Venerdì e sabato li passo al lavoro, non ho il tempo di fare prove. In più giovedì, sempre al lavoro, mi sono spezzato l’unghia del dito medio. Per un chitarrista fingerstyle, rompersi un’unghia è come avere un dito in meno. Quando mi succede, in genere me ne frego, aspetto che ricresca e intanto mi esercito a suonare coi polpastrelli nudi, che fare esperienze diverse fa sempre bene. Ma due giorni prima di un concerto è una catastrofe. Ho letto in giro che certi chitarristi usano una tecnica di rincollaggio con l’Attak, ma io non ho tempo di provare cose strane, così tento un’altra strada: sotto casa mia c’è una di queste botteghe di nail art, sapete quei posti dove vanno certe donne a farsi fare le unghie coi disegnini? No, non ridete, c’è poco da fare gli spiritosi.
Giovedì, rientrando a casa dal lavoro, decido di passarci. Immaginatevi le facce: insomma non è un posto dove entrano tutti i giorni uomini barbuti. Spiego la situazione. Tra i ridacchamenti delle altre donne presenti, la tipa prende un attrezzo per tagliare e una lima lunga come una raspa da falegname, mi prende la mano e in meno di due secondi taglia e lima tutto. Non ho il tempo di dire: aspett… Dice che ormai l’unghia era andata, non si poteva fare altro. Le spiego che così mi è del tutto impossibile suonare alcunché e lei mi propone una ricostruzione col gel. Dico ok, proviamo qualsiasi cosa. Mi dà appuntamento di lì a due ore.
Torno a casa, mangio un boccone, vado a prendere mia figlia a scuola e poi torno al nail art. Sto lì seduto con questa ragazza che mi impiastriccia l’unghia e mia figlia di due anni e mezzo in piedi accanto a me che mi dice:
«Che fai Papà?»
Eh, che faccio.
Ad ogni modo, torno a casa e provo. L’unghia fatta col gel è solidissima e durissima. il problema è che è troppo spessa e fa un suono tutto attutito. La limo un po’ e boh, non ci crederete ma vi dico: se pò fà. Insomma funziona. Ho detto non ridete.
Ma gli imprevisti non si fermano qui.
Venerdì mi accorgo che sul sito dell’Arciarcobaleno non è pubblicizzato l’evento. Anzi, c’è il programma della settimana precedente. Ma sto al lavoro tutto il giorno, non ho tempo o modo di contattarli. Gli scrivo un messaggio la sera, appena arrivo a casa. Esce fuori che c’è stato un problema tecnico ed erano convinti che la pagina fosse aggiornata.
Arriva sabato. Torno a casa dal lavoro alle quattro, decisamente stanco. Cerco di riposare un pochino, mi preparo e vado. È una sera di vento freddo e forte. Che per presentare un disco che si intitola Fumo al vento ci sta.
L’atmosfera familiare dell’Arciarcobaleno mi mette subito a mio agio. Mario e sua figlia Mariangela sono persone squisite. Faccio il suondcheck, mangio un’insalatona con un bel bicchiere di vino e chiacchiero con Mario.
Vuoi il problema col sito, vuoi che è una notte di vento gelido, c’è poca gente. Ma va bene. Insomma, non è che noi solisti canzonettari siamo tipi che riempiono i locali. Però oh, l’atmosfera mi piace, il palco è bello e l’impianto audio va benissimo. Prima di me, Mario fa un intervento per ricordare l’inzio di quella che chiama la Terza guerra mondiale, ovvero l’inizio della Prima guerra del Golfo e tutto il macello in Medio Oriente che dura in effetti da venti anni e che arricchisce l’Occidente in termini di vendite di armi. Riesce a far ridere tutti ricordandoci cose tragiche, come che l’Italia è il primo paese al mondo a produrre mine antiuomo e uno dei primi impegnati a sminare i territori di guerra: cioè, con questo schifo ci guadagniamo due volte.
Poi tocca a me. Certo, non provo i pezzi da due giorni e inevitabilmente mi impiccio due o tre volte. Reggere quasi un’ora e mezza di spettacolo è una cosa che meriterebbe ore e ore di prove quotidiane, ma così va la vita. E poi ho l’impressione che la gente si sia divertita.
È stata una bella serata e all’Arciarcobaleno spero di tornarci. Magari con tutte le unghie vere. E un po’ meno stressato.
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