La storia che ci accingiamo a raccontare si svolse molto tempo fa, quando non esistevano treni e automobili e il mondo era più misterioso. Cominciò nei pressi di una valle verdissima, sulla quale si affacciavano gli ultimi alberi del bosco oggi conosciuto col nome di Foresta d’Oro.
Inizieremo dal giorno in cui, per la prima volta, fece la sua apparizione in quel luogo una stregoneria infingarda e crudele, come non se ne erano mai conosciute prima.
Era una mattina di ottobre spazzata da un vento freddo e grosse nuvole attraversavano il cielo.
La valle si trovava rinchiusa in un anello di montagne pietrose, un piccolo altopiano rivestito da un rigoglioso manto d’erba e circondato in gran parte da grigia roccia. Facevano eccezione i monti del lato occidentale, da dove il bosco di faggi scendeva dolcemente fin dove iniziava la valle.
A quel tempo il paese non era diverso da come lo si vede adesso: un villaggio di case di pietra, dello stesso colore delle rocce a cui s’aggrappava. Sorgeva su un contrafforte delle montagne del lato settentrionale, proprio sotto il Monte Muto.
Il pratone che si stendeva sulla valle iniziava già dalla porta del villaggio e scendeva fino alla piana, dove fiorivano la margherita, il papavero, l’achillea e il dente di leone, e in primavera anche fiori selvatici di cicerchia, zafferano e orchidea. E nello spiazzo davanti alla porta era facile trovare un gruppo di bambini che schiamazzava.
Quel giorno ce n’era una mezza dozzina.
A noi interessa in particolare una bambina che aveva undici anni, una lunga matassa di capelli marroni, un vecchio vestitino a quadretti, che copriva le ginocchia sempre sbucciate, e il visetto imbronciato. Si chiamava Anna, ma tutti la chiamavano Nannina, e se ne stava dritta accanto a una coetanea che raccoglieva i pochi fiori avanzati dall’estate, facendone un mazzo.
Brontolava:
«Se ce mettemo tutti a strappà fiori dal prato, che ce rimane?»
L’altra, che stava accovacciata a spezzare il gambo di un dente di leone, s’alzò, fece spallucce e se ne andò correndo col suo mazzetto. Aveva boccoli fluenti castano chiaro, un largo nastro rosa sulla testa e un vestito nuovo. Si chiamava Mariella e più di tutto odiava essere chiamata Lella o peggio Lelletta, cosa che quindi gli altri bambini facevano con un certo gusto.
In quel momento, sotto l’arco della porta comparve la mamma di Nannina, che lanciò un urlo per richiamare i bambini: era ora di rientrare, bisognava dare una mano in casa per il pranzo. Aveva un braccio infilato nel manico di un cestino e l’aria di chi non ha troppa pazienza di aspettare che i piccoli finiscano i loro giochi. Nannina stava ancora seguendo con gli occhi Lelletta che scappava coi fiori, finché non fu attratta da qualcos’altro, uno scintillio. Allora il suo sguardo oltrepassò Lelletta e si posò più giù, su una figura scura che arrancava lungo la mulattiera verso il paese, dandole le spalle, circondata da un rumore di sbattimenti metallici.
Nannina ignorò la mamma, spiccò una corsa e in un attimo raggiunse la figura scura, che era avvolta in un nero vestito liso e impolverato e teneva lo sguardo a terra. Non era comunque difficile indovinare chi fosse, chiunque in paese poteva riconoscere da lontano la Vecchia Pazza delle Pentole.
La bambina le girò intorno, provando a incrociare il suo sguardo, ma la vecchia sembrava non essersi neanche accorta della sua presenza; borbottava tra sé e sé come faceva sempre, con la sua collezione di padelle, brasiere e casseruole a doppio e a singolo manico legate fra loro e appese a tracolla. Una grossa casseruola, di rame battuto come tutte le altre, la portava in testa come un elmetto.
«Ciao», disse Nannina.
«Che vòi?», disse la vecchia senza guardarla. «Che m’hai portato un po’ de pane?»
«Oggi no», rispose Nannina. «Che fai?».
«Li fatti miei», rispose la vecchia, poi aggiunse: «Il pane de ieri era duro».
«Tanto poi l’ammolli tutto nella zuppa! E poi se te porto er pane fresco mamma s’arrabbia. Non lo vòi più?».
«Va bene er pane vecchio», sentenziò l’anziana e poi riprese a borbottare le sue formule misteriose.
«Allora settimana prossima, quando mamma fa er pane novo, te porto un pezzo de quello vecchio, se c’è avanzato», disse Nannina. Ma la vecchia s’era già rincamminata e sembrava non prestarle più attenzione.
Aveva già fatto una decina di passi, quando all’improvviso s’arrestò, si voltò e prese a fissare la bambina con occhi spiritati. Solo dopo un lungo istante parlò:
«Devi stare attenta! Sta venendo a prendersi tutti, anche i tuoi genitori!». Rimase di nuovo zitta con gli occhi sgranati per alcuni attimi, poi si voltò come nulla fosse e riprese a camminare.
«Chi?», chiese Nannina. «Chi è che sta a venì?»
«L’Oniromante», borbottò stanca la vecchia, senza voltarsi, circondata dalle pentole che scampanavano al ritmo dei passi traballanti.
Strani incontri
La zuppa di cavolo ormai era fredda e Nannina sbocconcellava svogliata dalla cucchiarella di legno, il gomito sul tavolo e la guancia nella mano.
«Sta dritta!», disse la mamma, e lei trascinò via il gomito drizzando il collo con un sbuffo. Suo fratello Ettore saltò giù dalla sedia gridando:
«Ho finito!».
Aveva due anni meno di Nannina e l’abitudine di divorare qualsiasi cosa gli mettessero sotto il naso, nonostante fosse secco come un manico di scopa.
«Seduto», gli intimò il padre senza voltarsi. «Aspetta tua sorella». Il freddo cominciava ad allungare le sue dita rinsecchite dentro le case e l’uomo stava tentando di riaccendere il camino che s’era spento, ma la legna bruciava male e faceva fumo. Intanto che soffiava dentro un tubo arrugginito per attizzare il fuocherello incerto, parlava alla moglie:
«M’ha fatto credito pure oggi, ma dice che dovemo saldà, se no la prossima volta non me la dà la farina per il pane, che fa credito a tutti e nessuno paga mai».
La stanza dava direttamente sulla porta di uscita, che stava sulla parete opposta a quella del camino. Sugli altri muri stavano appese pentole e attrezzi vari, c’era una credenza, una finestra e, di fronte a questa, un arco che dava sul secondo ambiente, più piccolo, la stanza da notte.
«Vabbè, io vado a giocà!», esclamò Ettorino lasciando cadere la cucchiarola nella scodella e saltando contemporaneamente giù dalla sedia. Suo padre non fece in tempo a fermarlo, stavolta, quando si voltò il bambino era già fuori dall’uscio. Ormai Ettore era cresciuto abbastanza da saper saltare con due balzi i cinque gradini che dalla soglia di casa scendevano al vicolo. Si lasciò dietro una casa fredda e silenziosa, con la sorella che rigirava la cucchiarella nel piatto e i genitori alle prese coi pensieri, ognuno i suoi.
Ettorino corse per la lunga curva stretta tra le case e in un attimo giunse agli scalini che salivano al sagrato della chiesa, dove stava seduto Renzo, di un anno più piccolo ma alto quanto lui.
Ettore sfilò la mazzafionda dalla tasca posteriore dei pantaloni facendo l’occhiolino. Renzo sgranò gli occhi, si portò le mani alla testa e la sua bocca si aprì in una grande O.
«Te la sei scordata?», chiese Ettore deluso.
«Accompagname a casa, famo subito!», replicò Renzo.
Ettorino rinfilò la mazzafionda dietro i pantaloni e gli corse dietro.
La porta di casa era accostata. Renzo la spinse e fece cenno a Ettore di entrare.
«Mamma sta a casa de nonna, a quest’ora, e papà dice che oggi incomincia un lavoro novo, perciò a casa non c’è nessuno».
Era freddo e semibuio. Ettorino seguì Renzo, che attraversò la piccola casa diretto alla stanza da notte.
Al centro di questa stava il letto grande e di lato, in un’alcova nel muro, c’era un giaciglio più piccolo, quello dove dormiva Renzo. I due bambini tirarono dritti in quella direzione, ma mentre Renzo infilava la mano sotto il cuscino per recuperare la fionda, Ettore si voltò a dare un’occhiata intorno e si congelò per la paura.
Sulla parete opposta era accostata una vecchia panca. E sulla panca c’era seduto il papà di Renzo. Stava immobile, con le mani sulle ginocchia, la bocca mezza aperta e gli occhi bianchi, rovesciati all’indietro.
Ettore tirò la manica dell’amico per farlo voltare. Entrambi fissarono l’uomo per diversi secondi, poi Renzo trovò il coraggio di chiamarlo:
«Papà…?»
Ma quello non rispose. Era come addormentato, solo che il corpo stava tutto rigido e gli occhi aperti e bianchi lo facevano somigliare a uno spettro fermo in attesa.
Segreti
Intanto, Nannina aveva finito la zuppa di malavoglia. Si strofinava nervosamente le mani sulla gonna e si mordicchiava il labbro inferiore. Prese un cestino dove stavano ammucchiati alcuni calzini da rammendare, ma sua madre l’anticipò:
«Non c’è filo. Quanno ciavemo er filo li rattoppamo. Va’ a cercà tuo fratello, vattene a giocà».
Ma Nannina doveva cavarsi fuori un peso. E piuttosto che andarsene tenendoselo sullo stomaco, parlò. Sapeva che sua madre l’avrebbe rimproverata, ma le sembrava una faccenda troppo importante:
«Ho visto la Vecchia delle Pentole!»
Si voltò pure il padre, sempre accovacciato davanti al focolare. La madre sgranò gli occhi:
«Quante volte te devo dì de non parlà co quella vecchia matta?».
«Sì ma m’ha detto na cosa!», si sbrigò a precisare Nannina, e raccontò della spaventosa profezia pronunciata dalla vecchia:
«Ha detto che n’omo cattivo ve se porta via! Dice che se chiama Ogni Mante!».
I genitori si scambiarono uno sguardo veloce, poi la madre ripeté la stessa formula che pronunciava sempre quando sentiva parlare della Vecchia delle Pentole:
«Non ce devi parlà, è matta!». Però aveva un tono incerto, come se le parole della figlia l’avessero messa a disagio.
«Ma che è un Ogni Mante?»
«È matta! Se te scopro che ce parli ancora te metto in castigo! E basta!»
Allora Nannina posò il cestino dei calzini bucati che ancora teneva in mano e se ne andò anche lei, lasciando i genitori soli nella casa fredda.
Andò a cercare i suoi amici. Suo fratello era di sicuro con Renzo a tirare con la mazzafionda, pensò. In piazza trovò Marietta, seduta da sola su un gradino della chiesa. Appena la vide, la piccola saltò su e le corse incontro. A terra c’era ancora il disegno della campana che avevano fatto alcuni giorni prima. I segni resistevano, senza la pioggia a cancellarli.
«Giochiamo?», disse Marietta porgendole un sassolino e indicando la campana. Aveva otto anni ed era tutta contenta, per lei Nannina era la bambina più bella e più forte del mondo.
Nannina prese il sasso e si guardò intorno pensierosa. Sembrava tutto immobile, ad agitarsi e fare rumore c’era solo il vento.
Ogni Mante
La mattina dopo, grosse nuvole continuavano a trascinarsi per il cielo e sembravano proprio non volersi fermare mai. Non pioveva da settimane. Nell’erba fuori della porta del paese, i bambini non giocavano come facevano di solito, se ne stavano riuniti in un capannello e parlavano fitto. C’erano Nannina e Ettore, Renzo, Marietta col fratello Gianni e Lelletta.
«…E Nonna s’è arabbiata», diceva Renzo: «Me fa dice: non te impicciare de ste cose da grandi, papà sta bene, vattene a giocà. Ma io dico, come sta bene? A me non me pare mica normale!»
Ettorino annuiva, perché lui c’era e confermava tutto. Dopo essere fuggiti, erano andati a cercare la madre di Renzo, ma avevano trovato solo la nonna e quella aveva reagito in modo così nervoso da insospettirli.
Il fatto più strano, però, era accaduto la sera: rientrando a casa, poco prima dell’ora di cena, Renzo raccontò di aver trovato suo padre nuovamente in sé, raggiante come non lo vedeva da settimane, che versava due generosi bicchieri di vino rosso per sé e la moglie. Non aveva mai visto i genitori bere vino che non fosse allungato con l’acqua.
«Viè qua», gli aveva detto il padre accogliendolo in un abbraccio: «Domenica annamo tutti al mercato! Comperiamo un par de scarpe nuove a sto bimbo! E pure un giocattolo, se lo trovamo!»
Lelletta stava con le braccia conserte e la bocca storta:
«A me non me quadra pe niente… Cioè, tu padre è rimasto tutto il giorno seduto su una panca e quando s’è svegliato brindava col vino bono e diceva del mercato? Ma se dici sempre che a casa tua non ciavete un soldo bucato!».
«È per questo che lo racconta», intervenne Nannina, «Perché è un fatto strano!».
«Embé? Po’ pure esse una bucìa! Non è che siccome è strano dev’esse vero!».
«Ma c’era pure mi fratello, c’ha visto tutto», rimbeccò Nannina.
«E mica ha visto i soldi, però», insistette Lelletta. «Quando vedo Renzo co le scarpe nove, allora ce credo!»
Ma Nannina non la stava più ad ascoltare. Con la coda dell’occhio aveva visto una figura che arrancava in lontananza, la Vecchia delle Pentole che se ne andava lungo la mulattiera.
Senza dire niente lasciò gli amici per raggiungerla.
«Mamma s’arrabbia!», gli gridò dietro Ettore.
«Ma ‘ndove va?», chiese Renzo.
«Quella è la Vecchia Pazza delle Pentole!», disse Gianni. «È pericolosa, papà dice che se magna i bambini!»
«Non ce andà!» le gridò dietro il fratello, ma Nannina non badava e nessuno.
Teneva in mano un pentolino di metallo, la Vecchia. Si fermò e si voltò, fissando gli occhi su Nannina che arrivava di corsa:
«Hai portato un po’ de pane?», chiese facendo piccoli cerchi col pentolino, come per mescolare qualche brodaglia che c’era dentro.
«No, nun ce l’ho oggi er pane. Voglio sapé se è arivato!»
«Ma chi?», rispose la vecchia guardando dentro al pentolino.
«La persona cattiva che hai detto ieri, L’Ogni Mante!»
«Ho detto Oniromante. Sì ch’è arivato. Te l’ho detto che te se pija mamma e papà».
«Ma che vuol dire? Che je fa? Indove li porta?»
«Mó come fa nullo so, però il corpo lo lascia qua, lui vole quello che cianno nella testa».
Quest’ultima informazione lasciò Nannina interdetta.
«Ma ‘ndove sta, sto Ogni Mante?»
«Oniromante. E che ne so ‘ndove sta? Chiedilo a quello, ch’è amico suo!», disse la vecchia alzando il pentolino in direzione di un uomo, lontano, che se ne andava sul sentiero in groppa a un mulo, un ometto gobbo con un mantello e un cappuccio scuro calato sulla testa. Si voltò all’improvviso, l’uomo incappucciato, lanciando uno sguardo furtivo e cattivo verso Nannina e la Vecchia.
Ma la Vecchia s’era già girata e se ne andava per la sua strada, facendo piccoli cerchi col pentolino di metallo.
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Gianni says
Bello, però questa somministrazione a puntate è sconfortante., perché uno resta in sospeso. Vabbene aspettiamo la prossima ma non ci fare aspettare troppo. BRAVOOOOO
Luca Ricatti says
Grazie!
Ma il bello della narrativa a puntate è proprio il fatto di restare in sospeso!
Anonimo says
bello
Luca Ricatti says
Grazie!