The problem with music è il titolo di un breve saggio scritto da Steve Albini nel 1993 per la rivista statunitense di sinistra The Buffer.
Prima di cominciare: questa è la seconda puntata di una trilogia dedicata a Steve Albini.
1) Chi era e cosa diceva Steve Albini
2) The Problem with music di Steve Albini
Da dove viene The Problem with Music di Steve Albini
The Buffer è un bimestrale (più o meno), di proprietà di una fondazione senza scopo dei lucro, che vive principalmente di donazioni. Nella sua presentazione dice di occuparsi di «Olio di serpente della Silycon Valley, il peso mortale del capitalismo consumistico, i nostri sleali media e la promessa di redenzione per le persone che reclamano il controllo della propria vita».
«Olio di serpente» è un modo di dire americano per indicare una truffa. È una definizione interessante per tutto quello di cui andremo a parlare in questo articolo.
L’Olio di Serpente è un medicamento tipico della Medicina Tradizionale Cinese, utile contro reumatismi, artrite, borsite, eccetera. Probabilmente il rimedio era stato introdotto negli U.S.A. dagli immigrati cinesi che lavorano alla costruzione delle ferrovie americane nel diciottesimo secolo. Forse era avvolto dalla leggenda e in pochi sapevano o volevano realmente produrlo, fatto sta che c’erano ciarlatani che andavano in giro a vendere bottigliette di intrugli farlocchi chiamandoli olio di serpente e spacciandoli per medicamenti miracolosi.
Oggi gli americani chiamano «olio di serpente» qualsiasi cosa appaia come una truffa, dalle cure pseudoscientifiche ai raggiri online.
Ma torniamo a noi.
Nel 1993 Steve Albini era all’apice della notorietà. Come abbiamo visto nella puntata precedente, aveva lavorato con i Nirvana alla produzione di «In Utero». Anche se alcuni brani erano stati rimaneggiati da Scott Litt e tutto l’album era stato rimasterizzato da Bob Ludwig, per i fan dei Nirvana, Steve Albini era colui che aveva reso possibile il capolavoro.
Sull’onda di questa improvvisa notorietà, Albini pubblicò su The Buffer un lungo articolo, un vero mini-saggio, in cui spiegava senza mezzi termini e con cifre messe nero su bianco quanto fosse difficile sopravvivere per una band di rock alternativo negli anni ’90. E di come, nonostante queste difficoltà, le etichette discografiche riuscissero a guadagnare molti soldi sfruttando quelle stesse band.
Intitolò l’articolo The Problem with Music e lo suddivise in tre parti, più un’introduzione.
Qui lo riassumiamo tutto e, in conclusione, proviamo a tirare le somme, per capire se può aiutarci a interpretare il mondo del music-biz oggi, a distanza di decenni da quando fu scritto.
Introduzione
Il saggio si apre con un’immagine da incubo.
C’è una trincea piena di merda liquida. Su una sponda c’è una folla di musicisti che aspirano a un contratto. Sull’altra c’è un rappresentante dell’industria discografica con una penna e un foglio da firmare, che però non si riesce a leggere perché è troppo lontano e perché i fumi malsani del liquame bruciano gli occhi. Facile intuire come va a finire.
Il superstite, quello che arriva a firmare, è pronto per essere uno schiavo.
1 – Lo Scout della A&R
Nella prima parte, innanzitutto, Albini ci spiega chi è la persona che fa firmare il contratto a una band, il cosiddetto «Rappresentante dell’A&R». A&R sta per «Artists and Repertoire» («Artisti e Repertorio»), che è la divisione di un’etichetta che si occupa di scovare nuovi musicisti da lanciare e magari trovare per loro compositori e produttori.
Il rappresentante dell’A&R di solito è giovane, più o meno della stessa età dei musicisti. Ha quasi sempre un passato nel mondo del rock alternativo, come musicista o come redattore di qualche fanzine. Non ha il vestito con la cravatta, la pancia grossa e il sigaro in bocca. Non è per niente il classico tizio da casa discografica. Quando chiacchiera coi musicisti, usa il loro gergo. Pure lui è stato a quel concerto e va spesso in quell’altro locale. La band pensa: «è uno come noi, non può mica fregarci».
La prima parte della frase è vera, somiglia a loro, è stato assunto per questo. La seconda no, può fregarli eccome.
Questo non-è-per-niente-il-classico-tizio-da-casa-discografica convince la band a firmare un promemoria di accordo che, nonostante il nome dal suono innocuo, è a tutti gli effetti un documento vincolante. Sottoscrivendolo, la band si impegna legalmente a firmare un contratto solo con quella etichetta e nessun altra. Albini sottolinea che questo promemoria di accordo non ha alcuna data di scadenza. Se il contratto verrà proposto (e non è detto che accada), la band potrà anche decidere di non firmarlo, ma non potrà firmare con nessun altra etichetta, mai più.
I giovani musicisti si trovano così a dover sottostare a qualsiasi decisione l’etichetta discografica prenderà su di loro.
La band è fregata.
2 – Cosa odio delle registrazioni
Il secondo paragrafo di The Problem with Music è una sorta di intermezzo, in cui Albini spiega cosa odia del modo di lavorare della maggior parte dei suoi colleghi in sala di incisione.
Sostanzialmente se la prende col fatto che molti «produttori» non sono mai stati dietro una consolle di registrazione e non capiscono niente di tecnica del suono. Ma non risparmia frecciate avvelenate nemmeno per i più competenti. Molti di loro, dice, usano parole senza senso per abbindolare i musicisti con cui lavorano. Cose come «punchy», «caldo», «groove», «vibrazione», «feel», che non significano niente e servono solo a far accettare alle band il fatto che il loro disco suona diverso dalle loro performance dal vivo; imbottiscono i missaggi di effetti alla moda e costringono i musicisti a conformarsi alle tendenze del mercato.
3 – C’è questa band
Nella Terza Parte, Steve Albini ci racconta la storia di una band di rock indie. È una storia inventata, ma totalmente plausibile e simile a tante avvenute nella realtà.
La band immaginaria ha un contratto con una etichetta indipendente medio-piccola con cui ha già fatto un paio di album. Però vorrebbe fare il salto, firmare con una major per avere una stabilità, «procurasi buona attrezzatura, andare in tour con un vero pullman, niente di speciale, solo un po’ di ricompensa per il duro lavoro», dice Albini.
Così i ragazzi si mettono a cercare un manager, qualcuno coi contatti giusti. Ne trovano uno, vuole il 15% se riesce a farli firmare. Se non riesce a procurare loro un contratto, non prende un centesimo. Sembra un buon affare e i ragazzi accettano. E lui li mette in contatto con una major.
Così arriva il non-è-per-niente-il-classico-tizio-da-casa-discografica: è giovane, simpatico, si veste come loro e li convince a firmare il promemoria di accordo.
Passa un po’ di tempo e arriva anche il contratto vero e proprio.
Siccome non sono sicuri, i giovani musicisti mostrano il pezzo di carta a un avvocato esperto in questo genere di scartoffie. L’avvocato dice che è un contratto tipico, anzi migliore di altri che ha visto.
Ci sono le royalties, ci sono $20.000 di anticipo e poi le percentuali sul merchandising. Oltretutto pare che l’azienda che stampa e vende le magliette tirerà fuori anche lei un anticipo.
Come se non bastasse, in qualità di band sotto contratto con una major, i ragazzi possono ottenere dai $1000 ai $2000 per una serata in un locale.
Sono un sacco di soldi, con cui potranno pagare attrezzatura professionale, assumere dei roadie (i tecnici che seguono la band nei concerti) e affittare un vero pullman con cui andare in tour.
Quando si tratta di decidere a chi far produrre l’album, spuntano perfino nomi altisonanti come Butch Vig, che però chiede $100.000. Alla fine, per non spendere troppo, si opta per un tizio che suonava nella band del David Letterman Show. Uno famoso ma non troppo, costoso ma non troppo: bisogna essere prudenti, non si deve fare il passo più lungo della gamba.
La casa discografica va a prendere i ragazzi in limousine per portarli alla festa per la firma del contratto.
Il disco viene prodotto e vende bene: un quarto di milione di copie.
E la band, dice Steve Albini, è spacciata.
Alla fine della fiera, hanno preso una valanga di soldi come anticipo, $250.000.
Ma la verità è che non basta a coprire tutte le spese.
Perché le spese non le paga la casa discografica, vengono detratte dal guadagno dei musicisti. Steve Albini mostra un elenco dettagliato di tutti i costi: la fetta del manager (ricordate quel misero 15%?), le spese legali, la strumentazione professionale nuova di pacca e l’intervento dei tecnici per tutta questa roba, l’anticipo per il produttore, l’affitto dello studio, il costo dei nastri col master, vitto e alloggio per i giorni in cui si incideva, la produzione del videoclip e tante altre voci.
La band, dice Albini, «ha reso l’industria musicale più ricca di oltre 3 milioni di dollari. I membri della band, invece, hanno guadagnato ciascuno circa 1/3 di quanto avrebbero guadagnato con un lavoro part-time». In breve si ritrovano senza un soldo e l’unico modo che hanno per guadagnare altri è cercare di fare un nuovo album il prima possibile.
E così il circo ricomincia.
Tiriamo le somme
The Problem with Music deve essere contestualizzato al periodo storico in cui fu scritto e alla figura e al pensiero di Steve Albini.
Dobbiamo tenere presente che si riferisce fondamentalmente al mercato della musica alternativa degli anni ’90 negli U.S.A..
Cosa significa «musica alternativa»?
Il concetto di «alternativa» è nato alla fine degli anni ’70 con il movimento punk rock e non si riferiva solo al tipo di musica ma anche al modo in cui questa veniva prodotta e distribuita. Uno dei concetti chiave del movimento punk era quello del DIY (do it yourself, letteralmente «fattelo da solo»).
In pratica le band si autoproducevano e si autodistribuivano. Oppure si affidavano a piccole etichette messe in piedi con pochi soldi, il cui proprietario si occupava personalmente di spedire o portare a mano le copie nei negozi.
Tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 le major capirono che c’era un potenziale commerciale in quel tipo di musica e cominciarono a offrire contratti discografici alle band più promettenti. Era già successo in passato, ma è in quel periodo che il fenomeno si è esteso come mai prima. È così che il cosiddetto alternative rock è entrato nei circuiti mainstream, nelle catene di negozi di dischi, nelle radio e su MTV (in Italia avevamo Video Music).
Gruppi che fino a un anno prima erano noti solo a una cerchia ristretta di appassionati, da un giorno all’altro finivano in heavy rotation sulle televisioni di mezzo mondo.
Una roba del genere oggi è inimmaginabile. Le cifre di cui parla Albini in The Problem with Music sono impensabili per il contesto odierno, specie in Italia. Le registrazioni musicali sonno diventate molto più economiche da produrre, ma anche infinitamente meno redditizie.
Al giorno d’oggi, per chi fa musica non-pop è sostanzialmente impossibile stipulare un contratto con una major.
Finché il mercato discografico è stato un posto dove i soldi si facevano con la pala, le major potevano permettersi di investire denaro in una band di musica «alternativa». Come spiegava Albini, i musicisti avrebbero quasi certamente fatto la fame, ma l’etichetta difficilmente sarebbe andata in perdita.
Ma non siamo più negli anni ’90.
Se non hai il potenziale per essere la nuova Annalisa o i nuovi Pinguini Tattici Nucleari o, peggio, neanche ti interessa diventarlo, una major non investirà su di te.
Al netto di tutto questo, ci sono un paio di spunti di riflessione che si possono trarre da The Problem with Music.
Vale la pena fare un contratto discografico?
Come abbiamo visto nella prima puntata di questa trilogia, Steve Albini era principalmente un produttore di band e cantanti di musica «alternativa».
Ed era un punk rocker lui stesso.
La sua band, The Shellac, si autoproduceva e si promuoveva autonomamente prendendo direttamente contatti con i locali. Con ottimi riscontri numerici.
Se teniamo in considerazione questo, ovviamente per Albini un contratto discografico era qualcosa di assimilabile a una truffa. Era Olio di Serpente, venduto da un manipolo di imbonitori da fiera senza scrupoli.
Non mi intendo di contratti discografici, anche io mi sono sempre autoprodotto e l’unica volta che ho contattato un’etichetta discografica è stato per errore (un giorno magari lo racconterò). So che oggi esistono varie tipologie di contratti discografici, tuttavia temo che quelli offerti dalle major siano ancora abbastanza simili a quello spiegato da Albini in The Problem with Music.
Per chi fa musica indie o alternativa o chiamatela-come-vi-pare, cercare l’intermediazione di un’etichetta discografica, oggi, non è l’unica soluzione possibile, tutt’altro. E non è una cosa che vale solo per il punk rock.
Per fare qualche esempio celebre, John Fahey ha prodotto quasi tutti i suoi dischi attraverso l’etichetta da lui stesso fondata, la Takoma Records. Questi album erano spesso registrati in modi avventurosi o con attrezzatura prestata.
Gli Ozric Tentacles sono andati avanti per tutta la seconda metà degli anni ’80 autoproducendo i loro album e vendendoli in formato audio cassetta direttamente ai fan durante i concerti. Anche se vengono indicati nelle discografie ufficiali come «demo tape», erano album a tutti gli effetti. A quel tempo non esisteva internet, eppure gli Ozric sono riusciti a diventare famosi facendo una musica totalmente fuori moda per la loro epoca, semplicemente suonando dal vivo e vendendo album autoprodotti.
Nei primi anni 2000 i The Knife sono riusciti a far conoscere in tutto il mondo la loro musica elettronica stranissima, autoproducendosi e autopromuovendosi tramite un’etichetta fondata da loro stessi (Rabid Records).
Questi sono solo alcuni esempi di musicisti che ammiro, se ne potrebbero fare molti altri. Ma attenzione: autoprodursi e autopromuoversi non è una roba facile.
Ad ogni modo, se certe cose erano possibili venti o quaranta o cinquanta anni fa, tanto più lo sono oggi.
Di questi argomenti parleremo meglio nella prossima e ultima puntata della trilogia dedicata ad Albini, ma già in the Problem with Music troviamo il nòcciolo della questione: un contratto discografico non è punto di arrivo; nella migliore delle ipotesi è un punto di partenza, nella peggiore è olio di serpente.
Dobbiamo sempre tenere a mente una regola aurea di qualsiasi impresa: più elementi ci sono in ballo, più è facile che qualcosa vada storto.
Questo non significa che una cosa molto complicata non debba mai funzionare: gli aerei di linea sono molto complicati, ma di solito arrivano a destinazione. Tuttavia, per far volare un aeroplano senza incidenti ci vogliono un sacco di persone e un sacco di soldi e se i posti a sedere restano invenduti non è possibile mantenere tutta la baracca.
Un contratto con una major ha tanti, tanti passaggi e tanti, tanti attori. Se funziona può portare alla fama ma, se qualcosa va storto, il primo a rimetterci è il musicista.
Se il nostro scopo non è vincere Sanremo o riempire i palazzetti, ci sono altre soluzioni possibili che potrebbero assicurarci di sbarcare il lunario o di continuare a fare musica con soddisfazione, al limite come secondo lavoro affiancato a un part time con un contratto stabile.
Quello che qualsiasi musicista deve chiedersi è: cosa mi fa stare bene? Cosa mi rende felice?
Una volta comprese le priorità, le scelte possono apparire più semplici.
Non seguire le mode
Infine, l’intermezzo di The Problem with Music dedicato alla produzione musicale non è meno interessante.
Qui Steve Albini parla di come i produttori musicali ficchino effetti alla moda ovunque possano e convincano i musicisti a conformarsi alle tendenze del momento.
Ricordiamoci sempre che lo scopo di chi finanzia e produce musica non è portare arte, oroginalità o bellezza nel mondo. Il suo scopo è vendere.
E il modo più sicuro per vendere un prodotto è conformarsi alle mode.
Basta pensare a quello che accade oggi in Italia nel mercato del pop.
Ci avete fatto caso a quanto le canzoni di successo del mercato mainstream italiano si assomiglino? Non vi capita mai di sentire lo stesso identico effetto sonoro in due o più canzoni? Vi ricordate del periodo in cui non c’era ritornello senza auto-tune? E quando imperversava ovunque il reggaeton? E la fase anni ’80/italo disco?
E non è solo questione di mercato mainstream.
Guardo un sacco di canali YouTube dedicati alla chitarra e vedo valanghe di video (con valanghe di visualizzazioni) dedicati al nuovo modeler di amplificatori, al nuovo effetto alla moda, al confronto tra questo e quello.
Quante ore e ore di video noiosissimi e tutti uguali sugli argomenti di tendenza. Sui forum si trovano discussioni infinite per stabilire se è meglio il tale marchio o il talaltro. E poi c’è tutto l’ecosistema fatto di endorsement e sponsorizzazioni che vive stimolando la sindrome da acquisto di attrezzatura (G.A.S.) degli appassionati di musica. Compra questo, che è meglio di quell’altro, anche se poi il tale chitarrista famoso lo usa con questa chitarra su cui ha montato quest’altro pickup e però se vuoi avere il vero sound crunchy rusty warmy bluesy e twangy devi comprare questo questo e quest’altro ancora.
Ma che due palle.
Date retta al vecchio Steve: non fatevi ossessionare dalle mode, non vi fate rincoglionire di parole che non significano niente. Non vi servono le astronavi per fare musica e non succede niente se vi siete persi il trend del momento.
Tutto quello che vi occorre è uno strumento decente e la voglia di farlo suonare.
Siate voi stessi. Non avete bisogno di fare quello che fanno gli altri, della legittimazione dei mass media, di far finta di essere ricchi o di indossare le paillettes.
Trovate la vostra voce, esprimetevi come cazzo vi pare, senza paranoie.
E poi cercate un pubblico, non un contratto.
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