A detta di quelli che di marketing musicale se ne intendono, la cosa più importante che un musicista deve fare, prima ancora di cercare un palcoscenico, è preparare una definizione della propria musica. Che deve essere rigorosamente semplice, chiara e breve. Dovrai avere la risposta pronta quando qualcuno ti chiederà:
«Che genere fai?»
Non sia mai che rispondi:
«Beh, dovrei fartelo ascoltare.»
Mica pretenderai che la gente si arrischi ad ascoltare della musica senza prima sapere a cosa va incontro?
Saper vendere il prodotto è più importante del prodotto in sé.
Avvilente ma così va il mondo.
Ora, nel mio caso si tratta di spiegare che suono la Chitarra e a volte ci canto sopra dei versi, una forma d’arte che risale alla notte dei tempi. E uno direbbe che è semplice.
Invece non è così, perché l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha una parola precisa per definire questa cosa.
Come direbbe Magnum P.I: so cosa state pensando.
State pensando alla parola cantautore. Ma io non la digerisco.
Negli anni ’50, in italia, l’idea che uno si prendesse la briga di comporre personalmente le canzoni che voleva cantare, visto che poi ci avrebbe messo la faccia e la voce, era considerata una bizzarria, roba da alternativi.
C’erano dei personaggi famosi che lo facevano, come Modugno, o che l’avevano fatto in passato, come Petrolini, ma non era la norma. Parliamo dell’Italia del boom economico: la catena di montaggio, sinonimo di modernità, andava applicata anche alla canzone.
Ci voleva uno specialista per scrivere i versi, un altro per comporre la musica, uno per cantare e fare presenza scenica e vari altri per suonare.
Se qualche fricchettone, però, voleva avere successo facendo tutto di testa sua, ci voleva uno slogan, un’etichetta, una definizione che lo facesse apparire innovativo, un qualche tipo di genio.
Nel ’59 Ennio Melis (giovane ex segretario del Papa) e Vincenzo Micocci, dirigenti della americana (90%) e vaticana (10%) RCA Italia, inventarono il termine cantautore per lanciare Gianni Meccia (il pullover che m’hai dato tu, taratatta tara…).
Descrivere la bruttezza di questa parola è difficile. Non è neanche originale, plasmata com’è sui preesistenti cantastorie e Cantacronache (un gruppo di musicisti, loro sì geniali, nato nel ’57).
Cantautore suona cretino e pomposo al tempo stesso. Oltre al fatto che oggi non dà alcuna indicazione, visto che da Pezzali a Battiato, da Guccini ad Apicella sono tutti “autori” che “cantano”.
Il paragone con le altre lingue è avvilente.
Basta pensare alla bellezza del francese chansonnier. In italiano andrebbe tradotto con canzoniere, ma ve lo immaginate?
Domanda: «Che fai?»
Risposta: «Il canzoniere.»
E l’inglese songwriter? Gli anglofoni sono maestri della sintesi: scrittore di canzoni. Ma sempre intraducibile.
Ci sono alcuni che, per uscire dalla impasse, si inventano definizioni nuove buttandola in poesia: cantante poeta, musicista poeta e simili.
Invidio l’alta stima che hanno di sé queste persone, ma definizioni del genere non sembrano molto pratiche.
Domanda: «Che fai?»
Risposta: «Il cantante poeta.»
Vero è che la globalizzazione internettiana sta ormai imponendo la terminologia anglofona: dai programmi di editing audio alle piattaforme di condivisione musicale, il termine folk sta decisamente prendendo il sopravvento. Quando devi scegliere un tag per musica come la mia, è quello l’unico disponibile.
In genere non amo gli americanismi ma, in mancanza di un termine italiano, accetto volentieri questa parola concisa, facile e non priva di un certo fascino.
Non di rado, però, ancora oggi capita di trovarsi davanti delle facce perplesse: che vuol dire folk?
«Suono la Chitarra, musica ispirata alle tradizioni orali, a volte ci canto sopra dei versi.»
«Ah, sei un cantautore! E che tipo di canzoni canti?»
E io rispondo con grande sicumera:
«Canzoni in italiano.»
Vuoi perché titilla l’ardore patriottico, vuoi perché tranquillizza l’interlocutore poco avvezzo alle robe stran(ier)e, questa risposta senza senso è considerata sempre più che soddisfacente.
Sarà perché, come dicono gli specialisti della comunicazione, non conta cosa dici ma come lo dici; o perché il senso della comunicazione sta nella risposta che ottiene.
Io, più prosaicamente, lo chiamo: avere faccia di culo.
Ecco, secondo me, prima ancora di cercare un palcoscenico e anche prima di inventare una definizione per la propria musica, bisogna fare questo: allenarsi ad avere la faccia di culo.
È davvero molto importante.