I rave sono nati dall’incontro di almeno tre sottoculture diverse.
Dalla cultura hippie e dal filone punk/squatter, i ravers hanno tratto ispirazione per il do it yourself (fai da te), l’idea dell’organizzazione dal basso e l’ispirazione anti-capitalista. Il fatto, cioè, di provare a fare arte col poco che si ha e mettere su dal nulla eventi aperti a tutti, liberi, festosi, di ispirazione chiaramente anarchica e basati su occupazioni abusive di luoghi abbandonati.
La musica, invece, viene direttamente dall’elettronica nata nei primi anni ’80 come evoluzione di alcune avanguardie rock del decennio precedente, prima fra tutte la band tedesca dei Kraftwerk.
La tekno (scritto con la k) legata al mondo rave si è sviluppata parallelamente alla musica dance mainstream, ma in direzione diametralmente opposta e, all’inizio degli anni ’90, ha portato a una rivoluzione musicale che ha tracimato dagli scantinati e dalle feste illegali per arrivare alle classifiche mondiali, influenzando artisti anticonvenzionali come Prodigy, Chemical Brothers, Daft Punk, Orbital, Aphex Twin, Björk.
Insomma, la tekno dei rave è stata così dirompente da portare una rivoluzione, mettendo in discussione la noiosa dance dei dj-star da discoteca.
Non era solo un tunz-tunz vuoto, proponeva una sfida al sistema, spingeva allo stato di trance, era provocatoria e irriverente.
Questi aspetti sono fondamentali, perché mettono il movimento rave in una prospettiva che è prima di tutto politica.
Il free party (come preferiscono chiamarlo i raver) è riappropriazione (momentanea) di spazi abbandonati, evento sociale e musicale strappato al sistema commerciale, è creazione di uno spazio inclusivo aperto a chiunque.
Disclaimer
In questo breve articolo non parlerò del tema droghe: è semplicemente ridicolo parlarne, le droghe ci sono ai rave come nelle discoteche più costose.
+++ Fine del disclaimer +++
Pagare per avere relazioni
Nelle grandi città è diventato spesso impossibile avere interazioni sociali gratuite; che sia un caffè al bar, una telefonata, una pizza o una birra, la nostra socialità è quasi sempre condizionata all’atto di spendere denaro.
In molti contesti si aggiunge poi l’esclusività: le discoteche e i concerti costano tanto. Le discoteche hanno spesso regole di ingresso, consentono l’accesso solo a chi è fatto in un certo modo, veste in un certo modo, ha una determinata capacità di spesa.
La musica da ballo è non meno soggetta alle imposizioni del capitalismo: deve rispettare format precisi, altrimenti non può entrare nel circuito commerciale.
Il free party abolisce tutto questo: che tu sia largo, stretto, strafigo oppure orrendo non importa a nessuno: vieni, balli quanto vuoi e non paghi niente. Per giorni interi, se vuoi.
E tutto questo in vecchie fabbriche abbandonate, terreni inutilizzati se non addirittura in mezzo alla natura.
Il risultato è un evento che ha la potenza del rituale, che è libero e liberatorio perché è senza limiti e fuori dalle regole asfissianti del quotidiano (e infatti si sprecano i riferimenti al misticismo orientale e alla vecchia cultura hippie).
È un evento che di fatto mette al centro i concetti di empatia, inclusività e non violenza.
Nel Manifesto dei Raver c’è scritto:
«Il nostro stato emotivo l’estasi. Il nostro nutrimento l’amore. La nostra dipendenza la tecnologia. La nostra religione la musica. La nostra moneta la conoscenza. La nostra politica nessuna. La nostra società un’utopia che sappiamo non sarà mai.»
(Il testo completo si può ☞leggere qui)
Politico
Proprio perché è un evento prima di tutto politico, la politica non può ignorare il free party, deve occuparsene in qualche modo.
E ovviamente lo fa nel modo peggiore.
Se un evento nasce dal basso e ha così tanto successo da diffondersi in tutta Europa e Nord America, per oltre trent’anni, attraversando intere generazioni, evidentemente un motivo ci sarà.
Evidentemente risponde a esigenze molto forti, molto diffuse e molto durature.
Una classe dirigente con un minimo di buon senso si farebbe delle domande.
Tipo.
Perché così tante migliaia di persone fanno queste cose? Sfidando la legge, poi? Chi glielo fa fare?
Da dove arriva questa esigenza così forte nella società?
Ciò che fanno queste persone è illegale, ma è molto grave? Ed è pericoloso?
Se sì, cosa potremmo fare per permettere loro di fare quello che fanno senza muoversi nell’illegalità e soprattutto riducendo al minimo i pericoli?
Come ben sappiamo, la politica non funziona (quasi) mai così, non parte dalle esigenze collettive per elaborare nuovi schemi. La politica segue i flussi di denaro e impone ai cittadini regole che favoriscono gli interessi di chi possiede i capitali.
E così, la risposta al fenomeno dei free party è: fare finta di niente (nel migliore dei casi) e possibilmente reprimere, arrestare e confiscare, (nel peggiore).
Dice e allora tu?
Tu ci vai ai rave?
E che adesso il rave è la panacea per tutti i mali del capitalismo?
No, non credo che sia la panacea
Ci sono stato un paio di volte, quando ero giovane, alla fine degli anni ’90. Andai a uno veramente grosso forse a capodanno del ’97 o del ’98, organizzato in un vecchio edificio industriale abbandonato a Castel Romano, una zona agricola a sud ovest della capitale, tra Ostia e Pomezia. Mi piacque molto.
Oggi non ci andrei, ma non dirò il motivo ovvio, cioè che sono troppo vecchio per queste cose.
E non dirò neanche il motivo vero, cioè che preferisco mille volte passare una serata a casa con la mia famiglia e strimpellare la chitarra acustica (il che è evidentemente legato al motivo ovvio di cui sopra).
Dirò invece un altro motivo.
Cioè che secondo me il free party, per come è concepito, si muove all’interno dei confini del mercato capitalista.
Ne sfrutta i margini abbandonati, i vuoti, i bug, per usare un termine informatico, ma non può uscirne fuori.
Intendo dire che il rave replica alcuni meccanismi che sono tipici del sistema consumistico.
Organizzare un free party e mettere insieme un sound system (cioè l’attrezzatura usata per generare e diffondere musica), è molto costoso. Questi costi sono di solito coperti dagli organizzatori allestendo dei banchi dove vendere birra o acqua, tutta roba che usa bicchieri e bottigliette usa e getta
C’è bisogno di energia. I generatori elettrici costano e vanno alimentati con carburanti fossili.
I free party resterebbero spesso segreti alle autorità, se non fosse che il volume sonoro è talmente alto da potersi sentire a chilometri di distanza.
In più occasioni è stato notato che i partecipanti ai free party si impegnano a pulire e agevolare la raccolta dei rifiuti alla fine delle feste, ma l’assembramento di migliaia di persone in un luogo (magari in mezzo alla natura) non è mai neutro.
Una mandria di bovini al pascolo ha un impatto su un territorio, figuriamoci migliaia di esseri umani che arrivano e ripartono sulle automobili.
Il free party resta una forma di intrattenimento di massa, con tutti i difetti tipici di queste manifestazioni: genera costi da coprire con servizi aggiuntivi, che a loro volta generano nuovi costi e consumi e inquinamento.
È invasivo, inevitabilmente impattante e inquinante e comunque massificante.
Dice e allora che vòi?
Rave sì o rave no?
Capire, ripensare, andare oltre
Io credo che ci vorrebbe un ragionamento collettivo sul fenomeno.
Abbiamo obiettivamente bisogno di pensare e organizzare la socialità in modi profondamente diversi da quelli imposti dalla legge del capitale.
E il gigantesco fenomeno dei free party è un importante punto di partenza per una riflessione radicale e sensata. Anche perché ha dimostrato che una socialità più libera, slegata dalle imposizioni di mercato e politica è terreno fertile per la crescita di nuovi stimoli culturali e artistici.
Ma oggi, a distanza di decenni dalla loro nascita, è anche evidente che i free party sono un fenomeno problematico, con molti, troppi limiti e i raver per primi dovrebbero ragionare su questo per provare ad andare oltre e immaginare nuove forme organizzative.
Però oh, io sono un fesso qualsiasi e quello che dico lascia ovviamente il tempo che trova.
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