarlo: non aveva alcun lucchetto.
«Aprilo!» la incitò il fratello.
Nannina allungò una mano e alzò il coperchio:
«Che schifo!», disse. E gli altri si avvicinarono per guardare, dato che nella penombra non distinguevano niente. Fecero un capannello intorno al piccolo forziere, con le teste tutte sporte sopra il coperchio alzato, e videro che conteneva un pezzo di carne sanguinolenta: il cuore del folletto.
Il desiderio
Lui stava in piedi e passeggiava nervoso avanti e indietro sul prato iridescente, con l’unicorno fermo sulle quattro zampe che guardava i bambini arrivare dalla collina.
«L’avete trovato?» strillò con una vocetta nervosa quando li vide. Gli occhi lampeggiavano, batteva le mani e saltellava. Quando Nannina fu abbastanza vicina da porgergli il bauletto aperto, fu colto da una tale eccitazione che si mise a fare capriole a salti mortali, a ridere e a ululare. Quando infine si fermò, divenne serio tutto all’improvviso, infilò la mano nel forzierino e tirò fuori il proprio cuore gocciolante. Lo guardò per un attimo e poi fece un gesto disinvolto, rapido e, come se fosse la cosa più normale del mondo, lo fece sparire. Assunse l’aria solenne di chi sta per annunciare un evento di grande rilevanza, si mise la mano imbrattata di sangue sul petto e declamò:
«Miei piccoli eroi, avete reso un grande servigio alla mia persona e raddrizzato un vecchio torto! Ciò che è promesso è un debito che va pagato, dunque chiedete e vi sarà dato. Siete nel luogo dove ogni desiderio trova realizzazione». Poi li guardò a uno a uno:
«Orsù, chiedete!»
«Ma già lo sai che volemo!», disse Nannina.
«Le cose vanno fatte per bene, ragazzina», rispose a mezza bocca, poi ripeté in tono solenne: «Orsù, chiedete e vi sarà concesso!».
«Volemo che finisce sta magia delle clessidre che te sei inventato», disse Nannina.
Il folletto assunse un’improvvisa espressione dubbiosa e la fissò negli occhi:
«Beh, però c’è un intoppo!»
I bambini lo guardarono e si guardarono fra loro.
«Che vole dì?», chiese Nannina.
«Che c’è un problema che impedisce di procedere».
«Ma che problema?», protestò Ettore.
«Hai promesso!», rincarò Marietta.
«Certo che ho promesso, rondinella. Ma, vedete, avete affrontato un viaggio e un’avvenntura in sei. È un bene, se non foste stati sei, come i colori dell’arcobaleno, non sareste riusciti a giungere qui. Dunque in sei meritate che io esaudisca il vostro desiderio. Ma come posso, se ora non siete in sei a desiderare la medesima cosa?»
«Ma che stai a dì?», ringhiò Renzo, mentre Ettore e Giovanni mostravano istintivamente le zanne da lupo.
Il folletto, impassibile, si rivolse a Nannina:
«Mia giovane aspirante maga, dovresti prestare maggiore attenzione a certi dettagli!»
Ma Nannina a quel punto s’era già voltata a guardarsi alle spalle. Non lo aveva più fatto. Da quando avevano attraversato insieme la porta magica, non aveva più prestato alcuna attenzione a Lelletta e solo ora si accorse che aveva le sembianze di una strega orribile e malvagia.
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Ma finisce con la fine della sesta puntata?
Ciao Marco,
assolutamente no, ce ne vorranno almeno otto.
La prossima dovrebbe uscire per la fine di ottobre.
Ah fantastico,
Non vedo l’ora di leggere gli ultimi due capitoli allora!!!
Grazie