Elena Di Porto era povera, senza cultura, ebrea, ultima degli ultimi. Ma era pronta a combattere da sola contro un esercito. Ovviamente la chiamavano Matta.
Elenuccia, dicevano i conoscenti, un diminutivo affettuoso per stemperare quel matta che aggiungevano subito dopo.
Elenuccia ‘n corno!
Come vedremo tra breve, in questa storia i normali sono quelli che restano a testa bassa, non protestano e pensano che tutto si aggiusti col tempo.
Matto è chi tiene la testa alta e gli occhi ben aperti.
La nostra storia inizia in questo modo.
C’è un vecchio che si è messo nei guai. Si è fatto vedere da un paio di fascisti mentre acquistava in edicola una copia de L’Osservatore Romano.
Razze
Se dovessimo stilare una lista di giornali da rivoluzionari, l’ultimo a cui penseremmo forse sarebbe L’Osservatore Romano, che è il giornale della Santa Sede.
Ma la storia che stiamo raccontando è ambientata tra gli anni ‘30 e ‘40, in piena era fascista, e a quel tempo ci vuole poco a sembrare rivoluzionari.
Anche perché tra la Chiesa e il Governo fascista c’è un po’ di attrito.
Nel ’38 sono entrate in vigore le Leggi razziali.
Il Papa ha dichiarato pubblicamente di non capire perché l’Italia debba mettersi a copiare la Germania e che esiste un’unica grande razza umana. Cosa che fra l’altro è una verità scientifica.
Ma alle camicie nere non interessano le verità. Alle camicie nere piace menare le mani.
L’acquisto di un giornale equivoco è un motivo più che valido. Oltretutto, un pacifico vecchietto è una preda perfetta.
Menà le mano
L’hanno sbattuto al muro, gli hanno strappato il giornale e gli hanno tirato un paio di schiaffi.
Il vecchio è terrorizzato.
Elena Di Porto passa di lì per caso.
Come dicevamo, è matta: non sta a testa bassa, non pensa che tutto si aggiusti col tempo. Lancia un grido:
«Ahó!».
A Roma, un «Ahó!» può significare un sacco di cose. Dipende dall’intonazione.
Quello di Elenuccia la Matta è un «Ahó!» di guerra.
Afferra la mano di uno dei due fascisti.
Quello non fa in tempo a voltare la testa che gli arriva una sberla dritta in faccia. Poi un’altra e un’altra.
Il compare rimane di sasso, fa per intervenire, ma gli arriva un calcio su una tibia, piega la testa in basso per il dolore, ma incontra un montante corto e veloce che lo centra sul naso. Il primo ha la guancia in fiamme per gli schiaffi, gli esce qualcosa dalla bocca, un insulto:
«Puttana ebre… »
L’ultima sillaba gli viene ricacciata in gola da un diretto di destro.
Questi due fascisti si sono fatti menare da una donna.
«Te conosciamo, ebrea!» gridano. «Nun finisce qua!»
Elena ha le nocche della mano destra in fiamme. Ma in corpo ha una rabbia che brucia molto più forte. Ha strappato dalle mani di uno dei due un manganello. Lo punta a terra, ci mette un piede sopra, spinge con tutto il peso del corpo e lo spezza.
È abbastanza per zittirli definitivamente. Si voltano e scappano.
Nun finisce qua
La minaccia di un fascista non è una cosa da prendere alla leggera.
Sono passati pochi giorni da quell’episodio. Ora Elena Di Porto è legata mani e piedi. È la quarta o quinta sigaretta che le spengono addosso, ha perso il conto, ha preso troppi schiaffi per continuare a pensare.
L’hanno portata al carcere di Regina Coeli e chiusa in una stanzetta. L’hanno picchiata per ore.
«’Ndo lo infilamo, mó, sto manganello?», ridacchia uno dei torturatori. Poi tira l’ennesimo schiaffo.
Elena non riesce nemmeno più ad aprire gli occhi.
«Je dovemo dà na lezione, mica la dovemo ammazzà!», lo interrompe un camerata che assiste seduto, coi piedi sulla scrivania. «È na matta, lo sanno tutti»
«Puro i matti se devono imparà», risponde l’altro, mentre le struscia il manganello tra le gambe.
«I matti sì, ma i morti nun imparano gniente. Da’ retta a me, la ribbuttamo ancora viva in mezzo alla Piazza, così se impara lei e tutti quelli che la vedono».
Pugili
La ributtano in mezzo alla Piazza, Elena Di Porto.
La Piazza, a quel tempo, è come chiamano Via del Portico d’Ottavia, la via centrale del Ghetto di Roma.
Ma non ce la lasciano per molto, nella Piazza.
Qualche settimana dopo la arrestano di nuovo. Elena s’è fatta beccare mentre distribuiva volantini antifascisti al mercato.
Stavolta la spediscono al confino coi suoi due figli. E ci rimane fino alla caduta del Fascismo.
La prima tappa è una località vicino Porto Recanati, dove ci sono delle palestre di pugilato e dove spesso i pugili si recano per fare i ritiri sportivi.
Per cinque anni, lontana dalla sua città e dal resto della sua famiglia, lavora per mantenere i bambini, ai quali infila i guantoni da box e li fa allenare. Devono sapersi difendere.
Anche quando verrà allontanata da Porto Recanati e mandata in altre località. È una testa calda, incapace di tenere un profilo basso. Dovunque la portano litiga coi fascisti, crea problemi. E dove trova una palestra, ci porta i figli.
E i giovani pugili si avvicinano, la ascoltano, le chiedono consigli. Ha un incredibile talento da allenatrice.
A Elena piace la box.
È piuttosto diffuso il pugilato, tra gli ebrei poveri di Roma.
C’è una storica palestra in Piazza Lovatelli, proprio dove sta la sede del Fascio, in cui si disputano incontri sempre affollati di pubblico. Anche a Elena sarebbe piaciuto pugilare, ma non è cosa da donne.
Chissà come, però, impara le tecniche. Sa tirare dei pugni perfetti, sa come far partire l’energia dai piedi, come sfruttare il movimento d’anca, come allungare la spalla per aumentare la profondità del colpo. Forse perché ha visto molti incontri, forse perché va ad assistere agli allenamenti nella palestra di Piazza Lovatelli.
Molti ebrei si allenavano lì, prima.
Prima del ’38.
Ma d’altra parte Elena fa molte cose che le brave donne non fanno.
Fuma, gioca a stecca. E indossa i pantaloni come un uomo.
Contro gli uomini
I bambini stanno giocando a palla per la strada. È un pomeriggio di quelli romani, con un sole dorato che attraversa i vicoli, mentre la gente torna dalle incombenze quotidiane e si prepara a incontrarsi a tavola.
I ragazzini corrono e urlano. Devono sfruttare fino all’ultimo secondo possibile per giocare.
Non hanno una palla vera, è una palla di carta e spago. Per loro è ovviamente preziosissima.
A un certo punto, rotola vicino ai piedi di un uomo, che si piega e la raccoglie. Ha una pancia enorme, uno stomaco probabilmente gonfio dal troppo bere.
«Questa la prendo io.»
I bambini restano ammutoliti. Vorrebbero protestare, ma non hanno il coraggio. L’uomo è una camicia nera.
«State a ffà troppa caciara. Questo si chiama disturbo d’aa quiete pubblica. Le palle nun se ponno tené.»
Uno dei bambini si stacca dal gruppo, scappa verso alcune donne ferme fuori da un portone.
«Cià preso la palla!», dice.
Tra quelle donne c’è Elena Di Porto.
Una di loro prova a fermarla. La prende per un braccio:
«Nun fà scemenze!»
Elena si divincola e arriva a grandi passi davanti all’uomo.
«Ahó! Ma che t’aa prendi coi ragazzini?»
Lui la squadra da capo a piedi, con un mezzo ghigno di scherno:
«Io nun ce discuto co le donne. Vamme a chiamà tu marito.»
Elena cambia espressione, all’improvviso. Rilassa le spalle e sorride, chinando la testa da una parte. Fa per voltarsi.
E poi lancia un destro, rapido come una scheggia.
Centra l’uomo sullo zigomo sinistro, quello barcolla e rovina a terra. Il peso della sua pancia gigantesca lo fa schiantare con uno spaventoso tonfo sordo.
«Io nun cell’ho più un marito», borbotta Elena fra sé e sé con soddisfazione mentre si allontana. Il polso fa male e il dolore aumenterà nei prossimi giorni, ma è soddisfatta.
Non ce l’ha un marito, l’ha lasciato lei. A Elena Di Porto nessuno dice cosa deve fare.
Il fascista andrà in giro a raccontare di essersi fatto l’ematoma sullo zigomo combattendo con dieci misteriosi anarchici, di notte. Per sua fortuna, nessuno potrà vedere l’oltraggio peggiore: un enorme, doloroso livido sul culo.
Il ’38
Fino al ’38 fascisti ed ebrei frequentavano gli stessi posti. Molti ebrei avevano appoggiato il fascismo. E quando arrivarono le leggi razziali pensarono: è solo per accontentare Hitler, Mussolini non lascerà che ci venga fatto del male.
Poi i pugili dovettero smettere di allenarsi in Piazza Lovatelli, i bambini dovettero lasciare le scuole per «ariani». Si veniva licenziati da posti in cui si lavorava da una vita. C’erano negozi che non vendevano merce agli ebrei.
Cominciarono gli sfottò, le aggressioni.
E allora molti dissero: stiamo calmi, restiamo in silenzio, non protestiamo, così vedranno che siamo brava gente e la smetteranno. Siamo italiani come loro.
Elena Di Porto a queste cose non ci ha mai creduto.
Elena Di Porto ha sempre saputo che i fascisti sono razzisti come i loro amici tedeschi.
La cosa più logica da fare, per lei, è mandare i suoi bambini in una palestra a imparare a tirare pugni.
Ma abbiamo detto che Elena Di Porto è matta.
I normali restano a testa bassa e aspettano che tutto si aggiusti.
Arrivano i Tedeschi
Il 10 luglio gli Alleati sono sbarcati in Sicilia.
Passano solo nove giorni e succede qualcosa che sconvolge tutto il paese.
Succede che il 19 luglio centinaia di bombardieri americani sganciano quattromila bombe su Roma.
Quattromila, in un giorno solo.
Tremila morti e diversi quartieri rasi al suolo.
La capitale d’italia è nel terrore.
È il colpo di grazia per il governo di Mussolini, che un paio di settimane dopo viene destituito e arrestato.
L’8 settembre il nuovo Governo guidato dal Generale Badoglio firma l’armistizio con gli Alleati. A questo punto l’Italia diventa un campo di battaglia, una terra da conquistare. E i tedeschi decidono di prendersi Roma, prima che arrivino gli anglo-americani.
Per gli ebrei significa cadere dalla padella alla brace.
Prendere le armi
Notte fonda.
Sono in quattro: Elena Di Porto e tre ragazzi iscritti al clandestino Partito Comunista.
Uno di loro sta armeggiando con un piede di porco. Ma quel diavolo di serratura non cede. Sono giovani, non hanno mai fatto uno scasso. E stanno facendo un rumore infernale.
«Ma che è sta caciara?», grida un uomo. Ha spalancato la finestra, svegliato dal frastuono.
«Sbrìgate!», incalza Elena.
«Nun se apre, sta maledetta!», risponde il giovanotto.
«Ma che state a ffà?» insiste l’impiccione alla finestra. «Ahó, chiamate ee guardie! Stanno a rubbà!»
«Sbrìgate!» incalza Elena.
«Nun ce riesco!»
Passi arrivano di corsa attraverso il vicolo. Sono poliziotti.
«Via, via, che ce se bevono!»
«Guardie! Stanno a scappà! Sò iti de llà, pe le scalette! Sò tre maschi e na femmina!»
Dopo cinque anni di confino, alla caduta di Mussolini, Elena Di Porto aveva deciso di tornare a Roma.
Era arrivata la notizia che i tedeschi stavano arrivando e gruppi spontanei di persone avevano deciso di organizzarsi per fermarli.
Chissà come, Elena Di Porto era entrata in contatto con alcuni comunisti e li aveva convinti a scassinare un’armeria: non potevano mica affrontare i Tedeschi a mani nude.
Ma viene arrestata insieme ai suoi compagni.
Nessuno sa perché, però la rilasciano subito. Forse perché la credono matta davvero.
Così, quando il giorno dopo, il 10 ottobre, i nazisti arrivano a Porta San Paolo, Elena Di Porto va a combattere coi partigiani e qualche sgangherato reparto dell’esercito italiano.
Ma non c’è nessuno a guidarli, non c’è un comando militare che dica loro cosa fare, sono cittadini affamati, con poche armi e senza esperienza. Vanno ad affrontare l’esercito più pericoloso del mondo come possono, chi con una pistola, chi con un vecchio fucile arrugginito.
Roma è invasa
I tedeschi si prendono Roma.
Hanno liberato Mussolini e l’hanno messo a capo di un governo fantoccio, la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana.
Gli ebrei sono stati dichiarati cittadini stranieri e nemici.
Sulla città c’è una cappa di paura.
Mussolini non mette piede in città, se ne sta arroccato nel nord Italia.
A governare ci sono i nazisti, con l’aiuto di bande di fascisti della prima ora, rozzi squadristi disposti a vendere il vicino di casa per un po’ di bella vita: una cena al ristorante, un’ora con una prostituta.
Gli ebrei vivono nel terrore.
Passi nella pioggia
Piove, è notte.
Sui sampietrini bagnati è facile scivolre, ma Elena Di Porto cammina con passo fermo e sicuro. Ha uno scialle sulle spalle e i capelli raccolti in un crocchia ben stretta.
Arriva davanti a una porta e bussa forte.
Nessuno apre, lei insiste.
La porta rimane chiusa, ma da una finestra del primo piano si affaccia un ragazzino.
«Ndo sta tu padre?», chiede.
Poi va a bussare a un’altra porta e poi a un’altra.
Nel giro di mezz’ora raduna molti dei capofamiglia del Ghetto, nel buio di un vicolo. C’è anche il Capo Rabbino di Roma. Ha spiovuto, ma riprenderà presto.
«Arìvano i Tedeschi», dice senza troppi giri di parole.
Elena la Matta non fa che parlare dei Tedeschi, è un chiodo fisso, lo sanno tutti.
«Vengono domani mattina, all’alba. Ciànno na lista», dice. «Ducento ebrei da portà via co tutte le famije!»
Mormorio generale.
«È impossibile, j’abbiamo dato i cinquanta chili d’oro c’hanno chiesto! Se semo venduti tutto, nun ciavèmo più gniente!»
«C’è un accordo!»
«Ma chi te l’ha detto?»
«Er marito de la Signora indove faccio servizio», risponde Elena Di Porto. «Sto marito è un carabiniere. Ha parlato co un tedesco che j’ha fatto vede la lista. Vengono a prenne tutti, pure e creature!»
Elena è matta. Ha fatto a botte coi fascisti, l’hanno arrestata, mandata al confino. Dicono che è andata a sparare ai tedeschi il 10 ottobre. Ha due figli, poteva farsi ammazzare.
«Ma perché se dovrebbero prenne donne e bambini? Che cce fanno?»
«I bambini mica sparano!», dice qualcuno. «Che ce li mànnano a ffà in un campo de concentramento?»
Sterminio
Facciamo un passo indietro.
Tutti sapevano che i Tedeschi mandavano la gente nei campi di concentramento.
Quando oggi pensiamo a un campo di concentramento, la mente va subito alle camere a gas in cui venivano massacrati gli ebrei.
Ma non è così. In un campo di concentramento si rinchiudono i soldati nemici, gli uomini capaci di lavorare. In un campo di concentramento non si ammazzano milioni di persone.
Per fare questo serve un campo di sterminio.
Ma la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 1943, a Roma, nessuno immagina che il governo nazista abbia creato dei campi di sterminio. Nessuno immagina che i Tedeschi abbiano pianificato una pulizia etnica su scala industriale.
Nessuno riesce a pensare una follia simile.
Se ne vanno e la lasciano sola, Elena Di Porto detta la matta. Ha ripreso a piovere.
I normali vanno a coricarsi a letto.
Ma lei non rimane a guardare le loro schiene che si allontanano. Si volta, va dritta a casa a prendere i suoi figli e sparisce nella notte.
16 Ottobre 1943
Sembrano cani furiosi che abbaiano. Gridano nella loro lingua straniera e sfondano le porte.
Sono passate solo poche ore dai passi di Elena Di Porto sui sampietrini bagnati del Portico d’Ottavia.
Ora ci sono stivali che salgono gli scalini due a due, torce che vanno a caccia nel buio e che puntano in faccia.
C’è chi prova a nascondersi, chi viene sorpreso sotto le coperte. C’è chi riesce a scappare, ma poi va a sbattere contro i soldati all’uscita di un vicolo, all’imbocco del Lungotevere.
C’è chi lascia la porta di casa aperta e poi si rinchiude in bagno con tutta la famiglia, per far credere di essere fuggito. Ma poi viene tradito da una ragazzina che scappa fuori in preda a un terrore isterico.
I suoni che si sentono sono questi: porte che sbattono, grida in tedesco, donne che urlano suppliche e bambini che piangono.
Bambini che piangono.
I nazisti le sanno progettare le retate.
Arrivano mentre tutti dormono, chiudendo tutte le vie di fuga, con una lista di indirizzi per andare a colpo sicuro.
Mettono tutti in fila per strada, coi fucili spianati.
Uomini, donne, vecchi e bambini.
Chi prova a scappare si prende il calcio del fucile dietro la nuca e calci nel ventre.
Combattere, sempre, a testa alta
È l’alba.
Elena Di Porto è in salvo. Ma continua a pensare alla sua famiglia, a sua sorella, ai suoi nipoti.
Quella famiglia che l’ha rimproverata, scacciata.
«Ce metti nei guai a tutti!», le dicevano.
Quella famiglia che non le ha creduto, come tutti gli altri.
Esce in strada, cammina a grandi passi e arriva al Portico d’Ottavia.
Me è tardi.
I camion sono già carichi di gente, pronti a partire. Vede sua sorella, corre in un ultimo gesto disperato.
Le afferra la mano. Un nazista urla, cerca di cacciarla a pedate.
«Io sò ebrea, no loro! A me, me dovete prenne a me! Questi nun c’entrano gniente!»
Il camion si ferma, alcuni soldati scendono. Afferrano Elena Di Porto e la caricano sul camion, insieme a tutti gli altri.
I mezzi camminano in una lunga colonna.
Elena stringe la sorella tra le braccia.
Ha una morsa allo stomaco e continua a pensare ai suoi figli. Ma il suo viso è una maschera di orgoglio.
«E che te pensavi davero che te lasciavo da sola co ste bestie?», dice.
Poi vede un movimento con la coda dell’occhio, per la strada, nella luce del primo sole, tra le ombre lunghe degli alberi del lungotevere. È un bambino. Si sta avvicinando, lo conosce, è il nipote di suo marito.
Gli fa un gesto con le braccia: scappa, scappa!
Il bambino si fida. E scappa.
Ai bambini non importa se ti chiamano matta, sanno leggere il cuore molto meglio degli adulti.
Due giorni
1022 persone.
Le hanno portare in una caserma a Via della Lungara, a Trastevere, vicino al carcere di Regina Coeli.
Due giorni in attesa dentro la caserma, senza sapere perché, né cosa succederà.
Nessuno muove un dito. Un’intera città lascia che degli invasori stranieri rapiscano 1022 persone.
Due giorni in cui i Tedeschi compilano scartoffie e fanno telefonate, due giorni in cui le autorità, il Papa, tutti i cittadini restano in silenzio.
Due giorni in cui i normali aspettano a testa bassa che tutto si risolva da sé.
I camion li porteranno alla Stazione Tiburtina, per essere caricati sul treno.
Una volta giunti ad Auschwitz, Elena Di Porto sarà tra i primi a essere assassinati.
Approfondimenti e chiarimenti
Questo racconto è stato pubblicato il 16 ottobre del 2018, esattamente 75 anni dopo la retata nazista nel Ghetto di Roma.
È un modo per tenere viva la memoria di fatti così importanti per la nostra storia e per la mia città in particolare.
Questo non è un saggio storico, è un’opera di narrazione.
È basato su persone realmente esistite e fatti realmente accaduti ma, essendo una creazione artistica, ha la sua dose di fantasia: sono ovviamente inventati i dialoghi e diversi dettagli.
Come ha detto qualcuno, «ogni buona storia ha bisogno di qualche infiocchettatura».
Se ti è piaciuto questo racconto, ne trovi altri simili qui: Storie vere.
L’elenco completo dei miei racconti lo trovi qui: Racconti.
La lingua
Gli ebrei del Ghetto di Roma hanno un loro dialetto speciale, che è un po’ diverso quello parlato nel resto della città.
Io, invece, li ho fatti parlare tutti in romanesco. Per due motivi.
1) Di quel dialetto conosco solo qualche parola, infilarla in mezzo al raconto solo per fare colore mi pareva ridicolo.
2) Ci tenevo a evidenziare come gli ebrei, fino all’avvento delle Leggi Razziali, fossero perfettamente integrati nel tessuto sociale di Roma. Farli parlare nella lingua di Roma mi è sembrato un modo narrativamente efficace per farlo.
Fonti su Elena Di Porto
La prima volta che ho letto di Elena Di Porto è stato sul libro di Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerazzi, Duello nel Ghetto, Rizzoli, 2017.
In quel testo alla storia di Elena sono dedicate un paio di pagine scarse.
L’episodio della notte tra il 15 e il 16 ottobre è citato anche nell’opera antologica Patrtigiane della Libertà, edita originariamente dal PCI negli anni ’70 e ristampata in edizione anastatica da NFC Edizioni nel 2015.
Solo che la protagonista dell’episodio viene chiamata inspiegabilmente Celeste.
In entrambi i testi, si dice che Elena arriva «di corsa» ed è descritta come «scarmigliata».
Per come l’ho immaginata io, Elena Di porto non doveva essere «scarmigliata», tantomeno agitata o impaurita.
Io Elena Di porto me la immagino sicura e decisa, guidata da quel senso pratico tipico delle donne di popolo.
Con una fortuna insperata, ho avuto dei contatti diretti con alcuni parenti di Elena Di Porto, che mi hanno potuto raccontare molti dettagli e chiarire diversi dubbi.
Questo racconto è dedicato a loro.
Ma ancora di più lo dedico a tutti quelli che «il Fascismo ha fatto anche cose buone» e «quando c’era Lui si poteva dormire con la porta aperta».
Anche perché bisogna vedere la porta di chi: le persone migliori la porta di casa facevano meglio a tenerla ben chiusa.
Esiste un piccolo sito internet dedicato a Elena Di Porto, questo qui.
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Giuseppe says
Grazie per avere avuto la voglia di scrivere questa storia.
Luca Ricatti says
Ma grazie a te per averla letta!
Israel says
Mi chiamo israel cesare di porto figlio di marco di porto detto cuccetto, il nipote del marito di mia zia elena. Ti voglio ringraziare per questa storia hai dato onore a una semplice donna ebrea che amava la libertà. Se vuoi ti posso far raccontare altro su mia zia da mio padre insieme a mio cugino marco Moshe di porto.
Luca Ricatti says
Ciao Israel Cesare, grazie a te per il tuo commento!
Marco Moshe Di Porto è una delle persone che mi hanno fornito chiarimenti e raccontato alcuni dei particolari presenti nel racconto.
Stefano says
Bella. Davvero.
Stefano
Luca Ricatti says
Grazie Stefano!
Franco says
racconto semplice e rappresetativo di una situazione oggi incredibile
Luca Ricatti says
Grazie Franco.
Oggi è incredibile, vero, mai i fantasmi sono sempre dietro l’angolo…
Francesco says
Ciao Luca, Mi sono imbattuto per caso su tuo sito, complimenti
Bisogna mantenere la memoria.
Grazie
Luca Ricatti says
Grazie Francesco!
Lisa says
Complimenti per avere raccontato questa storia di coraggio al femminile, una storia che mi ha fatto emozionare….è importante far conoscere, non soltanto le storie gloriose di chi “ha fatto la storia” di quegli anni, già ampiamente documentate nella letteratura e nella saggistica, ma anche le tante storie sconosciute di resistenza fatta da gente comune (e chissà quante ce ne sono ancora da raccontare). Il fatto poi che questa veda come protagonista una donna, aggiunge valore a tutta l’epopea della resistenza femminile considerata ancora oggi troppo marginale. Grazie
Luca Ricatti says
Grazie Lisa per il tuo apprezzamento.
Il senso di questo racconto è anche (e forse soprattutto) questo e tu l’hai colto con lucidità.