Uno dei ricordi più vividi della mia tarda adolescenza risale a una mattina di aprile del 1994. Immagino fosse il giorno 9. Mia madre e mio padre avevano (ce l’hanno ancora? devo chiederglielo) l’abitudine di accendere la radio in bagno, mentre si preparavano per andare a lavorare.
Ciabattavo giù per le scale, per andare a fare colazione. Quando incrociai mia madre, mi diede questo buongiorno:
«È morto Kurt Cobain!» Me lo disse così, col punto esclamativo, perché lo sapeva che mi piacevano i Nirvana.
Credo che fosse il 9 aprile perché il corpo fu scoperto il giorno 8. Poi si è stabilito che quasi sicuramente il decesso era avvenuto il 5.
Il 22 febbraio ero stato al concerto al Palaghiaccio di Marino. Non ho bei ricordi di quel concerto. L’ingresso fu un delirio di disorganizzazione. Ci lasciarono tutti pressati fuori dai cancelli per un tempo che parve infinito, una cosa che violava ogni regola del buonsenso e probabilmente diverse regole di sicurezza. Tutti spingevano come pazzi e si creò una ressa assurda. Eravamo talmente spiaccicati gli uni contro gli altri che se sollevavo i piedi non cadevo, letteralmente. Se ci fosse scappato il morto non mi sarei stupito. Quanto a Cobain non mi parve in forma e oggi trovo conferma alla mia impressione dell’epoca nei racconti di amici e giornalisti.
Una settimana dopo tornò a Roma per una vacanza e finì su tutti i giornali perché era andato in overdose. Lo riacchiapparono per i capelli, come si suol dire. Un mese dopo si suicidò. Cioè, c’è ancora chi parla di omicidio (pare che debba uscire un nuovo film sull’argomento). Diciamo solo che è morto per un colpo di fucile, che è comunque una morte orribile.
Spiegare cosa hanno rappresentato i Nirvana per la mia generazione è impossibile (dove per mia generazione intendo quelli che sono stati adolescenti più o meno nella prima metà degli anni ’90). Non eravamo sicuri di niente, ma di certo non ci incantavano i lustrini. (Vabbè, c’erano pure i fan dei Take That, ma noi eravamo tanti). I Nirvana furono i capofila di un’ondata di band che ha ridato vita alla musica rock, forse per l’ultima volta, grazie a un’etica punk che loro coltivavano fin dagli anni ’80, ma che da noi arrivò solo 5-10 anni più tardi. Questa cosa l’ha sintetizzata in modo perfetto il blogger di Bastonate Francesco Farabegoli (ma la frase l’ho trovata scritta qui):
[I Nirvana] ri-introdussero su larga scala l’idea di alzarsi al mattino, mettersi una maglietta che hai in casa e attaccare la chitarra a un amplificatore. Che secondo me è molto meglio di, non so, avere i pantaloni di pelle attillati e i cannoni che sparano i fuochi d’artificio sul palco.
Beh, non furono solo i Nirvana, ovviamente, era tutto un filone musicale che aveva in Seattle il suo epicentro ma che attraversava tutti gli Stati Uniti e di rimbalzo investì anche il nostro paese. Comunque, il punto è questa cosa della chitarra e della maglietta. Non è che non avessimo anche noi i nostri feticci. Indossavamo tutti anfibi Dr. Martens e camicie di flanella. Ma di certo non ci avrebbe mai attraversato l’anticamera del cervello l’idea che per fare i musicisti dovevamo metterci un gilet di pelle in stile Piero Pelù o un cappello a cilindro tipo Slash. Anche una cresta da moicano ci sarebbe sembrata una scemenza. Quello che contava era avere una chitarra funzionante, un cavo e 10mila lire per pagare la quota della sala prove.
Ci interessava quel suono. Un suono senza fronzoli, potente, sincero. Quello che Cobain, dopo il fin troppo leccato Nevermind, cercò ostinatamente di ritrovare, riuscendoci, contro il parere dei discografici e della moglie. E che ha caratterizzato l’album che secondo me sintetizza l’essenza stessa degli degli anni ’90: In Utero. Quel suono che, si dice, sperava lo avrebbe allontanato dal successo planetario, riconsegnandolo alla dimensione dei piccoli club e delle piccole etichette.
Non accendo un amplificatore da anni (vabbè, non è del tutto vero, ma quando lo faccio è solo per esigenze di didattica): ora ho questa mania dei suoni acustici, un rifiuto degli artifici elettrici ed elettronici. Vi sembrerà una cavolata ma, che ci crediate o no, questa crisi da musicista di mezza età è figlia di quegli anni. Non a caso in quel periodo MTV ebbe l’idea dei concerti unplugged e non a caso funzionò benissimo proprio con quelle band. Questo bisogno di sonorità nude e crude viene da quell’ultima utopia rock, da quel dito medio alzato contro lo star-system che ci vuole luccicanti, pulitini e pronti a vendere il culo.
I Nirvana (e tutti gli altri) da quello star system sono stati assorbiti (come tanti prima di loro), perché qualcuno fiutò l’affare dietro le Fender vintage e i maglioni infeltriti. E infatti, comunque sia andata, Kurt Cobain è morto di questo.
Direi che oggi un rischio così non lo corriamo più.
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Guido says
Ho iniziato a suonare la chitarra da autodidatta circa un anno fa ed è da un paio di mesi che vado a lezioni da un maestro, ma se avessi scoperto questo blog un po’ di tempo prima probabilmente avrei evitato.
La cosa che mi stupisce è come luca riesca a mescolare teoria, pratica, curiosità musicali e consigli utili per tutti i chitarristi (principianti e non) in un modo così semplice ed efficace che anche un profano dello strumento si appassionerebbe subito.
Un blog efficace, capace di formare un chitarrista “Tuttotondo” (lasciatemi passare il termine).
Luca Ricatti says
Guido, ti ringrazio davvero per le tue bellissime parole.
Però non mollare le lezioni dal vivo col tuo maestro, è importantissimo confrontarsi di persona con qualcuno.
Io non sarei arrivato qui senza 4 anni di lezioni individuali quando ero ragazzo.
Pensa a questo blog come uno strumento aggiuntivo, per chiarire dubbi o trovare nuovi spunti.
Ancora grazie per il feedback, sei un grande.