Paolo Coppini irrompe nella sala all’improvviso. Gli avventori del locale restano col bicchiere a mezz’aria, tutti con la bocca spalancata. Non capiscono se è una specie di scherzo o se si tratta di un matto pericoloso.
«Bonasera, sò Coppini!», grida con tono irruento.
«E me presento perché non me conosce veramente nessuno… Eppure sò trent’anni che canto ste canzoncine…
“E se vede che te sei promosso male – me fa uno l’altra sera – Le canzoni sò carine, demenziali… “.
Ma come demenziali – j’ho risposto – che cominciamo subito co l’etichette?! Guarda che l’òmini passano, ma l’etichette restano… »
A questo punto si dà una mano sulla faccia e bofonchia:
«… Ma no, volevo dì esattamente er contrario… ».
Nessuno capisce la battuta, nessuno capisce che sta recitando un copione.
Nessuno ride, stanno ancora tutti col bicchiere sospeso.
Partiamo con le canzoni e Paolo sfodera la sua voce sempre al limite della stonatura.
Il pubblico si ammorbidisce, ma solo un pochino. Qualcuno ride, qualcuno riprende a chiacchierare. Il tipo del tavolo a sinistra del palcoscenico sghignazzerà per tutto lo spettacolo. Riderà di Paolo Coppini, non delle sue battute.
Nessuno dei presenti immagina da dove venga quel modo di irrompere nella scena, quel modo di cantare e di mescolare teatro e canzoni. È un pubblico casuale, abituato alle canzoncine pop delle autoradio e dei centri commerciali.
Sono quasi tutti giovani, la maggior parte di loro non ha mai sentito neanche nominare Gaber e Jannacci. Nessuno di loro è mai stato a teatro in tutta la vita.
Nessuno immagina che molti anni addietro i giornali, quelli veri, i grandi quotidiani a tiratura nazionale scrivevano di Paolo Coppini descrivendolo come una versione più stralunata di Paolo Conte. Lo definivano bislacco, spudoratamente stonato e felice di esserlo, naturalmente esilarante.
Stefano è mio cugino, è un film maker e si è messo in testa di seguire Coppini per riprenderlo durante gli spettacoli e durante le sue giornate lavorative. Così quella sera è venuto con noi e ha piazzato un paio di videocamere ai lati del palco.
Qualche tempo dopo pubblicherà un documentario dal titolo Romanina Blues.
Romanina blues
La Romanina è una delle tante periferie della capitale nate per pura speculazione edilizia. Chilometri di caseggiati sorti intorno a una vecchia borgata povera, con più centri commerciali che fermate di autobus.
Paolo Coppini raccontava di essere finito a vivere a La Romanina per un naturale processo di estromissione dai quartieri centrali, colonizzati dalla ricca borghesia.
Coppini raccontava sempre i dettagli della sua vita tra il serio e il faceto, era sempre difficile distinguere la verità dalla battuta detta per il puro gusto dell’autoironia.
Romanina blues racconta la marginalità di un talento creativo relegato alla periferia della Storia, dei grandi processi economici e sociali. Ha vinto dei premi.
La cosa più importante che ha fatto, probabilmente, è stato far nascere una grande amicizia tra Paolo e Stefano, ma ha anche il merito di aver trascinato Coppini fuori da quei localini pieni di avventori annoiati, distratti, malignamente sghignazzanti.
Al termine delle proiezioni in vari festival, quando era presente, Coppini veniva immancabbilmente fermato da qualche spettatore che gli chiedeva dove poterlo acoltare dal vivo o acquistare un suo CD. In più di una occasione seguirono richieste di esibizioni dal vivo, soprattutto presso i circoli politici della sinistra.
Grazie al documentario, Paolo venne anche invitato negli studi televisivi del canale Roma Uno.
Io e Stefano lo accompagnammo. Gli studi erano in una bella palazzina all’Eur. Trasmisero alcuni spezzoni del documentario, poi ci fu l’intervista in studio. Io lo accompagnai alla chitarra e Paolo cantò un paio delle sue canzoni.
La trasmissione era in diretta, non ne ho mai visto una registrazione. Sarebbe bello averne una copia, ma Roma Uno non esiste più da anni e chissà che fine ha fatto il suo archivio.
ROMANINA BLUES from Mauro Passaretti on Vimeo.
Lavorare
«St’idea che uno, pe vive, debba lavorà, m’ha sempre sconvolto»
Scroscio di risate.
«Non me ce sò mai adattato. Allora ho provato a vive facendo Coppini… E i risultati sò quelli che vedete… »
Ogni volta che diceva questa frase la risata era assicurata. Ma non era una battuta, chi conosceva Paolo Coppini lo sapeva bene.
Quando faceva questa non-battuta sul palcoscenico, la gente rideva, perché gli sembrava una bizzarria, lo scherzo di un pagliaccio.
«Io non lo volevo, io non ci credevo
però ci speravo di diventà
quel gran pagliaccio, dolce e beffardo
che fa sognare te.
La gente ride, certo si crede
che è tutto inventato per la platea
ma che amarezza e che tenerezza
per te che conosci me.
E passa il tempo, son più sereno
anche se nun sò Peter Pan
vivo leggero, volo davvero
nel mio mondo che non c’è.»
L’idea che il lavoro potesse essere un ingranaggio perverso e disumanizzante ha accompagnato Paolo Coppini per tutta la vita.
Raccontava che, all’indomani della laurea, il suo professore lo chiamò per dirgli che gli aveva trovato un impiego.
«Io me credevo che me volesse fà fà er sociologo… »
Invece gli aveva trovato un posto da impiegato, non ricordo bene dove.
Offeso a morte dal suo rifiuto, il Professore tolse il saluto a Paolo per sempre.
Erano gli anni in cui Villaggio portava al successo la maschera di Fantozzi, con la sua critica alla realtà del lavoro impiegatizio, una critica buffonesca e ferocissima.
Ma per Coppini certe idee venivano da molto più lontano, venivano dall’infanzia. Da un padre che, in totale controtendenza rispetto al suo tempo, si era sempre vantato di non aver mai fatto «un’ora di straordinario in tutta la vita».
Una volta, da bambino, mentre suo padre rientrava a casa dal lavoro, Paolo si nascose dietro la porta del salotto. Voleva fargli uno scherzo.
Il padre entrò sbattendo la roba infuriato e smoccolando contro il lavoro, la famiglia e i figli.
Paolo rimase pietrificato dietro la porta e ne uscì solo quando fu sicuro di essere rimasto solo.
Ho conosciuto suo padre e so che brutto caratteraccio aveva. Suo padre era mio nonno.
Non ho ancora detto che Paolo Coppini era il fratello di mia madre?
Nonostante questo, non ci siamo frequentati per molti anni, a causa di alcuni dissidi familiari. Ci siamo rincontrati quando ero adulto.
Per me Paolo Coppini non era uno zio, era un amico.
Uno dei più importanti che abbia mai avuto. I parenti ti capitano, ma gli amici te li scegli.
A cementare questa amicizia è stata la musica.
La musica
Dotato di un istintivo senso melodico, coltivato ascoltando dischi di blues rurale e jazz degli anni ’20, Paolo Coppini ignorava la teoria musicale e strimpellava la chitarra poco e male.
Per questo quasi tutte le sue canzoni sono strutturate sugli stessi giri armonici, cosa che peraltro lo avvicinava molto alla tradizione del blues arcaico.
Aveva uno stile inconfondibile, a metà strada tra la canzone francese, il country blues e lo stornello da osteria. Ma lo strumento che più lo caratterizzava era il kazoo, che spesso sostituiva con un pettine sul quale poggiava una cartina per sigarette. Aveva ripreso questo metodo da un musicista degli anni ’20 che si chiamava Red Mckenzie.
Trippo dazzi trippo dà
Trappo dippo dippo dà.
Altra caratteristica tipica di Coppini era il suo scat, una tecnica di improvvisazione canora che prevede l’uso di sillabe e fonemi senza senso. Si esercitava in melodie leggere e orecchiabili usando uno pseudo linguaggio che ricordava i balbettamenti infantili.
Utilizzava poi tutta una serie di strumenti tipici della più antica tradizione afroamiricana, come l’armonica a bocca e lo slide-wistle, o altri costruiti da lui, come il flaurinetto, un flauto dolce sul quale innestava il bocchino di un vecchio sassofono, che generava un suono simile a un clarinetto sfiatato.
Poi c’era quello che avevamo soprannominato bidone blues, una specie di rudimentale contrabbasso che aveva costruito con l’aiuto di un benzinaio. Aveva ripreso la struttura dalle tradizionali Jug band americane: la cassa armonica era un bidone di latta, il manico era quello di una scopa e l’unica corda era di gomma, una corda per i panni.
Naturalmente esilarante
L’aspetto dinoccolato, la rada capigliatura sempre scomposta e un sorriso aperto che nascondeva il suo lato più sensibile e malinconico. Paolo Coppini era così.
Il suo modo di raccontarsi, nella vita come sul palco, era non meno spettinato, buffo e un po’ confuso. La sua autoironia e il suo approccio informale al palcoscenico erano gli elementi cardine dei suoi spettacoli dal vivo.
Dal palco interpellava direttamente il pubblico, raccontava aneddoti che ispiravano le sue canzoni, passava da un argomento all’altro, stravolgeva la scaletta, dimenticava i versi delle sue canzoni, stonava spudoratamente, sfornava battute estemporanee sull’attualità o su se stesso.
Paolo Coppini era sempre in bilico tra il naturale talento da intrattenitore e una tragica comicità involontaria.
Il trionfo dei perdenti
«Canterò una canzone per chi vive alla giornata
per chi è in lotta con il mondo dal giorno che è nato
per chi ha le tasche vuote e sta bene steso al sole
mentre tutta l’altra gente è più contenta quando piove.»
Il tema predominante dell’opera di Paolo Coppini è l’idea che il sistema nel quale viviamo ci obbliga a sottomettere la sensibilità e gli affetti a favore dell’aggressività e dello spirito di competizione.
In questo sistema il lavoro è un meccanismo perverso e volto a sfruttare i più bassi istinti umani a vantaggio di un finto progresso sociale.
Quelli che non sanno o non vogliono adeguarsi, che preferiscono concentrarsi sugli affetti e sulla solidarietà umana, risultano sconfitti e condannati dal sistema di potere.
Frequente è anche il tema dell’amore, che non sfocia mai però nel sentimentalismo e spesso è un pretesto per parlare d’altro: in diverse canzoni di Coppini l’uomo ottiene l’amore della donna solo se è ricco, potente o famoso e la donna è dunque in realtà una metafora dell’intera società.
«Quando ero solo un uomo normale
cercavo di non farmi notare
eri nervosa, insoddisfatta
tra popo da popo dippo podà.
Ma ora puoi vedermi in tivù
tu dici che mi ami di più.
Sono un fenomeno d’attrazione
mangio i chiodi in tivù
tra tipidi du.»
Una menzione a parte merita il filone che lui chiamava “di satira sociale” : una serie di canzoni dedicate a ritratti bozzettistici di figure che per Paolo erano esemplificative della società disumanizzata nella quale viviamo.
«Poi un giorno il gran casino
torno a casa ed un cretino
dice: “Ecco arriva, poveraccio”
all’ingresso tanta gente,
Polizia, Carabinieri
s’avvicina un ufficiale
che mi porta nel cortile
c’è mia moglie sfracellata
ma che schifo, manco l’ho guardata.»
Sono i testi in cui metteva in scena quelli che considerava i vincenti, figure rozze ed egocentriche, contrapposte ai perdenti, coi quali invece Paolo si identificava e che considerava la parte più umana della società.
Un po’ di storia
Paolo Coppini è nato il 20 gennaio 1944.
Aveva raggiunto un certo successo tra gli anni ’70 e i primi anni ’80, soprattutto come membro di alcune compagnie tratrali (Gruppo Teatro politico, Granteatro Pazzo, Gruppo Policromia) che gli valsero numerose critiche positive su quotidiani nazionali di grande tiratura.
Ma non riuscì mai a “sfondare”, non provò mai seriamente ad ottenere un contratto con una etichetta, faceva una grande fatica a rapportarsi con il mondo del music-biz.
Provò a frequentare il celebre Folk Studio diretto da Giancarlo Cesaroni, ma fu una brutta esperienza.
Anni dopo fini a partecipare a serate per comici dilettanti presso il locale Al Fellini, un teatro per cabaret creato dall’ex attore e autore televisivo Marcello Casco.
«Na specie de Corrida», la chiamava (si riferiva al programma televisivo di Corrado).
«A volte me tiravano i cuscini, altre volte passavo in Serie A».
«Volendo fà l’artista
pensavo “sfonderò”.
Non è che non ho sfondato
ma me fa male ‘n po’»
Tornò a farsi notare nei primi anni del 2000, quando decise di cercare dei collaboratori.
È stato in quel periodo che è venuto da me e mi ha chiesto di provare a suonare per lui.
In precedenza mi aveva lasciato una cassetta con delle vecchie registrazioni e io ero rimasto a bocca aperta.
Prima di quella cassetta non avevo mai saputo che razza di roba facesse. Lui e la mia famiglia avevano ricominciato a frequentarsi da poco.
Portavo il nastro a casa dei miei amici ed eravamo tutti increduli. Per noi ventenni degli anni ’90 cresciuti ascoltando alternative rock, quella musica era inclassificabile. Assomigliava al cantautorato anni ’60, ma era molto meno noiosa.
Cioè, a chi verrebbe mai in mente di fare una rima tra il proprio cognome e la parola pedalini?
«Ma verrà il giorno che anch’io Coppini
me comprerò un bel par de pedalini.»
Col passare degli anni, oltre a me, trovò altre collaborazioni: il cantautore Maurizio Carlini, la band hip-hop Gli Inquilini.
Quest’ultima fu forse la cosa più stramba. Fecero delle produzioni discografiche (l’EP L’Uomo gorilla per l’etichetta Homiez and Money).
Venne premiato «rivelazione dell’anno» alla manifestazione “Da Bomb 2002”, da cui fu tratta una compilation: Paolo Coppini era nello stesso CD con Piotta e altri rapper romani.
Raggiunse i vertici della classifica dei download di Vitaminic, allora il sito web musicale più cliccato in Italia, per la categoria Hip hop.
«Infatti a me m’hanno sempre scaricato», il suo commento.
Se non sbaglio il brano più di successo era la rivisitazione di un suo classico, Voi mi direte che sono pazzo.
Qualche anno dopo io e lui incidemmo un altra versione di quel pezzo, in forma di boogie woogie.
Eccola qua:
«Strappe dappo trippe tappe trippe du
bindel vado vindel vatto
binde vatte tutte tu
Sì sò matto e sei matta pure tu
ce ne andremo tutti insieme a tuffar nel mare blu»
Ok, prima di incedere questa canzone avevamo bevuto, eravamo mezzi ubriachi, ma quando Paolo se n’è uscito con questo scat ho riso per dieci minuti.
Autoironia
Nelle sue canzoni si dipingeva spesso come emarginato, povero e solo, esasperando comicamente il suo personaggio per il divertimento degli ascoltatori, ma soprattutto per raccontare le difficoltà di chi non accetta compromessi con una società che giudica crudele e ipocrita.
«La mia vita si regge con lo spago
e quando incontro qualche buca o un ostacolo
si sbraca tutto e mi tocca riannodare
è divertente solo per chi sta a guardare.»
Nella vita vera aveva una famiglia, una laurea in sociologia, una grande cultura e molti amici.
Per gran parte della vita svolse il mestiere di maestro di tennis, che amava molto e che gli garantì per diverso tempo un buon tenore di vita.
Ma negli ultimi anni le difficoltà lo costrinsero a sostituire progressivamente questo lavoro con altri più umili, molto duri.
In realtà lo entusiasmava la possibilità di incontrare quella parte della società che da sempre riteneva più affascinante e vera: le persone comuni, gli abitanti delle periferie, i frequentatori dei mercati, i pensionati, gli immigrati.
Per un periodo si mise a vendere biancheria al mercato, alle dipendenze di un suo ex allievo di tennis che aveva messo in piedi un discreto business nel mondo del commercio ambulante.
Poi un giorno, mentre smontava il banco, cadde dal tetto del furgone su cui stava sistemando un ombrellone o qualcos’altro.
Andai a trovarlo all’ospedale di Frascati, s’era fatto male su serio.
Così cambiò lavoro e con un paio di scarpe da trekking ai piedi, già ultrasessantenne, intraprese il mestiere di letturista per una società elettrica.
Per anni ha attraversato Roma in lungo e in largo, camminando ogni giorno, dall’alba al tramonto, per decine e decine di chilometri: incontrava persone, visitava le case di ricchi e di poveri, parlava con quanta più gente possibile, condivideva pensieri ed esperienze, raccontava se stesso, ascoltava storie che spesso confluivano nelle sue canzoni mescolate alle sue idee e alle sue esperienze personali.
Quelli furono gli anni in cui girò Romanina Blues insieme a Stefano Romani.
Furono anche gli anni in cui facemmo i nostri concerti migliori e anche le incisioni migliori.
Furono poche esibizioni, che Paolo Coppini faceva al termine di giornate lavorative estenuanti.
Fu Stefano a decidere di produrre uno spettacolo per riportare Paolo Coppini nell’ambiente a lui più congeniale: il palcoscenico di un teatro.
Una esibizione a settimana per un mese al Teatro Petrolini di Testaccio, solo io e lui.
Aiutai Paolo a stendere la scaletta e lo obbligai a mettersi seduto. Volevo che fosse rilassato e gli impedii di scrivere un copione da recitare. Dopo anni di spettacoli insieme avevo capito che dava il suo massimo solo quando andava a ruota libera, senza obblighi e restrizioni.
Funzionò, furono le performance più belle che gli vidi fare.
Quando il sipario si apriva, noi dovevamo essere già lì, seduti, col microfono e gli strumenti, facevamo finta di suonicchiare per conto nostro.
Non sapevano esattamente quando si sarebbe aperto il sipario, perché dovevamo aspettare che si riempisse la sala.
Così passavamo mezz’ora, quaranta minuti seduti lì dietro ad aspettare, ascoltando le persone che entravano, si sedevano, commentavano. Più passavano i minuti più l’ansia cresceva.
Per sostenere quello stress emotivo, avevamo fatto ricorso al trucco più vecchio del mondo: bevevamo vino.
Io e lui, al buio dietro le quinte, aspettavamo, bisbigliavamo e tracannavamo vino rosso nei bicchieri di plastica.
Poi si apriva il sipario.
Paolo Coppini si è ammalato improvvisamente nell’estate del 2008. Un tumore fulminante che lo ha spento in pochissimi mesi.
Lo andavo a trovare all’Ospedale di Tor Vergata e gli portavo musica da ascoltare, avevo comprato un lettore Mp3 apposta.
Gli album che più gli piacquero furono Back to black di Amy Winehouse e Le dimensioni del mio caos di Caparezza.
È scomparso la notte tra il 9 e il 10 ottobre.
Davanti alla fossa, al cimitero, abbiamo fatto una piccola cerimonia laica: abbiamo ascoltato una sua canzone, lì in cerchio, tutti insieme.
«Io canto e ricanto le mie canzoni
e sbarco il lunario a pezzetti e bocconi
la gente che passa non mi chiede mai
se mi piacerebbe pranzare con lei.
Io ho sempre diviso tutto quello che ho avuto
chi non l’ha mai fatto è un porco fottuto.
Se il sole e la pioggia appartengono a tutti
spartiamoci anche salami e presciutti.
E pane integrale, birra danese
crocchette di riso
whisky scozzese
lamponi, caciotta, facioli a purè
e dopo pranzato parliamo di te.
Di te che sei bello, di te che sei forte
di te che hai coraggio, non temi la morte
perché sai che muore soltanto chi sbaglia
tu invece combatti una giusta battaglia.
Ed io?
Io canto e ricanto le mie canzoni
son storie sbilenche di gioie e dolori
ma non ciò cavato mai un ragno dal buco
così vado avanti porco no, però fottuto.»
Approfondimenti
Qui puoi ascoltare le cose migliori che abbiamo inciso io e Paolo:
1) Coppini live
2) Romanina blues
Coppini live è un collage di brani dal vivo tratti da tre diversi concerti tenuti tra il 2003 e il 2005.
Romanina blues lo incidemmo nel periodo in cui Stefano Romani girava il documentario, ma solo dopo la scomparsa di Paolo Coppini sono riuscito a pubblicarlo. L’idea era quella di fare una versione più rock della sua musica, infatti lo avevamo soprannominato Rockoppini.
Il video del documentario Romanina blues è stato pubblicato online dal montatore Mauro Passaretti (che se non erro ha vinto un premio per questo montaggio). Grazie Mauro.
Paolo Coppini mi manca, mi mancherà sempre. Non so cosa darei per una chiacchierata intorno al tavolo di un’osteria, come ai vecchi tempi, con una brocca piena di vino.
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Stefano says
Graze Luca.
Me so commosso
Luca Ricatti says
Grazie a te, Stè.
Pure io mentre scrivevo.
GIANCARLO ERARIO says
bello, che vita. tra coraggio e incoscienza. o forse una coscienza evoluta che potrà, forse in un tempo diverso, fare da apripista per una nuova umanità!
Luca Ricatti says
Giancarlo grazie per questo bellissimo commento!
Fabio says
Ciao, Luca. Che piacere ritrovare oggi il mio primo maestro di tennis, il bravissimo Paolo Coppini ! Mi ricordo che al Circolo Silvestri negli anni ’80 (fine anni ’70) lui insegnava tennis con la moglie (di cui non ricordo il nome). Ma è rimasta con lui nel tempo?
Mi è dispiaciuto da morire scoprire che ci ha lasciato, l’abbiamo ritrovato grazie a mio fratello (una ricerca su Google) e il doc Romanina Blues è bellissimo!
Ero piccolino quando mi insegnava a giocare a tennis, ma era bravissimo e simpatico. Ho scoperto oggi che era anche un bravissimo autore ! Grazie, Paolo, non ti dimenticherò mai!!!
Fabio
Luca Ricatti says
Ciao Fabio,
che bello questo tuo ricordo!
Anche io fui suo allievo per una stagione, da bambino (doveva essere più o meno la metà degli anni ’80). Il tennis non faceva per me, ma ho un bel ricordo dei campi all’aria aperta e di lui che impartiva comandi agli allievi in giro per tutto il circolo.
Gli avrebbe fatto molto piacere sapere che ti ricordavi di lui e che lo hai cercato.
Grazie infinite.
enrico says
ciao Luca
non l’avevo mai ascoltato….più dissacrante di gaberiannaccierinogaetano…
e di una dolcezza struggente..
Luca Ricatti says
Ciao Enrico,
grazie davvero per questo commento.
Daniela Zilli says
Un racconto delicato. Bello il ritratto di Coppini con la sua libertà di vivere, la forza delle passioni e la dignità delle sue scelte.
Traspare da ogni riga, dall’inizio alla fine e arricchisce il lettore di autenticità e positività.
Complimenti all’autore.
Luca Ricatti says
Grazie mille, Daniela!