Vi consiglio un film, Indietro Così di Antonio Morabito, pellicola non-fiction presentata alla mostra di Venezia, che vi aprirà il cervello. 
Ho potuto vedere il film a una rassegna al Cinema Farnese di Roma, non so dove sarà distribuito, dovete mettere in moto le manine e cercare. So che a ottobre 2025 dovrebbe essere in programmazione al Nuovo Sacher (sempre a Roma), ma non so quando.
Il regista Antonio Morabito è noto soprattutto come autore del lungometraggio Rimetti a noi i nostri debiti (con Marco Giallini e Claudio Santamaria), che fece parlare perché fu il primo film italiano a essere distribuito da Netflix, senza passare per le sale cinematografiche.
Al centro del film (diciamo nel ruolo di «protagonista», se si può dire per una pellicola di questo genere) c’è Stefano Romani.
Chi mi segue da tempo ha già incrociato il nome di Stefano, anche se magari non se lo ricorda. È il regista del documentario Romanina Blues, dedicato al cantautore Paolo Coppini, col quale ho collaborato per quasi dieci anni, fino alla sua scomparsa nel 2008.
Indietro Così racconta le giornate lavorative di Stefano Romani, che fa teatro-terapia con persone disabili, autistiche e pazienti psichiatrici. Il regista ha seguito Stefano per non so quanti mesi, da solo con la sua macchina da presa: come un paziente antropologo si è fatto accettare dal gruppo di persone che doveva filmare, si è fatto presenza discreta in grado di influenzare il meno possibile ciò che accadeva e darci un documento molto realistico di cosa avviene nei laboratori tenuti da Stefano.
Raccontata in questa maniera potrebbe sembrare una cosa noiosa. Non lo è. Indietro così è un film che non ha un attimo di rallentamento, in cui si ride e si piange. E soprattutto, un film che ti apre la testa.
Perché vedendo ciò che accade attraverso lo schermo, proprio per quella «distanza» che si crea tra l’immagine filmata e lo spettatore, ci si rende conto dell’enorme potenza catartica degli esercizi svolti durante i laboratori tenuti da Stefano. Noi che guardiamo restiamo coinvolti, scopriamo storie ed emozioni di persone lasciate al margine della società e ci chiediamo se avremmo mai il coraggio di fare quello che fanno loro: per esempio, sedere accanto a una sedia vuota, immaginare che ci sia sopra una persona a cui vorremmo dire delle cose e dirle, davanti a tutti.

Indietro così si svolge tutto tra strade di cemento, palazzi, marciapiedi e cortiletti di periferia. È una storia di periferie. Ma anche le nostre vite sono, per lo più, storie di periferie. Come alle persone con cui lavora Stefano, anche a noi per lo più le cose ci succedono e basta e facciamo fatica a decifrare, a dare un senso alle nostre biografie.
Vediamo un signore sempre calmo e posato che si lascia andare durante l’esercizio della sedia vuota, fino al punto di alzare la voce e dire che sì, i suoi compagni di scuola erano proprio degli stronzi. Sentire il potere liberatorio di quella parolaccia ti apre un porta nel cuore.
Durante i laboratori escono fuori storie anche molto drammatiche, che queste persone raccontano con una naturalezza assoluta. Ed è forse questo che impressiona più di tutto.
Si parla spesso del fatto che dovremmo rallentare. Ma forse a volte è proprio che dovremmo andare all’indietro.
Dice Antonio Morabito:
«Quello che Stefano vuole fare è un tEATRO dove la t sia minuscola, perché maiuscolo diventa il percorso di preparazione e la modalità con cui lo spettacolo viene costruito, fino ad arrivare al paradosso che il vero spettacolo sono le prove, e che la stessa sera della prima diventa una prova, forse la prima prova da cui far partire un’altra preparazione. Non si procede linearmente in avanti nel Teatro dell’Indietro».
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