Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
Prima Puntata☜
Un lampo accese la finestra e per un istante la sagoma nera dello Spettro fu visibile fuori sul selciato. Il sole stava calando dietro il Colle Umbro.
Mino ne aveva guardati di tramonti dalla finestra della sua camera, vedendo la collina fitta di alberi annerirsi lentamente, fino a divenire un tutt’uno col nero della notte. Al tempo della sua infanzia il Colle Umbro era un intrico di vegetazione nodosa, di spine di rosa canina e agrifoglio, di tronchi avvinghiati da edere spesse come serpenti mostruosi, di rami di faggi e cerri che nelle ventose giornate invernali strusciavano gli uni contro gli altri cigolando sinistramente. Un luogo che le ore notturne rendevano ancor più tetro col bubolare dei gufi. Mino e i suoi amici vi si avventuravano in certi pomeriggi, scoprendo percorsi e raccontandosi raccapriccianti leggende di viandanti scomparsi e spiriti di fanciulle assassinate. Conoscevano bene tutto il fianco orientale e a certi alberi avevano dato un nome; come il Gobbo, un faggio grosso e così ritorto da sembrare un enorme uomo dalla schiena curva. Era un posto sinistro, il Colle Umbro, e per questo intrigante.
Affacciato alla stessa finestra, Mino ora vedeva un luogo del tutto diverso. La cima era divenuta un calvo cocuzzolo tondeggiante. Poco sotto sorgeva una piantagione di ulivi giovani, diritti e lisci, tutti in ordine come un battaglione alla parata militare; scendendo ancora, su un terrazzamento artificiale che penetrava in profondità nel fianco del colle, decine di filari di vite tracciavano righe perfettamente orizzontali; un grande campo recintato dominava la parte più bassa. Non avrebbe più raccontato storie, quel colle denudato e ridotto in cattività, non celava tenebre e non avrebbe ospitato gufi e vecchi uomini-albero. Però, allungando la sua ombra su Lapile nell’ora del crepuscolo, aveva diffuso un buiore sufficiente ad accogliere un fantasma più spaventoso di quello d’una ragazza accoltellata. Mino sentì il pesante batacchio della porta d’ingresso. Corse al piano di sotto ad aprire ai suoi amici.
«Sbrigateve, ce sta lo Spettro!»
Amici
Avevano cotto delle focacce alla brace del camino, mentre fuori s’oscurava e le nuvole si facevano fitte. Il vento, calato per una mezza giornata, aveva ricominciato a ululare tra le stradine di pietra. E quando s’era fatta notte e avevano finito di ripulire i piatti, il cielo aveva inviato fulmini e tuoni. Lo Spettro stava immobile innanzi alla porta di casa e non era possibile uscire, fino a che l’alba non lo avesse cacciato.
Peppe era invecchiato troppo. Camminava male, diceva che una trave gli era caduta addosso; da anni la gamba sinistra doleva e il ginocchio obbediva malvolentieri, specie nelle giornate umide. Aveva la pelle del volto piegata dalle rughe. Le dita nodose stringevano il coltello così goffamente che Gigi glielo aveva tolto di mano e aveva affettato la focaccia per lui. La moglie di Gigi aveva preparato una zuppa deliziosa, che avevano scaldato e poi divorato. Si chiamava Lucia, era una donna in carne, dallo sguardo penetrante e di poche parole. S’era sobbarcata la pignatta sotto un’ascella, come fosse naturale per lei girare per il paese portando pentoloni stracolmi di minestra.
«Grazie che siete venuti», disse Mino posando il bicchiere di vino sul tavolo. «Grazie Gigi e pure a te, Lucia. E a te Peppe. V’ho fatto venì qua perché ve devo dì questa cosa di persona. Sto avvocato, sto tizio che cura l’affari de famija, dice che basta firmà certi foji. E l’ho fatto, l’ho firmati, le cose so già tutte accomodate. Però volevo guardavve in faccia, prima d’annammene, non so se me spiego». Si grattò la nuca cercando le parole, visibilmente in imbarazzo. «Famo a capisse… Siete l’uniche persone a cui ho voluto bene… E insomma, prima de sparì un’altra volta, me sembrava giusto che ce strignevamo la mano». Mino guardò Peppe, che ricambiò lo sguardo ma non disse niente. «Non è stata na passeggiata, da quando sò scappato venticinque anni fa», riprese con un sospiro. «Me ne sò capitate de tutti i colori. Ma pure voi de guai ce n’avete avuti. E mó c’è sta questione de li Spettri». Spostò gli occhi su Lucia: «Non so se tu marito t’ha raccontato de quando eravamo giovani… Certe cose fanno così paura che uno preferisce dimenticasse. Fatto sta che pe colpa mia sti amici sò finiti in certi guai».
Fece una lunga pausa, rigirandosi il bicchiere vuoto tra le mani. Lo riempì e se lo scolò tutto d’un fiato. «Ho rivisto er folletto», disse. «Due notti fa avevo deciso de andà via. Pensavo che sto fatto de li Spettri era colpa mia e che se me n’andavo se n’andavano pure loro. E invece è successa na cosa. Passando sul colle dei Sassi ho incontrato Pelliccia. Pelliccia! È un vecchio rinsecchito, ma se la cava ancora. E pensa un po’? Ha tirato fori sto coso!». Si alzò, andò alla madia, aprì un cassetto e ne trasse il Marchingegno. «Ve lo ricordate? L’ha conservato pe tutto sto tempo!» Tornò a sedersi e posò il loro vecchio giocattolo autocostruito sul tavolo. «Non stava mica da solo, er vecchio Pelliccia. Ce stava pure er Folletto».
Capire il male degli altri
Perché quella notte il Folletto avesse voluto fornire a Mino certe informazioni, non possiamo saperlo. Forse provava un certo piacere a disvelare i suoi piani tanto meticolosamente congegnati. O forse aveva maturato una contorta forma di simpatia per la vittima dei suoi intrighi. O magari quelle rivelazioni facevano da sempre parte del suo progetto ed era giunto il tempo di farle.
«Le mie capacità sono costrette», aveva detto. «Dai limiti di questo vostro mondo, che è soggetto a leggi più stringenti del regno dell’incanto da cui vengo. Però posso appoggiarmi a voi mortali, perché di questa terra siete figli e ne condividete la magia, pur se ve ne difetta la coscienza. I vostri desideri son prodigi, ma non riuscite a prenderne contezza. Io posso invece ben manipolarli, piegarli alla bisogna e farli miei».
I lettori ricorderanno quale desiderio aveva espresso Mino al folletto tanti anni prima: che suo padre capisse «il male che sentono gli altri». Era trascorso un quarto di secolo da quando aveva dato voce a quel pensiero.
«Ho messo in atto quel tuo desiderio, la mia promessa io l’ho mantenuta. Ingrato ufficio m’hai addebitato, poiché tuo padre ha inferto male a molti e non fu certo avaro di perfidia».
Una per una, la creatura fatata aveva collezionato tutte le sofferenze provocate da Fausto in ogni singolo essere vivente, dal più maestoso dei cervi al più spelacchiato cespuglio di rovi nel più recondito angolo della foresta bruciata.
«Così ho stipato tutto nel suo cuore: per ogni cucciolata di conigli, ogni albero, scoiattolo e falena, per ogni biancospino o antico faggio, ho messo del dolore nel suo petto. Non ho dimenticato voi umani! Son molti quelli fatti assassinare. Il tale che col legno s’industriava, l’omone conosciuto come Checco: due giorni dopo che fosti partito lo fece accoltellare dai suoi sgherri. C’è stato pure quel tuo amico, Aldo: l’ha fatto bastonare e il disgraziato ne è uscito con un danno nella testa che è valso da condanna capitale: è stato sofferente settimane, finché una notte non s’è coricato e ha preso finalmente sonno eterno. Per lui un pochino sì, m’è dispiaciuto. Non fece mai parola del pestaggio, né ai figli né alla moglie ne ha parlato. Diceva solo di aver male al capo, il segreto l’ha portato nella tomba. Che squallido villaggio di ruffiani, di miseri vigliacchi e smidollati, lui solo aveva il fegato di dire il fatto suo a quel tuo genitore. Ebbene, questo mare di dolore nel petto di tuo padre s’ingrassava, cresceva diventando massa oscura, che lenta macerava e imputridiva mangiando il cuore di Fausto Serracchi. Un canchero mostruoso lo invadeva usando il corpo suo a mo’ di guscio e lo induceva a folli crudeltà via via più truci e sconsiderate e, quando fu ingrossato a sufficienza da far suoi visceri, midolli e vene, cervello milza, reni, mani e bocca ed era pronto a uscire dal suo uovo, l’ha ucciso infine ed è venuto al mondo. La cosa interessante è che si tratta di un mostro sì affamato e contagioso! Abbiamo fatto un bel capolavoro! È merito mio e tuo e ti ringrazio».
Essere rinnegati e maledetti
Quand’ebbe finito di raccontare, Mino apparve sconvolto. Per rompere il silenzio, Gigi gli riempì il bicchiere.
«Quindi al povero Aldo l’hanno bastonato…», disse. «Potrebbe esse vero. Mica solo lui ce l’aveva co Fausto, però era l’unico che lo diceva chiaro e tondo. E più de na volta cià avuto da ridì coi tuoi cognati. De questioni ce n’erano tante… Ma la verità è che non ha mai perdonato a tu padre d’avette cacciato dal paese». Allungò una mano e strinse il braccio di Mino. «Non sai quanto sarebbe stato contento de rivedette».
«A me me parono tutte storie un po’ così», intervenne Lucia all’improvviso, agitando una mano in aria. «Un folletto? Mó dovemo da crede a li folletti? Ma poi perché ce stai a raccontà tutta sta faccenda?»
«Sta bona Lucì!», la rimbrottò Gigi.
«Ahó senti, ma che davero me devo beve certe frescacce? Sti fantasmi sò arivati qua qanno è arrivato lui», disse indicando Mino. St’amico vostro cià er malocchio, è rinnegato e maledetto. Io la penso così», concluse incrociando le braccia sul petto.
«Ahò!», alzò la voce il marito. «E statte bona!».
«E no, Gì, cià ragione», intervenne Mino. «Sò un rinnegato e sò nato col malocchio. Esse fiji de Fausto Serracchi è na maledizione. Nun t’arrabbià co tu moje. Mica è facile crede che sò cose vere». Poi si rivolse a Lucia. «Gigi l’ha visto er folletto, tanti anni fa. Cià quasi ammazzato. Te lo potrebbe dì pure Aldo, se fosse qua. Abbiamo visto certe cose da morì de paura».
«È vero che Checco l’hanno accoltellato. È successo due giorni dopo che sei partito te», disse Gigi, che poi si rivolse alla moglie: «Questo Mino non lo poteva sapé!».
«Come no?», ripose lei aspra. «Magari l’ha sentito da qualcuno».
«No, Lucì, è tutto vero», intervenne allora Peppe. «Io er folletto non l’ho incontrato, ma me lo raccontò Aldo quello ch’era successo tanti anni fa. Lui, Gigi e Mino sò andati a Monte Muto, hanno incontrato certe streghe e poi sò stati aggrediti da un branco de lupi. E me parlò de sto coso, sto folletto». Si riempì il bicchiere e bevve un sorso. «E poi è vero che Fausto peggiorava, anno dopo anno. Era sempre più cattivo. Ve ricordate la volta c’ha scannato quel cane perché diceva che abbaiava troppo? Io stavo là. J’ha infilato er coltello in gola, in mezzo alla strada davanti a tutti, e dopo l’ha preso a morsi. A morsi! E poi lo sanno tutti ch’è stato lui a fà fori Cornacchia: quel vecchio bastardo l’ha servito pe trent’anni e questo è quello che cià avuto in cambio. Fausto l’ha accoppato perché non se fidava più. Perché era diventato pazzo. E alla fine sta pazzia è uscita da lui e mó gira pe il paese in cerca de vittime».
«Mbè, non è pazzia, a quanto pare. È tutta la sofferenza che j’è tornata indietro», disse Mino. Alzò gli occhi verso il ritratto del padre sulla parete. «Comunque sia me me ne vado». Guardò Peppe, Gigi e Lucia e riempì loro i bicchieri. «Io qua non ce posso stà. Non è più casa mia e non vojo niente de quello che era della famija mia. E per questo v’ho chiesto de venire stasera. Lascio tutto a voi. Ho diviso la terra de mi padre in tre parti, una pe Peppe, una pe Gigi e la famija sua e una pe la moje de Aldo e i fiji suoi. È già tutto scritto, non dovete fà niente, ho sistemato tutto. Una cosa sola ve chiedo: non coltivate l’ortica d’oro. Gigi lo sa de che parlo. La terra è vostra e ce fate quello che ve pare. Però date retta: non la coltivate, è un dono del folletto e il folletto vole solo vendetta contro gli esseri umani».
Dare una raddrizzata
Mino aveva messo un ciocco nuovo nel camino e s’era rimesso a sedere, mentre il cielo era scosso da un tuono. Gigi e la moglie erano andati a coricarsi sul letto padronale, ma Peppe diceva di non volersi sdraiare, che era abituato a passare le notti insonni a causa dei dolori.
«T’ho pensato tanto in questi anni», disse dopo un lungo silenzio. «La vita tira scherzi cattivi. Eri quello a cui volevo più bene e invece se semo lasciati litigati. Te l’ho pure sonate e manco ciavevi colpa. E guarda qua, mó io sò na carriola sfasciata e te un pezzo d’omo gajardo. Me meritavo che me gonfiavi come na zampogna e invece vieni qua a dimme che me vòi fa diventà ricco».
«Lo sei già. È già tutto tuo», rispose Mino.
«Dopo che sei partito Aldo e Gigi m’hanno raccontato tutto. De le cinghiate de tu padre. T’eri fatto frustà pe difende a me. Lo faceva spesso?»
«Abbastanza».
«Pure mi padre me le dava, qualche volta. E infatti pensavo che i padri erano tutti cattivi. Sarà pe questo che non me sò sposato. Ma invece Gigi è bravo coi fiji e pure Aldo era bravo». Bevve una lunga sorsata. «Non la dovevi fà sta cosa, Mino. Sei ancora in tempo a cambià idea: stracci tutti i foji c’hai firmato, fai il padrone, te sistemi, dai na raddrizzata a sto paese de cacasotto. Io sò il primo dei cacasotto e non me merito niente».
«È proprio quello che vojo fà», rispose Mino: «Dà na raddrizzata. Ma non ce posso stare qua».
Rimasero in silenzio per qualche secondo e poi accadde una cosa che Mino non si aspettava: Peppe iniziò a piangere. Si coprì il volto, ma sussultava visibilmente. Mino si avvicinò e gli posò una mano su una gamba:
«È tutto a posto, Pè! Io sto bene, ciò un posto dove andà e sò felice de aiutà l’amici!»
Peppe impiegò alcuni minuti a calmarsi, poi s’asciugò il viso con la manica e disse in un filo di voce:
«Io te devo chiede na cosa, Mì». Esitò a lungo, prima di continuare. «Te la ricorderai mi sorella Sandrina. Lo so che te la ricordi, ciavevi na cotta. È na Signora, adesso, ha sposato il Signore de Cinello e vive al palazzo. La prima domenica del mese viene sempre qua co la carrozza a trovà mamma. Parte il primo pommeriggio, se ferma a cena e se ne va tardi. Domani è la prima domenica del mese… E fa ancora buio presto…»
Mino impiegò qualche secondo a capire dove volesse arrivare Peppe.
«Li Spettri!», disse infine.
«Io me vedi come sò conciato?», proseguì Peppe. «Non la posso fà tutta sta strada a piedi. Pe venì qua me sò fatto dà un passaggio su un carretto e poi pensavo che tornavo in carrozza co mi sorella, domani notte. Ma che ne sapevo che qua a Lapile ce stanno sti Spettri? Non lo sa nessuno, a Cinello. Se arriva qua col buio, Sandrina se la prendono».
L’ultima cosa che Mino si aspettava era di essere costretto a incontrare Sandrina e questo lo mise in agitazione. Ma prima di avviarci alla conclusione di questa storia, dobbiamo spiegare un dettaglio che egli aveva omesso di raccontare ai suoi amici, riguardo l’incontro della notte precedente col folletto.
«Un ultimo ragguaglio devo darti», gli aveva detto la creatura fatata, in controluce davanti al fuoco della caverna. «Son grato a te per il tuo contributo che tanti patimeni t’è costato e come me molte altre creature ti sono debitrici, perciò ascolta. Avendo liberato dal dolore la torma di tutti quegli spiriti di esseri viventi massacrati, la loro gratitudine è per te e ad una tua richiesta essi verranno per dare a te qualunque cosa chiedi. Avrai diritto alla riscossione finché la morte non ti chiamerà. Ma ad una condizione e una sola del credito sarai ricompensato: dovrai chiamare me nel modo giusto, il solo che mi obbliga a servire».
Così aveva parlato la creatura fatata.
Cortili, servi e fontane
Venne un mattino freddo, intriso d’aria umida che penetrava i vestiti. Mino era partito con calma dopo aver salutato gli amici ed essersi preparato uno spuntino, che aveva riposto nel vecchio zaino. Portava ancora il coltello e l’accetta da boscaiolo che gli aveva dato Checco il falegname la sera della sua partenza, tanti anni prima. Aveva fatto un giro largo, passando dal cimitero, per mettere qualche fiore selvatico sulle lapidi di Checco e di Aldo. Poi s’era incamminato verso Cinello. Era una strada comoda e ben tenuta, che in quella direzione correva quasi tutta in leggera discesa, circondata da prati che brillavano bagnati dalla pioggia della notte passata e da cespugli di senape selvatica e fiori di achillea. Quando giunse alla porta del borgo trovò un accalcarsi di persone, perché la domenica si svolgeva il mercato. Si fece strada fino al portone del palazzo e bussò.
«Cerco la Signora. Me manda er fratello Giuseppe co un messaggio».
«E che vole Peppe? Perché non viene lui?», gli rispose un tipo diffidente. «Se non torna presto sò affari sua! J’ho ordinato a quello storpio maledetto de spostà tutto er fieno dei cavalli e ‘nvece m’ha lasciato tutto in mezzo!»
Mino scrutò lo sconosciuto per un attimo, poi disse:
«Peppe me sa che non lo rivedi più. Ha finito de prenne ordini. Adesso è ricco e cià la terra. E quanno passa te devi levà er cappello. E quello che vole lo devo dì alla Signora Sandrina, no a te».
Il tipo lo squadrò con occhi sgranati e un’espressione tra lo stupito e l’offeso:
«Signora Alessandra!»
Mino si trovò nel giardino del palazzo, dove lo fecero attendere per moltissimo tempo. E più minuti passavano, più sentiva qualcosa agitarsi dentro di lui. Poi, quando il sole era ormai alto e la sua ombra ridotta a un piccolo cerchio sotto i piedi, sentì annodarsi lo stomaco, perché la porta del palazzo emise un cigolio, seguito da un suono di passi.
Indossava un ricco abito ricamato e i capelli erano acconciati in uno chignon che lasciava ricadere due trecce ai lati del viso, tenute da nastri colorati. Mino si sentì a disagio nei suoi stracci, con ancora lo zaino da soldato sulle spalle. Si stupì di vedere che ora era più alto di lei. Era strano vederla acconciata da gran dama, ma l’avrebbe riconosciuta tra milioni di persone.
Lei lo guardò con aria annoiata.
«Ciao Sandrì», disse Mino.
Sandrina accigliò lo sguardo.
«Scusa, volevo dire Alessandra».
Poi lei si aprì nel più assoluto stupore:
«Mino?»
Era venuta una serva ad asciugare la panchina ancora bagnata dalla pioggia, per permettere alla Signora e al suo ospite di sedersi davanti alla fontana. Aveva squadrato lo sconosciuto con malcelata disapprovazione. Mino finse di non badarci. Le nuvole s’erano diradate ed era piacevole lasciarsi scaldare dal sole, nel cortile silenzioso. Una stradina di ghiaia correva tra il muro e una siepe di bosso che seguiva tutto il perimetro quadrangolare, con quattro aperture ad arco, una per ogni lato. Nella parte centrale, la fontana ottagonale lanciava in alto uno zampillo che si apriva ad ombrello, e c’erano quattro sedute di marmo bianco poste proprio in corrispondenza degli archi nella siepe. Mino e Sandrina sedevano su quella che dava le spalle al palazzo.
Mino le raccontò tutta la storia, in un ordine simile a quello che abbiamo seguito noi, pur omettendo i particolari più orribili: parlò del suo arrivo per la veglia funebre, per poi tornare al tempo di quando erano ragazzi e concludere col racconto degli ultimi tre giorni e dell’incontro con Gigi e Peppe. Lei aveva ascoltato tutto senza interromperlo. Poi disse:
«Quanto tempo è passato? Vent’anni? Trenta? Arivi qua e me dici sta storia de fantasmi, folletti e streghe». Fece un lungo sospiro. «No, non me guardà così, non penso mica che sei matto. In verità tante cose le sapevo. Me l’aveva raccontate Peppe. Comunque sia non posso manco fà na passeggiata in carrozza pe annà a trovà mamma, perché a Lapile ce stanno sti Spettri. Sò imprigionata qua dentro.
«Gigi raccontò tutto a Peppe e Peppe lo disse a me. E me raccontò pure che te sei fatto frustà da tu padre pe difende la famija nostra». Poi s’alzò in piedi. «Vieni, sei ospite. E se non vòi partì stasera, te faccio preparà na camera e te ne vai domani mattina con comodo». Mino esitò. «Mi marito non c’è. Non c’è mai, sto sempre da sola. E mi fijo è grande e grosso, lo vedo sì e no na volta all’anno. Chissà quando me ricapita de ospità na faccia amica».
«E la servitù che dice?», azzardò Mino.
«Quello che je pare. Tre fiji bastardi de mi marito sò cresciuti dentro a sto palazzo, fiji delle serve. E chissà quanti ce ne stanno in giro pe la campagna. Se sò la Signora de sto palazzo, ciavrò pure er diritto de pranzà in compagnia de un vecchio amico».
Mino mangiò a quattro ganasce. Non aveva mai neanche visto un pranzo da Signori, né gli sarebbe più capitato. Sandrina invece sbocconcellava appena.
«Hai visto quelle calendule in giardino?», disse. «L’ho piantate io. Me piacciono le calendule, me ricordano un mazzetto de fiori selvatici che me regalò un ragazzino, na domenica mattina de tanto tempo fa».
Mino la guardò senza riuscire a dire niente.
«Raccontame dei tuoi viaggi, andove sei stato».
«Non sò racconti de belle avventure, i miei», si schermì lui. «Ho fatto vita da strada, lavori umili. Ho fatto pure cose che non se fanno».
«Embè? C’avrai fatto mai? Hai rubato? Hai rapinato?», fece lei. «Che pensi, che i Signori non le fanno le cose che non sta bene? Mi marito, tu padre… solo che i ricchi non ce vanno in galera». S’alzò e disse: «Tornamo in giardino, ciò voja de vedé er sole, finché ce sta».
E così trascorsero il pomeriggio parlando, l’aria era piena del profumo d’erba tagliata e la voce di Sandrina era dolce come una musica delicata. Una musica delicata e malinconica. A Mino sembrava un paradiso terrestre, ma si rendeva conto di quanto Sandrina fosse infelice. E quando venne il tramonto non trovava il coraggio di dirle che doveva andarsene. E non voleva. L’ombra della siepe era calata su di loro e tutto s’era scurito, eccetto la facciata del palazzo, arrossata dal sole morente. Lei gli prese la mano fra le sue. Il cuore di Mino quasi scoppiò.
«Lo so che te ne devi andà. Ma magari, se non ciai fretta, potresti partì domani mattina, così me tieni compagnia pure a cena».
Ma proprio in quell’istante, a stornare Mino dagli occhi di lei venne un urlo agghiacciante di donna, che attraversò il cortile come una fucilata. Tra le siepi fitte, il grido si spense in un silenzio sospeso. Poi seguì un trambusto violento e vennero altre grida. Arrivò la servitù di corsa, in meno di un minuto la calma assoluta del giardino s’era trasformata in un parapiglia.
«Scappa! Scappa!», urlò qualcuno.
«È morto!», gridò una donna.
«L’ha bruciato!», strillò un’altra.
Mino afferrò d’istinto il braccio di Sandrina, quasi strattonandola per farla alzare.
«Sò arrivati pure qua!», disse.
E mentre lo diceva, vide uno Spettro Nero che s’infilava dentro il giardino: il cancello era aperto perché qualcuno stava scaricando della merce, ma era stato aggredito dal fantasma. I servi fuggirono urlando, ma uno fu preso. Mino si guardò attorno: non c’erano altre uscite e infilarsi dentro il palazzo poteva rivelarsi una trappola. Trascinò Sandrina nell’angolo più lontano del cortile, osservando attentamente le mosse dello Spettro e, quando questo si fermò ad aggredire una serva, spiccò una corsa verso l’uscita, tirando Sandrina che incespicava nel vestito. In strada non vide altri fantasmi, ma dentro il cortile s’erano già moltiplicati e uno li stava seguendo. Per fortuna gli Spettri si spostavano lentamente, sembravano brancolare seguendo un senso che non non era la vista.
Corsero giù per un vicolo in discesa, fra ombre sempre più fitte. Si nascosero dietro un muro. Mino sbirciava dietro l’angolo, mentre s’arrovellava pensando a dove rifugiarsi. Non riusciva a escogitare niente di ragionevole. Dal giardino del palazzo giungevano grida che gelavano il sangue. Di lì a poco gli spettri avrebbero invaso il borgo di Cinello, bisognava trovare un posto sicuro. Ma i minuti passavano e non aveva idea di cosa fare. Poi, d’improvviso, sentì le mani di Sandrina sulle guance ruvide di barba sfatta. Lei gli girò la testa e lo fissò negli occhi:
«Portame via», disse. «Portame via. Andó te pare!»
Mino rimase di sasso.
«Portame co te!».
Gli occhi di Mino erano sul viso di Sandrina ma era come se gli fosse comparso dinanzi uno spettacolo inconcepibile. Restava a bocca aperta e sbatteva le palpebre. Lei gli strinse il viso più forte, schiacciandogli le guance:
«Portame via co te!», gridò.
«Ma… dove? Che stai a dì?»
Lei gli mise le mani sulle spalle, strinse la giacca fortissimo cercando di scuoterlo:
«Andó te pare! Hai capito? Me devi portà via da qua!»
Aveva occhi grandi e scuri, profondi come pozzi infiniti. Solo una volta Mino aveva scrutato in un abisso simile. Era successo una notte di venticinque anni prima, quando era solo un ragazzino e davanti a lui c’era una strega. Anche allora da quel fondo oscuro era giunto un richiamo. Ora quel richiamo era trasfigurato in disperazione, ma intendeva comunque trascinarlo lontano, dove non aveva il coraggio di andare, in un luogo proibito.
«Se me lasci qua m’ammmazzo, lo giuro!», disse Sandrina. «Vado incontro a uno de quei fantasmi e la faccio finita!»
Mino le afferrò un polso, s’affacciò oltre il muro e iniziò a correre. E lei si lasciò trascinare.
Un sentiero nel buio
C’era mancato un pelo. Lo Spettro era proprio nel mezzo della strada che scendeva alla porta orientale del paese. Mino aveva lanciato un sasso contro un muro per distogliere la sua attenzione e poi si erano scapicollati fuori del borgo, correndo disperati verso la foresta, con lo Spettro alle calcagna. Si fermarono solo dopo molti minuti, convinti d’averlo seminato. Fermi a rifiatare, in vista dei primi alberi, si guardarono negli occhi per un lungo momento.
«Ce l’hai na casa? Qualche posto?», chiese lei.
Lui esitò, prima di rispondere.
«Non pòi venì co me. Sei na Signora, io sò ’n vagabondo, non so mai se metto insieme un pasto decente».
«Ce l’hai na casa o no?», insistette lei.
«Quasi. La sto a costruì. E non è manco na casa, è un rifugio, fatto de sassi tenuti insieme col fango. Non è un posto pe una come te».
Nel buio, Mino sentì Sandrina sussurrare, quasi che parlasse fra sé e sé:
«E quale sarebbe il posto pe una come me? Na prigione? Non è che siccome ce stanno l’arazzi alle pareti na prigione te fa felice. A me m’hanno rinchiusa ch’ero na ragazzina e m’hanno ficcata dentro ar letto de na carogna. S’è fatto li comodi sua e dopo che m’ha messa incinta non m’ha più guardata n‘ faccia. Manco mi fijo me sò potuta cresce! Ero na burina arricchita, mica potevo fà da madre all’unico erede der Signore de Cinello. I servi sputano andove passo. Mi marito se porta le donne dentro casa, davanti a tutti. Mi fijo, se viene a casa, manco me saluta. Pensi che me spaventa na baracca de sassi e fango? Ma non fa niente. Hai già fatto più de quello che dovevi. Vattene, na strada la trovo da sola. E se non la trovo me se pijano li Spettri, amen. Tanto de vive non ciò più voja da un pezzo».
E allora, dapprima Mino rimase in silenzio per un lungo momento, ma poi, senza che potesse fare niente per fermarle, parole che erano rimaste nascoste nel suo petto da quando era poco più di un bambino gli sgorgarono dalla bocca. E già mentre le pronunciava se ne vergognava e pensava che avrebbero provocato imbarazzo, scherno e disprezzo. Non per questo provò a fermarle. E dopo che l’ebbe pronunciate, si voltò verso le tenebre, prese fiato e gridò un nome:
«Falerio!»
E dall’oscurità due piccole lucine spuntarono. Nel fioco bagliore lunare filtrato da nuvole violacee, si fece avanti una figurina.
«Te ne sei rammentato», disse la creatura fatata.
«La maniera giusta», rispose Mino, «la sola che ti obbliga a servire».
«Nutrivo qualche dubbio che ne avessi conservato il ricordo», replicò il folletto. «Per voi mortali un quarto di secolo è un tempo lungo».
«Pure tra mille anni me lo ricordavo».
«Ebbene non hai bisogno di chiedere, conosco già il desiderio del tuo cuore. Non ci sono inganni. E dal volere tuo verrà vantaggio anche per molti altri, tra la mia gente e la tua. E accadrà perché il tuo è desiderio d’amore».
Ciò detto scomparve. E nel punto in cui si trovava un istante prima, s’accese un focherello azzurro, piccolo come il palmo d’una mano; e dietro ne apparvero un altro e un altro ancora e in un attimo ci fu un’infinita fila di fiammelle che s’addentrava nella notte.
Mino prese la mano di Sandrina.
«Io te ce porto co me. Ma te posso offrì solo la libertà, perché non ciò nient’altro».
«Me basta quella».
«Allora annamo», disse Mino. Ma lei tentennava davanti alla fila di focherelli che si allungava nel buio.
«Non c’è da avé paura», le disse Mino. «Non dovemo più avé paura».
E poi andarono assieme, seguendo un sentiero che avanzava nella foresta e che mai nessuno aveva percorso, inoltrandosi nelle tenebre mano nella mano.
Di Mino e Sandrina non abbiamo altre informazioni. Sappiamo che Mino trascorse il resto della vita allevando poche vacche allo stato semi brado su un pascolo montano, vendendo il latte agli abitanti del borgo di Cantarana. Forse con lui viveva un donna, di cui però non si sa nulla.
Attorno al promontorio noto come Cima Sacra, nell’angolo sudorientale dell’area del Parco Naturale della Foresta d’Oro, si trova una fascia boschiva incontaminata che non fu mai devastata dagli incendi e i disboscamenti che invece toccarono a tutta la restante parte di quella regione. Leggenda vuole che sia sotto l’influsso di un incantesimo di protezione, che la fa immune da violenza, crudeltà e dominio. Ancora oggi, sul fianco occidentale di quel monte, a poche decine di metri dalla vetta erbosa, c’è una casetta fatta di sassi e legno cementati con la terra del posto. È chiamata Baracca del Vaccaro.
+++ FINE +++
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Bello questo finale che abbiamo tanto atteso e pieno di colpi di scena!
Il protagonista ha il suo meritato happy end dopo aver anche ritrovato l’amore della sua vita
Molto fluido lo scorrere della scrittura e particolare l’alternarsi di fatti e ambienti strettamente realistici con l’improvviso ritorno di un mondo magico e fatato
Aspettiamo il nuovo racconto
Grazie!
Leggo sempre volentieri le tue storie, un’efficace e omogenea miscela di tradizione e originalità, che hanno l’atmosfera magica e il sapore antico del racconto del nonno ai nipotini che ascoltano a bocca aperta nelle sere d’inverno davanti a un focolare acceso.
Continua così.
Che belle parole, Stefano, ti ringrazio di cuore!
Bello. Una storia senza tempo. Una specie di magia che ti prende forse per opera di qualche folletto fuggito dal racconto. L’ho letto tutto in due pomeriggi, senza potermi staccare, estraniandomi dalla realtà,dimenticandomi di tutto. E questo può succedere solo se chi ha scritto ha un magico talento. BRAVO
Grazie infinite.