I Popol Vuh sono rimasti sostanzialmente sconosciuti al grande pubblico, eppure sono stati tra le band più influenti della storia. È incredibile ma è così.
Potrebbe giustamente non fregare niente a nessuno di come mi sia fatto trascinare in territori lontani e sconosciuti da una band tedesca nata nei primi anni ’70, ma sono certo che la mia esperienza rifletta quella di molti musicisti e della maggior parte dei fan dei Popol Vuh sparsi per il globo.
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Comunque, questo articolo è il mio tributo alla trentennale storia dei Popol Vuh e soprattutto alla memoria di quello che considero uno dei più grandi geni musicali del ‘900: Florian Fricke.
Il brano che ho eseguito è un adattamento per Chitarra fingerstyle di Die Umkehr, che in tedesco significa L’Inversione e che si trova in quello che forse è il disco più importante della mia vita.
Il disco più importante della mia vita
Come per tutti gli appassionati di musica, sono molti i dischi che mi hanno sconvolto l’esistenza.
Ma forse ce n’è uno il cui impatto è stato più potente degli altri: perché l’ho ascoltato di più, perché ha influenzato più degli altri la musica che ho suonato, perché ha influenzato tutto il mio immaginario, non solo musicale.
Sto parlando di Brüder des Schattens – Söhne des Lichts dei Popol Vuh.
Ho passato una vita ad ascoltare musica angloamericana, eppure il disco che considero più importante per me è di una band tedesca.
E io di tedesco non capisco una parola.
So cosa state pensando, eppure è proprio così: sono quasi sicuro di aver ascoltato più volte questo album che The Dark Side of the Moon o Led Zeppelin IV.
Doveva essere il Natale del 1995, avevo 18 anni, un mio amico mi invitò a passare la serata da lui. Oltre che di musica, era un cultore di cinema d’autore: infilò nel Vhs la video cassetta di Nosferatu, il Principe della Notte, di Werner Herzog.
Mi addormentai.
Eppure, durante quella prima metà del film in cui tenni gli occhi aperti, mi resi conto che in quella pellicola c’era qualcosa di potente come non avevo mai visto prima. E infatti negli anni è diventato per me un imprescindibile film di culto (ne ho parlato anche qui ☞Danza Macabra per Chitarra).
Ma ancora più travolgente fu l’ascolto della colonna sonora, realizzata da una band tedesca di cui non avevo mai sentito parlare (d’altra parte non sapevo nulla di musica tedesca in generale): i Popol Vuh.
Parliamo di anni pre-internet, pre-tutto. Le informazioni, se ti arrivavano, giravano solo per passaparola.
E così sono trascorsi alcuni anni prima che sia riuscito a districarmi nell’incasinatissima discografia dei Popol Vuh, fatta di troppe compilation e album realizzati riciclando vecchie canzoni con titoli tradotti in inglese, in italiano, in francese, o addirittura cambiati di sana pianta.
La soundtrack del Nosferatu di Werner Herzog che si trovava in giro non era quello che cercavo: la parte che interessava a me era un album dal titolo Brüder des Schattens – Söhne des Lichts, che significa «Fratelli dell’Ombra – Figli della Luce».
Quei suoni mi sono entrati dentro come dei mantra.
C’è l’orrore della tenebra e la luce del più dolce dei mattini, c’è la sensuale seduzione dell’oscurità e l’inebriante immensità del cielo, c’è l’avventura umana trasfigurata in mito e tutto questo senza neanche una parola: solo la musica, una musica che ha l’immediatezza dell’arte popolare eppure è completamente diversa da qualsiasi cosa si possa sentire nei normali dischi di musica rock.
Brüder des Schattens – Söhne des Lichts non è un disco per tutti.
Bisogna naturalmente non farsi spaventare dall’idea di un album interamente strumentale (per quanto abbastanza breve). E poi la sezione ritmica è quasi del tutto assente.
Ci vogliono mente e cuore aperti.
Tutti e due.
Chi sono i Popol Vuh
Statisticamente, tu che stai leggendo questo articolo probabilmente non li hai mai sentiti nominare.
Eppure, come dicevo all’inizio, i Popol Vuh hanno segnato fortemente la storia della musica leggera, perché i loro dischi sono stati ascoltati e amati moltissimo da una stretta cerchia di appassionati e di addetti ai lavori.
Così, col passare degli anni, la loro influenza s’è fatta sentire nelle uscite discografiche di molti musicisti e produttori di successo.
I Popol Vuh sono considerati i precursori, se non proprio i fondatori, della musica new age e certamente hanno anticipato la world music e anche la ambient music.
E soprattutto sono stati pionieri dell’elettronica.
I primi due album dei Popol Vuh (Affenstunde e In den Gärten Pharaos, del 1970 e 1971) sono stati realizzati in gran parte con il sintetizzatore Moog, in anni in cui pochissimi al mondo sapevano come usare quel complicatissimo attrezzo.
La lunga traccia Vuh, che si trova in In den Gärten Pharaos è un flusso sonoro improvvisato, registrato in presa diretta nella chiesa di Baumberg, con il leader Florian Fricke che suona l’antico organo a canne, accompagnato da Moog e percussioni.
Non credo siano molte le cose più azzardate di questa, nella storia del rock.
Il fondatore dei Popol Vuh è appunto Florian Fricke.
Florian Fricke
Era nato nel 1944 a Lindau, in Baviera. Iniziò a suonare il pianoforte a sette anni e fece un lungo percorso di studi musicali, che lo portò a studiare pianoforte, composizione e direzione nei conservatori di Freiburg e Monaco.
A soli 13 anni aveva partecipato a una competizione in cui bisognava suonare brani di Hydn, Bach e Mozart e a 15 aveva abbandonato la scuola per dedicarsi alla musica a tempo pieno.
A 19 decise di lasciare gli studi accademici per «vivere la vita».
Si interessò anche al cinema e alla scrittura e lavorava come redattore della rubrica culturale del giornale Süddeutsche Zeitung, dove scriveva reportage di concerti di musica classica, ma anche di Frank Zappa e dei Bee Gees.
Contemporaneamente, si appassionò alla ricerca spirituale: andò in Tibet, in Afganistan, Libano, Iraq.
Anche più tardi, in età matura, ha continuato a fare pellegrinaggi e percorsi spirituali in posti tipo montagne sacre del Tibet o della Palestina.
Intraprese una ricerca sulla «respirazione terapeutica» dopo aver partecipato a un incontro con un tale Cornelis Veening, un olandese che girava il mondo insegnando la sua tecnica di respirazione.
Da lì, Fricke elaborò insieme a sua moglie Bettina un metodo basato sul canto e la respirazione che chiamò Alfabeto del Corpo.
Negli anni ’60 divenne amico del giovane regista Werner Herzog e da questa amicizia nacque in seguito una prolifica collaborazione: la band di Fricke scrisse le colonne sonore dei più celebri e celebrati film di Herzog: Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu.
In realtà, i Popol Vuh sono stati descritti più come un «collettivo», che una band vera e propria.
In effetti sono il progetto di Florian Fricke, al quale di volta in volta si sono affiancati altri musicisti.
Che strano nome, Popol Vuh
Lo strano nome della band (che si scrive «Popol» ma si legge «Popul») viene da un antico testo sacro della tribù dei K’iche’ (di solito traslitterato nella forma spagnola Quiché).
I K’iche’ vivono in Guatemala e fanno parte del gruppo etnolinguistico dei Maya, di cui in effetti sono considerati discendenti.
Fricke raccontò di aver trovato per caso una copia di una traduzione del libro risalente al 1910 e di essersene innamorato.
Il libro è stato tradotto anche in italiano, io ne acquistai una copia alla fine degli anni ’90 su una bancarella, un’edizione degli anni ’60.
La musica dei Popol Vuh, insomma, è totalmente monotematica: parla sempre di ricerca spirituale. Alla base c’è il Cristianesimo (soprattutto l’Antico Testamento), ma sempre messo in relazione con altre tradizioni, quella dei K’iche’, l’induismo, l’orfismo e chissà cos’altro.
Non è certo una stramberia l’associazione tra musica pop e spiritualità: basti pensare a certe cose dei Beatles, per dire. In Italia, poi, Franco Battiato ha fatto questo per decenni.
La differenza è che i Popol Vuh si sono mossi al di fuori delle convenzioni della musica pop, hanno smontato gli schemi del rock per esplorare territori nuovi, pur senza addentrarsi nell’elitarismo della musica colta.
L’ispirazione dalla musica sacra o da quella etnica è sempre solo una ispirazione, non si trasforma mai in ricerca (etno-) musicologica: è immaginazione, proiettata verso l’infinito.
La loro musica è strana, è senz’altro inconsueta, ma è sempre accessibile perché in fin dei conti è pur sempre una forma (stravagante) di rock.
A patto di essere disposti a fare un viaggio interiore, spirituale, «cosmico».
Spirituale?!
Ora è necessario per me specificare che sono felicemente ateo dall’età di 16 anni e che in tutta la vita non ho mai avuto ripensamenti.
E allora ci si potrebbe chiedere il perché di tanta ammirazione per una formazione musicale che ha trascorso 30 anni a fare musica mistica, da qualcuno definita perfino «religiosa».
Non è semplice da far comprendere a chi non è ateo, ma il rifiuto categorico di qualsiasi spiegazione religiosa del cosmo, del tempo, della vita e della morte significa immergere se stessi in un mistero assoluto e senza soluzione, tanto affascinante quanto terrificante.
Un ateo non condivide le scelte e le credenze dei mistici, ma nel profondo, proprio perché non ha risposte, si porta dentro fascinazione e terrore per le cosiddette «eterne domande». È un sentimento che la maggior parte dei credenti non capisce e che invece forse somiglia un po’ a una forma di misticismo.
Sono gli estremi che si toccano. E la musica dei Popol Vuh si colloca proprio in quel punto di intersezione.
Tanto più che non sembra mai offrire una dottrina conclusa, ma si pone più come un luogo di incontro, un tentativo di fusione di più culture, un discorso che termina con dei puntini di sospensione…
La svolta acustica
Nel 1973 Fricke decise di cambiare totalmente il sound e l’assetto del suo collettivo. Sentiva che per esprimere la sua ricerca spirituale erano necessari dei suoni più naturali.
Il nucleo del nuovo organico fu composto da Florian Fricke al pianoforte, dal chitarrista Conny Veit e dalla cantante soprano coreana Djong Yun.
A loro si univano Klaus Wiese alla Tambura (uno strumento a corde indiano, simile al Sitar ma senza tasti), Robert Eliscu all’oboe, Fritz Sonneleitner al violino.
Fricke abbandonò quasi del tutto il sintetizzatore (qualche anno più tardi lo vendette a un altro celebre sperimentatore tedesco, Klaus Shulze) per dedicarsi allo strumento dal quale era partito da bambino: il pianoforte.
Il risultato è considerato dai critici il capolavoro assoluto dei Popol Vuh: Hosianna Mantra.
Che dal titolo già si intuisce che è un album alla ricerca di un sincretismo religioso tra cristianesimo (Osanna è un’antica invocazione ebrea e cristiana, ma qui è nella forma antica in aramaico, «Hosianna») e induismo (il Mantra è la ripetizione ossessiva di una parola fino a provocare uno stato di trance mistica).
Nel disco seguente, Seligpreisung, non compare la cantante Djong Yun (che tornerà successivamente) ma fa la sua prima apparizione il chitarrista Daniel Fichelscher, che sarà il collaboratore di più lunga durata di Fricke (fino al 1995) e il cui sound pulito e arabescante, che definirei da «rock californiano», diventerà una delle caratteristiche più riconoscibili dei Popol Vuh.
Il nucleo Florian Fricke, Djong Yun, Daniel Flichelscher, alla base del seguente Einsjäger und Siebenjäger è da considerare forse l’organico migliore mai raggiunto dai Popol Vuh, anche se la Yun abbandonerà il progetto alla fine degli anni ’70, per tornare a vivere in Corea.
Durante gli anni ’70 i Popol Vuh hanno pubblicato circa una dozzina di album, alcuni bellissimi, altri meno, come succede a tutti.
A mio modesto parere, il vertice più alto è raggiunto da Brüder des Schattens – Söhne des Lichts, perché in nessun altro album le composizioni di Fricke sono giunte agli stessi apici di cristallino splendore e profonda tenebra. E poi perché il suono è quello maturo raggiunto dalla coppia Fricke-Flichelscher.
Se ci fosse stato almeno un brano cantato dalla Yun sarebbe potuto essere l’album più rappresentativo della loro carriera.
La maggior parte degli estimatori considera Hosianna Mantra la vetta dei Popol Vuh, ma secondo me, pur essendo un capolavoro assoluto, non supera la potenza emotiva che invece scaturisce da Brüder des Schattens – Söhne des Lichts.
A ciascuno il suo, come diceva quello.
Comunque, quando Herzog propose a Fricke di realizzare dei brani per il suo remake del vecchio Nosferatu di Murnau, i Popol Vuh si misero al lavoro e l’album uscì un anno prima del film (nel quale poi entrò anche qualche altra canzone).
Incredibilmente, il disco pubblicato come soundtrack di Nosferatu (con tanto di locandina sulla copertina) è un altro («On the Way to a Little Way»), che contiene solo due o tre brani usati davvero nel film.
Questi ingarbugliamenti sono ahinoi frequenti quando si va alla ricerca degli album dei Popol Vuh: dietro ci sono questioni di diritti, speculazioni e tentavi spudorati di spremere soldi da dischi che di soldi non ne hanno fatti guadagnare molti.
Ce ne sono di aneddoti sulla discografia dei Popol Vuh!
C’è un brano che mi ha totalmente sconvolto la prima che l’ho ascoltato: lo trovai su una compilation che si intitola «Gesänge der Gesang», (che significa canta il canto e in effetti è una collezione di brani cantati). Qui il pezzo è riportato come Lacrime di Re (così, in italiano).
Da qualche parte l’ho visto scritto L’acrime di Rei, ma non ricordo dove.
È un brano realizzato al sintetizzatore, di una bellezza indescrivibile, che per involontaria associazione di idee mi ha spesso fatto pensare al passaggio del Signore degli Anelli quando la Compagnia, navigando lungo il Fiume Anduin, arriva agli Argonath, le immense statue degli antichi re.
Comunque sia, solo anni dopo, vedendo la pellicola di Herzog, ho scoperto che il brano è stato pubblicato nella colonna sonora di Aguirre, con lo stesso titolo del film.
Un vizio che non è passato, a Fricke e ai suoi discografici, di riciclare le canzoni cambiando i titoli: all’inizio degli anni ’90 i Popol Vuh hanno reinciso alcuni brani di Brüder des Schattens – Söhne des Lichts, con nuovi arrangiamenti (peggiorativi) e li hanno ripubblicati nell’album del 1991 For You and Me, ma con titoli diversi!
E sentite questa: oggi, su Apple Music e Spotify sono assenti due album fondamentali della fase anni ’90: City Raga e Messa di Orfeo (oltretutto, i relativi compact disc sono rarissimi e venduti a prezzi esorbitanti).
In compenso su Apple Music, tra quelli della band di Fricke, si trova un disco del ’73 di una band omonima. Insomma, un caos assurdo.
C’è da diventare matti, perciò fate attenzione: se andate in cerca dei lavori in studio originali dei Popol Vuh, controllate la discografia ufficiale (per esempio su ☞questo bellissimo sito) e poi cercate i titoli in modo molto specifico.
Gli anni ’80 e ’90
Dopo un decennio di produzioni di altissimo livello, improvvisamente i Popol Vuh ebbero un comprensibile rallentamento.
Negli anni ’80 realizzarono quattro album, che continuvano, forse in modo un po’ ripetitivo, sul solco delle produzioni precedenti.
Negli anni ’90, invece, Fricke tentò la svolta.
Nel decennio precedente aveva faticato a trovare produttori disposti a investire sul suo progetto, i Popol Vuh vendevano poco, anche se hanno sempre contato su una cerchia di estimatori.
Ma col nuovo decennio arrivò una nuova ondata culturale: la new age e il big beat, il terzomondismo e i rave a base di trance music, la riscoperta delle discipline e delle filosofie orientali e il movimento no global.
Florian Fricke provò a saltare sul nuovo carrozzone, immettendo nei Popol Vuh sonorità al passo coi tempi.
I vecchi fan gridarono allo scandalo, soprattutto riguardo gli album City Raga e Shepherd’s Symphony.
Io mi sento di dire che sono due album di buona musica elettronica, non peggiore di quella prodotta negli stessi anni da nomi ben più famosi.
Dobbiamo pensare che a quel tempo Florian Fricke aveva circa cinquanta anni, che aveva attraversato da protagonista la rivoluzione culturale degli anni ’70, era un reduce che aveva trascorso la vita a sperimentare viaggi (geografici e interiori).
Ebbene, quando si trovò davanti ai ragazzi degli anni ’90, provò ad abbracciare il loro nuovo stile musicale, comprendendo la potenza liberatoria dei ritmi da ballo come mezzo per provocare benefici stati alterati di coscienza.
Semmai, si potrebbe rimproverare a quegli album di non avere le folgoranti intuizioni compositive dei vecchi capolavori come Hosianna Mantra, Brüder des Schattens o Aguirre.
Ma non tutti gli album dei Popol Vuh le hanno e d’altra parte nessuna band al mondo ha prodotto sempre e solo capolavori.
Nel 1999, ci fu un nuovo colpo di scena.
Florian Fricke partecipò al festival TimeZones organizzato a Molfetta e mise in piedi una performance dal vivo con un coro enorme accompagnato dalle sue improvvisazioni al sintetizzatore: si trattava di una potente meditazione sonora guidata dalla voce recintante in lingua italiana di Guillermina De Gennaro:
La terra ed io siamo uno
i suoi occhi ed i miei occhi sono uno
le sue orecchie e le mie orecchie sono uno
le sue ossa e le mie ossa sono uno
la sua carne e la mia carne sono uno
il suo sangue ed il mio sangue sono uno
il suo respiro ed il mio respiro sono uno.
La terra mi tiene e mi ama da sempre.
Ecco quel punto di intersezione che dicevo sopra.
E chi vuole capire capisca.
La performance fu poi riproposta in forma di video-installazione sempre in Italia in un festival organizzato da Franco Battiato a Fano (in provincia di Pesaro).
È un cerchio che si chiude, un ritorno alla forma musicale astratta e introspettiva dei primi due album.
Messa di Orfeo fu poi pubblicata nel 1999 come 20esimo album dei Popol Vuh ed è un testamento spirituale, un ultimo meraviglioso messaggio per il mondo, molto meno esoterico e molto più umano e universale di quanto potrebbero far ipotizzare i riferimenti all’antica dottrina orfica.
Florian Fricke è morto a seguito di un infarto nel 2001, a Monaco.
Aveva solo 57 anni.
Se avessi saputo che i Popol Vuh si esibivano in Italia, nel 1998 probabilmente avrei cercato di arrivare a Molfetta.
O forse no, non lo so.
So che dalla metà degli anni ’90, quando ho scoperto la sua musica, Florian Fricke è diventato per me un punto di riferimento artistico costante e continuerò a riascoltare i suoi dischi per il resto della vita.
Davide says
Grazie
Luca Ricatti says
Grazie a te!
Dolf says
Nice track and article. Thank you!
I made a reference on my website.
Luca Ricatti says
I really thank you, Dolf!
I know your website and I think is probably the best resource on the web about Popol Vuh. I am proud to be linked on it!
Angela says
Grazie per questo excursus veramente ben fatto, documentato ed appassionato sugli immensi Popol Vuh e le loro straordinarie creazioni, per me sono stati una pietra miliare della Musica, mi chiedo se mai un giorno assisteremo al ritorno di una simile creatività. Un caro saluto, Angela.
Luca Ricatti says
Lo sono stati, una pietra miliare, assolutamente.
Grazie a te, Angela!
Gabriele says
Band che mi manda letteralmente fuori di testa.
Luca Ricatti says
E qui sfondi una porta aperta!
Gabriele says
ho ascoltato Bruder des schattens ed effettivamente è un altro capolavoro..ora non voglio esagerare, ma mi viene da dire che la loro musica sta davvero su un altro piano rispetto al resto..forse solo Brian Eno è riuscito a creare atmosfere che ti lasciano sospeso come i PV
Luca Ricatti says
Hanno senz’altro stravolto il linguaggio della musica pop creando qualcosa di nuovo!