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☜Prima Puntata
Aprendo gli occhi, Giovanni Benforte si ritrovò in una stanza buia. Si accorse di essere sdraiato in un letto. C’era una piccola finestra aperta, ma ne entrava poca luce.
Un tuono fece tremare la terra.
«Lo cielo butta artre secchiate!». La voce era di un uomo seduto di spalle, sul bordo del letto. Stava armeggiando con qualcosa e Giovanni si sentiva strattonare la gamba.
L’uomo stava stringendo delle grosse tenaglie.
Ci fu un forte rumore metallico.
«Eccola, mannaggia allo diavolo che se la straporta!», esclamò. «Alla fine s’è aperta, sta catenaccia maledetta!»
«Bono, che così lo sveji», disse una voce di donna.
L’uomo si voltò verso Giovanni:
«Embè, era ora c’aprisse li occhi! Ha dormito tutto lo giorno!». Era anziano, la faccia solcata da rughe profonde di chi ha vissuto tutta la vita all’aria aperta, sotto il sole e contro il vento.
«Indove me trovo?», chiese Giovanni.
«A casa mia», disse la voce di donna.
Arrivava dal fondo buio della stanza.
La sua ombra avanzava a passi lenti.
Nella fioca luce del tramonto che entrava dalla finestra, s’illuminò per un attimo il suo viso rugoso. «Sei cascato co la faccia a terra che parevi morto. Lo mio marito t’ha portato qua e ora t’ha liberato lo piede.».
L’uomo mostrò a Giovanni la catena con la palla di piombo aperta.
«Dentro a la pignatta ce sta una zuppa», continuò la donna. «Magnala tutta, te rimette allo monno».
Consigli nel buio
I vecchi avevano acceso un paio di candele. Fuori era ripreso il temporale. Giovanni aveva svuotato la pignatta. Erano seduti tutti e tre intorno a un piccolo tavolo quadrato.
«Lo conoscevo, quello pastorello», disse il vecchia. La luce tremolante delle candele faceva ballare le ombre delle sue rughe. «Era nipote dello compare mio. Indove l’hai trovato?»
«Dentro lo bosco, vicino a na piccola radura che ci pascolava lo gregge. Lo cane pastore m’ha provato a sbranare, era una furia».
«Da quando è incominciata l’estate è lo quinto bambino che trovamo ammazzato a quello modo», disse la vecchia.
«Quello è fijo de lo Demonio!», intervenne il marito facendosi il segno della croce. «Uno mostro uscito dallo Inferno!»
«Statte zitto, vecchio!», lo interruppe la moglie, subito tornando a fissare Giovanni dritto negli occhi: «È una bestia grossa e tiene la forza de otto òmini. C’è chi l’ha veduto. Ma stammi a sentire a me, che io sò vecchia e n’ho vedute tante: in tutta la vita mia non ho mai saputo de uno mostro co la faccia de lo mostro».
Giovanni non era certo di credere a queste dicerie. Per non essere scortese restava in silenzio.
Ma continuava a ripensare al ragazzino nudo e sgozzato, con gli occhi spalancati sul vuoto, le labbra aperte e viola, la pelle bianca.
L’uomo si alzò dal tavolo e tornò con un fiasco di vino rosso.
Lo poggiò sul tavolo davanti a Giovanni, con un bicchiere.
Lo riempì.
Poi ne riempì uno per sé e lo bevve in un sorso solo.
Giovanni fissò il vino rosso luccicare alla luce delle candele. Voleva ingoiarlo tutto d’un fiato. Voleva afferrare tutto il fiasco, attaccarcisi.
Le mani iniziarono a sudare, la bocca gli si riempì di saliva.
La donna lo guardava.
«Vecchio, porta via sta roba», disse senza staccare gli occhi da Giovanni. Afferrò il bicchiere e lo diede al marito:
«Lo giovanotto soffre della malattia dello vino».
Il marito prese il bicchiere in una mano e il fiasco nell’altra e li portò via, senza dire niente.
«Come hai fatto a scappare dalle galere dello Governatore?», proseguì la donna.
«Non sò scappato», disse Giovanni guardandosi le mani tremanti.
E raccontò tutta la storia:
«Lo Governatore ha detto che una bambina s’è salvata. Che l’Orco l’ha violata ma lei è fuìta prima d’essere sgozzata»
«Quello malnato dello Governatore! Mente, come lo solito suo. Nessuna bambina è scappata. Conosco tutti li bambini colti da questa sciagura. Sono tutti morti ammazzati».
Lupi
Era l’alba, quando lasciò la piccola casetta nel bosco.
L’amuleto dondolava sul petto al ritmo dei passi. Giovanni lo infilò sotto la maglia, per tenerlo fermo. Non credeva alla magia. E non credeva agli orchi. Ma aveva intenzione di seguire tutti i consigli della vecchia: raggiungere il confine del bosco, fuggire seguendo il fiume, trovare la strada e andare via per sempre da quelle contrade.
La vecchia non era stata chiara. Parlava nel modo oscuro che ci si aspetterebbe da una strega che vive in un bosco.
Li mostri non hanno la faccia de li mostri, diceva.
«Sta lontano dallo vino, cerca l’acqua.
Trova lo fiume, seguilo fino allo ponte, poi prendi la strada e lascia questa contrada».
Poi gli aveva dato l’amuleto.
Sta lontano dallo vino e abbandona questa contrada.
Giovanni Benforte non credeva di riuscire a fare nessuna delle due cose.
Il bosco sembrava infinito. Camminò per ore, smarrendo il sentiero, cercando di capire la direzione del sole nell’intrigo dei rami in alto sopra la sua testa.
Si ritrovava in mezzo a rovi spinosi senza sapere come, si bagnava scarpe e calzoni nella terra ancora fradicia per il temporale della sera prima.
La borraccia d’acqua terminò quasi subito e la gola ardeva per la sete.
Giovanni Benforte ebbe alcuni attacchi d’ira, perché avrebbe voluto bere del vino.
La maglia era fradicia di sudore.
Quando fu pomeriggio, trovò una piccola altura senza alberi. Ci salì e poté finalmente osservare dall’alto dove si trovava.
Poté vedere la fine del bosco: ma era lontana. E aveva camminato nella direzione sbagliata.
Non c’era alcun fiume. E se non c’era il fiume non avrebbe trovato la strada. E senza strada non avrebbe saputo come fuggire da quella contrada maledetta.
Stava calando il buio.
Un ululato squarciò l’aria.
Poi un altro, più vicino.
Giovanni Benforte si mise a correre attraverso il bosco.
Un incontro oscuro
Nel buio gli alberi si distinguevano appena. Giovanni sbatteva continuamente contro i tronchi. I cespugli erano del tutto invisibili, ci cascava dentro e poi lottava disperatamente per uscirne. Per poi sbattere contro un altro tronco e cadere dentro un altro cespuglio.
Quando sentì i passi veloci dei lupi alle sue spalle, pensò di essere ormai spacciato.
Poi ebbe la visione di se stesso sbranato vivo dal branco.
Si aggrappò a un tronco, urlando di disperazione. E chissà come arrivò in alto, in mezzo ai rami.
I lupi erano ai piedi dell’albero.
Facevano strani versi, si agitavano, ansimavano. Ogni tanto qualcuno si aggrappava al tronco, tentando di arrampicarsi.
Poi si zittirono e rimasero immobili, all’improvviso, tutti insieme. E un suono spaventoso attraversò il bosco, giungendo fino a loro.
Giovanni sentì i lupi correre via, rapidissimi. Poi rumore di frasche che si muovevano. E di passi che affondavano nel letto del bosco.
Decise di scendere dall’albero.
Qualunque cosa si stesse avvicinando, non poteva essere veloce come i lupi, ma era in grado di spaventarli. Per questo Giovanni pensò che era meglio non farsi trovare.
Ma quando scese dall’albero tornò a lottare col buio. Era cieco, nella tenebra di un bosco fitto, pieno di rovi, radici in cui inciampare, rami su cui sbattere la testa.
L’essere gli fu alle spalle in un attimo.
«I lupi ti mangiano!», disse una voce cavernosa e nasale. «Ti mordono lo collo e poi ti strappano la carne coi denti»
Giovanni restò immobile, senza dire niente.
«Non è bono andare di là. I lupi ti mangiano».
Giovanni attese ancora in silenzio. Anche l’essere attese senza parlare. Faceva uno strano suono dal naso, respirando, come il fiato di un enorme cinghiale che annusa il sottobosco. Poi fece dei passi in avanti.
Allora Giovanni decise di parlare. Doveva fare qualcosa. E parlò:
«I lupi non mi mangiano, a me».
L’essere si fermò.
Rimase un po’ in silenzio, come valutando le parole di Giovanni. Poi disse:
«I lupi ti mangiano, perché hanno fame».
«I lupi a me non mi mangiano perché se ci provano gli strappo via la mascella, uno per uno».
«Nessuno strappa via la mascella de li lupi!», rispose l’essere.
«Io sì!», continuò Giovanni. «Lo mio nome è Benforte e tutti lo sanno! Puro li lupi lo sanno! Non hai sentito come fuìrono pe la paura? È perché mi videro! Tutte le bestie de lo bosco sanno che sono Benforte de nome e de fatto!»
Dopo qualche istante di silenzio, nel buio, l’essere parlò di nuovo:
«Io non t’ho sentito mai. Dentro lo bosco ce vivo ma non t’ho sentito mai!»
«Nemmanco io t’ho sentito mai!», rispose Giovanni. «Chi sei tu?»
«Io sò l’Orco».
Una caverna
L’Orco aveva fatto strada nel buio del bosco, finché erano arrivati nella sua dimora.
Una caverna.
Profonda, sudicia, oscura.
«Non tieni come fare luce?», chiese Giovanni.
C’era stato un tempo in cui era stato giovane, belloccio, svelto di mano, furbo, con la risposta sempre pronta.
Aveva imbrogliato, rubato, scommesso.
La prima cosa che aveva fatto, quando la creatura gli era arrivata alle spalle, era stata trattenersi: per poco non si era pisciato addosso. Non aveva mai provato un terrore simile in tutta la vita. Il terrore del buio, del mostro, l’orrore senza limite d’una creatura che violenta e squarta nel fitto del bosco.
Ma la paura aveva riacceso in lui un fuoco che credeva estinto da anni: Giovanni Benforte voleva sopravvivere.
E allora si era messo a parlare alla creatura nel buio come a un suo pari, come se lui stesso fosse un essere del bosco, mezzo uomo mezzo belva.
Disse in tono di sfida:
«Nella mia caverna tengo sempre no mucchio di torce! E no foco acceso per mangiare carne cotta!».
L’Orco rispose:
«E dove sta questa tua caverna?»
«Uno giorno te la mostrerò, forse. Se saprò che mi posso fidare. È lunga quattro volte questa e ci stanno pellicce di animali per dormire. Ci stanno sette capre che me danno lo latte. E sette volte sette galline che me danno li ovi ogni mattina!»
«È tutta la vita che vago dentro a sto bosco ma una caverna co le galline non l’ho veduta mai», rispondeva sospettoso l’Orco.
Giovanni aveva intuito subito che il mostro era di mente tarda. Poteva dargli a bere molte sciocchezze, se stava attento e si mostrava sicuro a sufficienza.
«Una torcia la tengo», disse l’Orco. Poi si chinò a terra e prese ad armeggiare con delle pietre.
Dopo qualche minuto una fiamma prese a ballare accanto al mostro.
E Giovanni lo vide.
Era alto molto più di lui. La testa era incassata tra le enormi spalle, coperte da una pelliccia scura.
Alle mani aveva lunghi artigli scuri. Il naso era grosso e schiacciato, con narici larghe che ricordavano quelle di un animale. Il mento e tutta la mascella erano deformi e incassati all’indietro e grosse zanne sporgevano fuori dalla bocca.
La faccia era coperta da una barba rada e lunghi capelli sudici scendevano sulle spalle.
La vecchia aveva detto il giusto: probabilmente l’Orco aveva in corpo la forza di otto uomini o più.
Giovanni non poteva nascondere il suo stupore. E disse:
«Mai ho veduto un essere grosso e forte come te! Tu sei lo primo che vedo che potrebbe avere bracci forti quanti li miei! Colla forza mia e tua possiamo diventare li signori de lo bosco e di tutta la contrada!»
L’Orco sbuffò dalle narici e si voltò verso il fondo della caverna. Disse solo:
«Tengo da mangiare qualche uccello morto. Te ne do uno, se lo vuoi».
Fu una notte insonne e molto lunga.
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