Ieri sera ho suonato all’Enoteca Letteraria, serata organizzata dall’IPLAC e dedicata al binomio Musica e Poesia. Ci siamo esibiti in quattro musicisti e circa una dozzina di poeti; a suonare con me c’erano il cantautore Luigi Farinaccio, la pianista Nadia Perella e il giovane pianista e compositore Valerio Angelucci. C’era la sala piena, come in tutti gli eventi organizzati dall’IPLAC e diretti dalla vulcanica Maria Rizzi. È stata come sempre una bella serata, culminata con la cena e l’ottimo vino di Tonino Puccica.
Dopo le esibizioni, durante l’aperitivo prima e intorno al tavolo poi, si è parlato di musica e delle nostre esibizioni. Ed è spuntata la frase che mi sento dire quasi ogni volta che mi esibisco: «Mi ricordi De André».
Di solito mi viene detto senza malizia e incasso il paragone come lusinghiero.
Allora, visto che proprio oggi cade l’anniversario della morte del Faber, mi va di fare qualche precisazione.
Fabrizio De André è stato il più grande esponente della canzone italiana. Ha portato il genere a un livello differente, ha influenzato e continua a influenzare il modo di pensare di milioni di italiani, ha saputo circondarsi di collaboratori geniali, facendo in modo che creassero per lui e insieme a lui capolavori ineguagliabili, che da soli non avrebbero mai potuto. È stato al tempo stesso l’incarnazione dell’artista maledetto eppure un lavoratore meticoloso, scrupoloso, attento a ogni più piccolo dettaglio.
C’è, è vero, una cosa che ho imparato da Faber: che scrivere una bella canzone non è uno scherzo. Nelle sue canzoni non c’è mai una parola fuori posto, mai un verso che dici vabbè, questo l’ha buttato lì. E in giro ci sono un sacco di canzoni che le senti e dici vabbè, questo verso l’ha buttato lì. C’è gente che va in heavy rotation in tutte le radio nazionali con canzoni che dici vabbè, questa l’ha buttata lì tutta, dall’inizio alla fine.
De André mi ha fatto diventare paranoico. Ci sono canzoni che per finirle ci ho messo anni. C’è sempre una parolina, una rima del cazzo che non mi va giù. E la cosa sta peggiorando. Ogni volta che rileggo quello che sto scrivendo, penso: non mi posso accontentare, Fabrizio De André non si sarebbe accontentato.
Chiaro che l’ho ascoltato tanto e questo avrà pure lasciato un segno. Però la cosa si ferma qui: non ho mai pensato “voglio scrivere come De André”.
Certe somiglianze stilistiche mi sono piuttosto capitate. Il mio universo musicale gira tutto intorno al folk: o suono pezzi ripresi dalla tradizione o scrivo pezzi miei prendendo ritmi e armonie tradizionali. Soprattutto i ritmi: tammurriate, valzer, saltarelli, gighe. De André ha spesso attinto da quello stesso universo folk, rarissimo caso tra i musicisti mainstream. Per lui però era più un passaggio, diciamo; io invece mi ci sono fatto casa.
Intendiamoci: non ci trovo niente di male a dire di ispirasi a qualcuno. Ammiro alcuni artisti che dichiarano di ispirarsi a Faber. Ma il fatto è che io sto proprio fuori da tutto quel mondo culturale che sta dietro e intorno al grande genovese.
Con la canzone d’autore francese e americana ho poco o niente a che spartire. Sono nato nel ’77, l’anno del punk, sono cresciuto da rockettaro pesante e da ragazzino volevo scrivere come Kurt Cobain o Page Hamilton degli Helmet. Oggi poi compro e ascolto quasi solo dischi di chitarristi fingerstyle e, se proprio devo citare dei songwriter che mi hanno colpito e influenzato, sono tutti inglesi: Nick Drake, Vashti Bunyan, Wizz Jones (nel senso che cerco di riportare quel modo di fare canzone, quel modo di ispirarsi al folk, adattandolo alla lingua e alle sonorità della mia terra; ma di questo parlerò un’altra volta).
Però De André mi piace e resto convinto che sia stato il più gande tra gli italiani e uno dei più grandi nel mondo.
E allora concludo dicendo questo.
Oggi si sentono politici e leccaculo di ogni provenienza tessere le lodi di Faber. Beh, io sono convinto che tutta la classe dirigente che oggi lo celebra come un grande intellettuale contro, è lo stesso tipo di gente, la fotocopia di quella classe dirigente che decenni prima lo costrinse a trasformare i versi di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers che dicevano:
«frustando il cavallo come un mulo
quel gran faccia da culo
del Re si dileguò».
O quelli di Bocca di rosa che dicevano:
«Spesso gli sbirri e i carabinieri al loro dovere vengono meno
ma non quando sono in alta uniforme e l’accompagnarono fino al treno».
Che poi è quella classe dirigente che gli aveva messo il telefono sotto controllo perché anarchico dichiarato.
Beh, a questa gente Fabrizio cantava:
«Se fossi stato al vostro posto
ma al vostro posto non ci so stare»,
e intendeva proprio dire che le persone come lui nei posti del potere non ci vogliono stare, perché quello è proprio un brutto posto. È il posto degli stronzi.
Anche per questi motivi, quando mi dicono: «Mi ricordi De André», lo trovo comunque un complimento grandissimo.
Lascia un commento