Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
Prima Puntata☜
La lettrice e il lettore che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto sono ora a conoscenza dei fatti che portarono il nostro protagonista, appena tredicenne, a lasciare la casa paterna, gli amici e il borgo nel quale era nato, per andare come un cane randagio nel mondo ignoto. E avranno intuito che, contrariamente alle peggiori previsioni, egli sopravvisse al suo esilio, poiché all’inizio della storia lo abbiamo incontrato di ritorno a casa, adulto, in tempo per la veglia funebre del padre. È giunto il momento per noi di tornare a quella terribile notte. Avevamo lasciato il nostro Massimo detto Mino rinchiuso a chiave dentro la stanza da letto dei genitori, dopo l’apparizione di uno Spettro che aveva massacrato i suoi parenti, trasformandoli in mostri simili a lui. Scopriremmo ora cosa accadde dopo.
Solo il cadavere della madre era rimasto intatto: giaceva riverso su un fianco sopra la sedia cappottata, accanto al letto, congelato in un’espressione di terrore cereo, gli occhi sgranati e la mandibola cadente. La fioca luce delle candele s’era esaurita e il buio s’era steso come una coperta a nascondere le tracce del massacro.
Mino era rimasto a lungo rannicchiato contro il muro. Non aveva provato a forzare la porta; i suoi cognati l’avevano strattonata con tanta disperata violenza, prima d’essere assassinati, che l’avrebbero senz’altro aperta se fosse stato possibile.
Per avere un’idea di quale potesse essere lo stato d’animo di Mino in quella situazione, bisogna capire che egli non era un uomo facile da impressionare, anche perché non era la prima volta che assisteva a un evento sovrannaturale. Quand’era poco più di un bambino aveva sputato in faccia alla fortuna e non se n’era mai pentito, anche se s’era condannato a vivere una sordida esistenza alla giornata, in attesa di chissà quale squallida fine, sempre inseguito dalla miseria e sempre trovando una maniera di cavarsela. Ma la prima volta che era tornato nella casa della sua infanzia, un prodigio malefico aveva portato orrore e morte; e allora un dubbio terribile l’aveva assalito: che fosse lui la causa delle stregonerie che accadevano in quel borgo! Era forse nato sotto il segno di un malocchio di cui non aveva mai sospettato? Se si fosse tenuto lontano, si sarebbe evitata quell’atrocità?
Furono questi pensieri a spingerlo a uscire dall’immobilità nella quale s’era rifugiato: se c’era una possibilità che la sua presenza fosse il motivo degli accidenti di quella notte, doveva allontanarsi al più presto per evitare di causarne di nuovi. Si alzò tenendo le mani contro il muro e avanzò a tentoni, temendo di mettere i piedi sui cumuli di cenere in cui erano stati ridotti le sue sorelle e i loro mariti. Doveva arrivare alla porta e tentare di aprirla. Quando giunse finalmente all’uscio, iniziò per prima cosa a tastarlo, per rendersi conto di quanto fosse robusto: molto, troppo per pensare di sfondarlo. Le mani sudavano. Si sforzava di pensare in modo lucido, ma non poteva sapere cosa ci fosse fuori dalla stanza e lo atterriva anche solo stare dritto in piedi nel buio. Accarezzò la serratura per capire di che tipo fosse. Se la cavava a scassinare, ma non aveva nessun tipo di ferro e frugare la stanza nell’oscurità gli avrebbe richiesto ore di ricerche. Trovò le cerniere e ci fece scorrere le dita per capire se erano di quelle col perno, così da provare a sfilarlo, sempre che fosse riuscito a trovare un arnese con cui far leva; ma gli sembrò che fossero di quelle a caduta. Afferrò la maniglia e la strattonò: cedeva un poco, probabilmente i cognati l’avevano messa a dura prova, ma era ancora ben piantata. Fu in quel momento che gli parve di sentire un sospiro, dall’altra parte.
Rimase pietrificato per diversi minuti. Poi posò l’orecchio contro la porta, ma non sentì più niente. Non ebbe il coraggio di fare altro e si mise spalle al muro a lato della soglia, incapace di decidere se qualche mostruosità si celasse dall’altro lato o se la sua immaginazione gli avesse tirato uno scherzo. Quando finalmente si rialzò, colto da un momento di disperazione, afferrò di nuovo la maniglia e scosse la porta con tutta la forza che aveva. Poi subito la lasciò, in preda a un nuovo attacco di panico. A quel punto, nel silenzio rotto solo dal fischiare d’uno spiffero, udì una voce:
«Chi c’è là?»
Incontri
Erano in due. Gli avevano detto di aspettare e, dopo aver frugato la casa in cerca di una chiave, avevano sfondato la serratura con un pesante pestello trovato in cucina. Quando la porta si aprì, Mino dovette proteggere gli occhi dall’improvvisa luce del candelabro che uno dei due uomini portava in mano. Non appena ebbe tolto la mano dagli occhi, quello col candelabro esclamò:
«Mino? Ma sei te?»
Mino tentò di guardare, ma la luce lo accecava ancora. Allora l’altro spostò il lume di lato e ripeté:
«Sei te?»
Quando fu in grado di vedere, Mino riconobbe il volto di un ragazzino che aveva conosciuto e amato. Solo che ora apparteneva a un adulto più alto di lui, punteggiato dalla barba sfatta e senza più capelli sopra la testa.
«Gigi?», disse.
I due uomini diedero solo un’occhiata fugace alla camera da letto. Mino si fece accompagnare al piano di sotto e si accasciò su una sedia. Era così frastornato che non si rese immediatamente conto di trovarsi nella stanza da pranzo e di essere seduto a capotavola, il posto di suo padre. Guardò a sinistra, dove era solito stare quando da bambino mangiava con la famiglia, sua madre da un lato e le sorelle di fronte. Alla sua destra, dove un tempo sedeva Maria Pia, ora c’era Gigi, che lo guardava attonito. Al posto della brocca di vino di suo padre c’era il candelabro.
«Dicevano ch’eri morto…», fece Gigi.
Mino continuava a guardarsi intorno.
«Chi lo diceva?», chiese distrattamente.
«Le tue sorelle. Dicevano ch’eri andato a vive nella capitale e ch’eri morto».
«Ciò vissuto, nella capitale, ma è passato un sacco de tempo. Non ho mai scritto alle mie sorelle, non penso che sapevano niente, non so perché lo dicevano».
«Io sì», disse Gigi. «Perché te volevano morto. Loro e quelle canaglie che se le sò sposate. Pace all’anima loro. T’hanno sempre voluto morto».
«Sì, penso de sì», rispose Mino.
Nel camino ardevano tre grossi ceppi.
«Da mó che aspettavano che er vecchio se ne andava all’inferno!», proseguì Gigi. «Era tutta la vita che se magnavano le unghie al pensiero dell’eredità. Che scherzi gioca er destino!». Teneva gli occhi sull’amico, mentre parlava, come se cercasse di capire quale effetto avessero quegli eventi su di lui. Mino era evidentemente sconvolto. L’altro uomo aveva fatto un giro della casa; tornò in quel momento tenendo per il collo due bottiglie con la mano sinistra, tre bicchieri impilati uno dentro l’altro con la destra e altre due bottiglie strette sotto le ascelle. Con la bocca portava un tirabusciò.
«Me sa ch’è roba bona!», disse dopo aver posato rumorosamente il vino sulla tavola. Gigi e Mino non gli prestarono attenzione. Gigi fissava Mino, che aveva gli occhi persi nell’ombra che li circondava. L’altro stappò la prima bottiglia, riempì i bicchieri generosamente e ne mise uno davanti a Mino:
«Io sò Renato, comunque. Lavoravo pe vostro padre», disse. Era più giovane di Gigi, di una decina d’anni almeno, ma con la faccia segnata dalle fatiche e le mani grosse di chi ha fatto lavori pesanti fin da bambino. «A sto punto er padrone siete voi!», aggiunse mostrandogli il proprio bicchiere, per dire che beveva in suo onore. Mino alzò gli occhi su di lui e disse:
«Io nun sò padrone de niente».
«Embè me sa de sì, invece! E tra poco sarete più ricco pure de vostro padre! Tanto de più!»
«Nun è er momento, Renà!», fece Gigi brusco.
Mino non sembrava ascoltarli. Gigi gli prese delicatamente un braccio:
«Bevi un sorso», disse.
Mino agguantò il bicchiere e ingollò il vino tutto d’un fiato. Era un rosso invecchiato, forte, aromatico e amarognolo, un vino da ricchi. Renato glielo rimboccò.
«Ch’è successo là dentro?», fece Gigi.
Forse il vino era servito a qualcosa. Mino continuava a fissare l’oscurità, ma parlò:
«È uscito dal corpo de mi padre. C’era er cadavere steso sul letto. A un certo punto s’è aperto e sta cosa è uscita fori… Na specie de fantasma, tutto nero, co certi artigli… Ha preso le mie sorelle, i mariti… Mi madre no perché era già morta… J’ha preso un colpo, c’è rimasta… A tutti l’altri l’hanno presi… E se sò trasformati in fantasmi pure loro… Tutti tranne a me!». Sgranò due occhi spiritati: «A me non m’hanno preso! A me non m’hanno preso!». Afferrò il bicchiere senza guardarlo e tracannò tutto il contenuto.
Una piccola pianta
Si svegliò la mattina dopo nel letto della sua vecchia camera. Aveva mal di testa, doveva aver bevuto parecchio. Non aveva nessun ricordo di come era arrivato lì. Il sole era sorto da un pezzo, ma non si sentivano rumori venire dalla strada, il borgo era silenzioso come di notte. Tirava ancora lo stesso vento freddo. Mino s’alzò, scese le scale e trovò Gigi e il suo amico Renato seduti a tavola, negli stessi posti della notte precedente, come se non si fossero mai mossi di lì. Vedendolo, Gigi gli andò incontro e lo accompagnò a capotavola.
Alla luce del giorno, Mino vide com’era cambiata la stanza, dai tempi in cui viveva in quella casa. Il soffitto era tutto affrescato con motivi floreali e il tavolo era stato sostituito con uno di legno scuro e massiccio, con grosse gambe intagliate in forma di zampe di leone avvinghiate da un’erba rampicante; una delle pareti era occupata da un grande ritratto di suo padre, che lo fissava fiero e impettito da dentro una cornice intarsiata e dipinta d’oro. Mino sentiva come una corona di ferro che gli stringeva la testa. Gli portarono due fette di pane: era fresco, con la mollica densa e la crosta croccante. Avevano rovistato la casa in cerca di cibo. Il fuoco era acceso. Gigi si strofinò una pera sulla manica della giacca e la porse a Mino. Lui però non toccò nulla.
«Devo andà via», disse solo.
Gli altri due si guardarono.
«Nun c’è mica fretta», disse Gigi. «Ripòsate. È casa tua».
«No, devo andà via. Questa nun è casa mia».
«E dove ce l’hai la casa?»
Mino non rispose.
Gigi e Renato si scambiarono un altro sguardo. Dovevano aver discusso a lungo riguardo a come comportarsi.
«L’hai già detto ieri notte che vòi andà via», disse Gigi. «Però prima devi vedé una cosa».
«Che cosa? Ve metto tutti in pericolo, se resto qua».
Gigi si grattò la barba sfatta, mentre lo guardava visibilmente preoccupato.
«In che senso ce metti in pericolo?», disse. «Senti, fa’ così: adesso vieni co noi, te dobbiamo mostrà una cosa. Poi, se proprio te ne vòi andà, te ne vai. Però non c’è proprio motivo».
Mino si fece convincere a seguirli verso la porta d’ingresso. Era sbarrata da due grossi chiavistelli. Dopo averli sfilati, Gigi aprì l’uscio quel poco che era sufficiente a sbirciare con un occhio. Poi spinse poco di più e infilò la testa fuori, girandola a destra e a sinistra.
«Annamo», disse poi.
La strada era deserta e l’aria gelida. Il cielo era oscurato da un soffitto di nubi color ferro che muoveva verso meridione. A pochi metri dalla porta di casa trovarono cenere sparsa dal vento lungo la strada. Indicandola, Gigi guardò Mino:
«Questo era uno dei servi de tu padre», disse. «Gli Spettri usciti da casa tua, ieri notte, hanno ammazzato quattro persone. Mó sò tutti spaventati e stanno rintanati in casa». Incontrarono una donna. Renato le andò vicino e parlarono brevemente, lui indicò una porta e lei andò a rinchiudersi. Sentendoli passare, qualcuno s’affacciò a una finestra:
«State attenti!», disse un vecchio prima di richiudere gli scuri.
Si fermarono davanti a una porta dipinta di bianco, in un vicolo che girava attorno alla chiesa. Sulla soglia e tutto attorno c’era altra cenere sparsa.
«Questo è il servo che v’ha rinchiuso co lo Spettro, a voi e alle vostre sorelle», disse Renato. «Lo so perché me l’ha detto. Voleva la chiave pe entrà qua dentro, ma non gliel’ho data. Ha tirato fori er coltello e m’avrebbe sbudellato, ma poi è arivato uno de quei fantasmi e l’ha acchiappato. E io sò scappato».
«Voleva entrà pe prende una cosa che sta qua dentro», disse Gigi. «Dopo che v’ha intrappolati è corso qua, sperando de scassinà la porta, ma cià trovato Renato».
«Vostro padre m’aveva dato ordine de venì a controllà sta porta ogni due ore, tutti i giorni», fece Renato.
«Dopo se semo incontrati pe strada e semo venuti a casa tua, pe vedé se c’era ancora qualcuno vivo», aggiunse Gigi.
Renato estrasse dalla tasca una grossa chiave e aprì la porta con un lamentoso cigolio. Fecero entrare Mino in un ambiente trascurato e polveroso, senza pavimentazione, in cui arrivava un po’ di luce da un’unica finestra coi vetri così sporchi che non si distingueva l’esterno. Non c’era niente, eccetto un tavolino messo davanti alla finestra. Sopra il tavolino c’era un vaso e dal vaso spuntava una pianticella, la più strana che Mino avesse mai visto. Aveva due foglioline lanceolate e appuntite, dai bordi seghettati. Le foglioline erano gialle, ma non perché fossero secche. Brillavano ed erano lucide. Mino si avvicinò per vedere da vicino. Poi si voltò a guadare Gigi.
«È oro», disse Gigi.
«Spettri non se ne vedono», fece Renato quando furono usciti.
«Forse girano solo de notte», rispose Gigi.
Riaccompagnarono Mino nella casa padronale. Renato ravviò il fuoco e portò un’altra scorta di bottiglie. Avevano trovato anche mezza forma di caciotta di pecora stagionata, da accompagnare col pane.
«Tu padre ha sempre saputo che era colpa nostra se la foresta non era bruciata tutta come voleva lui», disse Gigi. «Ma non ha mai scoperto quello ch’è successo, del viaggio a Monte Muto, delle streghe. Comunque sia ha fatto piazza pulita de gran parte dell’alberi e poi ha recintato tutto. Ha fatto venì gente da lontano, tutti morti de fame disposti a lavorà come schiavi pe quattro soldi. Senza offesa, Renà».
«Embè, ero morto de fame eccome!», rispose Renato. «Sor Fausto nun era no stinco de santo, co tutto il rispetto, però m’ha dato ’n tetto e qualche spiccio pe mette insieme er pranzo co la cena. Chi altro me se pijava, a me? Nun pensate male, Signor Mino, ma io me sò fatto la galera…»
«Non me chiamà Signore», rispose Mino. «Non sò più Signore de te. E pure io me la sò fatta, la galera».
Questa risposta non lasciò Gigi indifferente. Guardò il vecchio amico per un attimo, poi aggiunse rivolto a Renato:
«Comunque sia ve pagava na miseria. Lui invece andava in giro su certi cavalli e mandava le figlie in carrozza».
«E la gente se scappellava, quanno passava?», disse Mino con un’espressione a metà tra un ghigno di scherno e una smorfia di disprezzo.
«Embè sì, era un Signore. Ma voleva ancora de più. E così s’era procurato sta piantina d’oro… »
«Lo so io com’è andata», lo interruppe Renato, che s’aggiustò sulla sedia e si rimboccò il bicchiere preparandosi a raccontare: «Sor Fausto, tra le altre cose, prestava soldi a strozzo. Era uno degli affari migliori che faceva. Gente co le toppe ar sedere non è che mancava, facevano la fila pe indebitasse co lui fino ar collo. C’era sto tizio ch’aveva fatto i buffi, uno de Monte Pellaccia. Fausto ha mandato un paio dei suoi a cercallo. Questo era un disgraziato che s’era giocato tutto a carte e nun ciaveva na lira bucata, ma disse che pe pagà er dovuto ciaveva na cosa capace de fà diventà Fausto ricco come un re. Tirò fori un mucchio de semi. Diceva che da quei semi ce nasceva na pianta d’oro. Fausto giustamente ha pensato che quello lo voleva pijà per naso: l’ha fatto sgozzà. Hanno buttato er cadavere dentro a ’n fosso sulla strada pe Monte Pellaccia. Solo che poi, sarà passato un annetto, ha cominciato a girà la voce de un certo contadino ch’era diventato ricco coltivando ortica d’oro. Così se diceva: ortica d’oro! Era un tale Berto che ciaveva un orticello, meno de mezzo rubbio de terraccia secca e scoscesa, sul fianco del Monte Pellaccia. Allora Fausto s’è ricordato de quei semi che j’aveva dato er disgraziato che aveva fatto sgozzà. Non l’aveva mica buttati. Li mise dentro a un vaso e qualche tempo dopo è spuntata quella piantina che v’avemo fatto vedé».
«È oro, Mino, oro vero», intervenne Gigi. «Capisci che vole dì? Oro che pianti i semi e cresce! Co tutta la terra che ciaveva, tu padre poteva diventà ricco che manco un sultano! Immagina distese e distese de piante d’oro!»
«Ha fatto in tempo a vedella spuntà, la pianticella», disse Renato. «Ma tutta sta ricchezza nun se la goderà».
«Erano anni che stava male», disse Gigi. «Le tue sorelle aspettavano solo che se ne andasse all’altro mondo».
«E invece ce l’hanno accompagnato, all’altro mondo», aggiunse Renato. «Pace all’anima loro. Mó è tutto vostro, sor Mino!»
Mino continuava a sentire la corona di ferro che gli stringeva la testa. Spostava lo sguardo dai due uomini a suo padre, che nel quadro sulla parete era ancora un Signore di mezza età, forte, coi lunghi e folti baffi ancora castani. Si sentiva molto confuso.
«Io non ho capito na cosa», disse. «Ma questi de Monte Pellaccia andove l’hanno presi sti semi de ortica d’oro?»
«Questo nessuno lo sa», rispose Renato.
«Però girano delle voci», intervenne Gigi. «E io un sospetto ce l’ho. A me me pare tanto roba de magia…»
«Dici quella storia del folletto…?», fece Renato.
Mino e Gigi si scambiarono una lunga occhiata silenziosa.
«Pe me sò tutte frescacce», fece Renato mentre stappava l’ennesima bottiglia. «La pianta d’oro sarà pure na faccenda de magia, ma i folletti sò na cosa che se dice pe fà paura ai bambini, così non vanno da soli nel bosco».
«Aldo l’hai più visto?», cambio discorso Mino, vuotandosi il bicchiere in gola.
Mentre Renato glielo rimboccava, Gigi abbassò lo sguardo:
«Aldo non c’è più», disse porgendo a Renato il bicchiere vuoto. «È stato male parecchio, ciaveva sempre dolori alla testa, alla fine manco s’alzava più dal letto. A Pasqua sò tre anni che se n’è andato».
Mino ebbe una stretta allo stomaco. Aveva sempre immaginato che i suoi vecchi amici avessero avuto vite serene nel vecchio borgo, che solo lui avesse faticato e sofferto.
«Ciaveva famiglia?», chiese.
«Moje e due ragazzini. Da qualche mese il maschio s’è messo a sgobbà nei campi de tu padre, pe portà qualche soldo a casa. È un bravo ragazzo. Prima non lo faceva perché Aldo non voleva: ‘piuttosto che mandallo a lavorà da Fausto Serracchi, me vendo pure le mutande’, me diceva».
«E Peppe?», chiese Mino.
«Peppe è finito a lavorà dar cognato, a Cinello. Penso che te la ricordi la sorella Sandrina, no? Ciavevi na cotta…»
Mino si spostò sulla sedia. Il vino si faceva sentire.
«Non era na cotta», disse.
Gigi lo guardò col bicchiere a mezz’aria.
«C’ha fatto Sandrina? Ha sposato?», chiese Mino.
«Sì, ha sposato. Dopo i fatti dell’incendio avevano perso tutto. Te ricordi che ciavevano un po’ de terra al confine co la foresta? L’orto, gli ulivi, la vigna… Era bruciato tutto. Er padre doveva vende la terra andata in fumo a Fausto, che je faceva pure un buon prezzo; e invece s’è intignato, è andato dal Signore de Cinello e ha detto che gliela regalava. Pe fà dispetto a tu padre. J’ha dato la figlia da sposà e la terra in dote. Ciaveva diciassette anni Sandrina, quando l’hanno maritata a sto tizio de quaranta ch’era rimasto vedovo, e da allora vive dentro ar palazzo de Cinello. Ha fatto solo un fijo. Ogni tanto viene qua in carrozza, a trovà la madre. Quando arriva tutti che se scappellano e je dicono quant’è fortunata. Ma a me nun me pare tanto felice».
Mino guardava il pavimento che cominciava a oscillare.
Gigi rimboccò i bicchieri.
«Eri proprio innamorato?», disse dopo un po’.
Mino bevve ancora. Poi disse:
«Non è che ero».
Gigi lo guardò a lungo.
«Na vorta se dicevamo tutto…», disse.
«Eh no», rispose Mino. «Mica tutto. Eravamo come fratelli, ma certe cose sò difficili da dì pure ai fratelli».
«Ogni tanto se vedemo, co Peppe», fece Gigi. «Quattro chiacchiere, un litro de bianco. Lo sai che m’ha detto, na volta? Che l’unico rimpianto de la vita sua era che lui e sua sorella se l’erano presa co te, pe colpa de tu padre. Che te pensava spesso e se chiedeva che fine avevi fatto».
Un fuoco di notte
Era ancora notte. La grande casa era silenziosa. Gigi aveva insistito che Mino andasse a cena da lui, nella casetta che aveva sopra alla bottega di vini e olii che gestiva con la moglie. Ma Mino non aveva voluto saperne, disse di voler restare a riposare davanti al camino. Effettivamente, mentre fuori il cielo s’arrossava in un cupo tramonto e dentro casa s’infittiva l’ombra, s’era appisolato su una poltrona foderata d’un tessuto pesante e tutto ricamato, accanto al focolare, con la giacca rattoppata stesa addosso. A notte fonda s’era svegliato infreddolito, perché era rimasta solo un po’ di brace. Doveva essere trascorsa la mezzanotte. Riattizzò il fuoco e lo usò per accendere un paio di candele, poi andò in cucina a cercare cibo. Trovò delle noci e un altro pezzo di caciotta. S’infilò la giacca e si mise una manciata di noci in una tasca e un pezzo di formaggio nell’altra. Tornò nella sala da pranzo e soffocò il focherello con la cenere, poi andò alla porta di casa, recuperò la sacca con la quale era arrivato la sera precedente, aprì i chiavistelli e sbirciò fuori. Poi uscì.
Nella piazza aleggiava uno Spettro, immobile tra la fontana e il sagrato della chiesa. Mino tornò indietro e s’infilò in uno stradino che si snodava tra le case della parte bassa del paese. Pensò di aver sopravvalutato il suo coraggio, ma era così convinto di doversi allontanare il prima possibile dal borgo che resistette alla paura. Era giunto alla porta del paese quando s’accorse d’improvviso di un altro Spettro fermo proprio sotto l’arco, quasi indistinguibile nell’oscurità. Mino s’accucciò dietro un angolo, ma lo Spettro si mosse lentamente in direzione della piazza. Non appena fu sufficientemente lontano, Mino spiccò una corsa e uscì da Lapile, sotto un cielo senza luna e senza stelle, livido di nuvole.
Non s’era portato una lampada, perché non voleva rischiare di attirare l’attenzione degli Spettri. Seguì la strada che andava verso Cinello, il colle dei Sassi sulla destra. Ma in quel buio lugubre, dove a mala pena si distinguevano le sagome degli alberi, il suo sguardo fu attratto da una lucina fioca che tremolava lontano, tra i Sassi. Fu colto da un pensiero che gli fece venir voglia di avvicinarsi, per vedere se gli riusciva di scoprire chi mai fosse così scriteriato da accendere un fuoco tra le caverne, in una notte così pericolosa. S’inerpicò per il viottolo che risaliva il colle. Gli parve che fosse passato appena un giorno dall’ultima volta che c’era stato, perché non era cambiato di una pietra. La luce palpitava dall’interno di una delle grotte, proprio quella che aveva immaginato. Quando fu abbastanza vicino, chiamò:
«Pelliccia?»
Non rispose nessuno, né si udì alcun rumore, ma chiamò ancora:
«Pelliccia? Sei te? Sò Mino».
Solo il crepitio della fiamma infrangeva il silenzio.
«Te ricordi? Er ragazzino che stava sempre insieme a Peppe, Aldo e Gigi».
Nessuna risposta. Mino pensò che dovesse essersi allontanato, sempre che ad accendere il falò fosse stato il poveraccio tardo di mente che conosceva tanto tempo prima. Se mai fosse stato ancora vivo. Dopo aver atteso abbastanza a lungo, tornò sui suoi passi. Ma poi gli venne in mente che voleva, anzi doveva vedere in cosa suo padre aveva trasformato quella regione, dopo averla strappata col fuoco a uomini, piante e animali. All’andata era venuto su da Cinello, ma decise che sarebbe tornato verso sud passando per le montagne, magari facendo tappa a Monte Muto. Si rimise così sul viottolo che scavalcava il colle e s’era già lasciato alle spalle un po’ di passi, quando sentì:
«Mhhh!»
Si voltò e vide una una grossa sagoma.
«Mhhh!»
«Pelliccia?»
«Mhhh!»
Si avvicinò.
«Te ricordi de me? Sò Mino».
Alla fioca luce tremebonda che veniva dalla caverna, Mino vide un vecchio con la barba che arrivava all’inguine, lunghissimi capelli bianchi e due gambette nude e scheletriche che spuntavano da una vecchia pelliccia.
«Sò cambiato tanto, me riconosci?», fece Mino.
Pelliccia annuì e rimase fermo a fissarlo. Poi fece un gesto che Mino non ricordava di avergli mai visto fare: congiunse le mani davanti al petto, come per pregare o per ringraziare. E poi chinò la testa. Si girò e imboccò l’entrata della sua grotta. Dopo pochi istanti riemerse e si avvicinò a Mino guardandolo negli occhi. Pelliccia non guardava mai qualcuno dritto in faccia, pensò Mino. E non si avvicinava mai a meno di una decina di passi. Quando giunse a una distanza tale da poterlo toccare, Pelliccia mostrò a Mino una cosa che teneva tra le mani: un mucchio di pezzetti di legno legati con delle corde.
«Mhhh!»
Mino guardò l’oggetto per un lungo momento. Poi ricordò:
«Er Marchingegno! L’hai conservato pe tutto sto tempo?»
«Mhhh!»
Mino lo prese. E in quel momento una vocetta acuta attraversò il buio, sorprendendolo:
«Chi non muore si rivede!»
Mino si voltò e vide, dal buio di una delle grotte, lampeggiare due occhietti a mandorla.
+++FINE DELLA SETTIMA PUNTATA+++
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Alcuni segreti di questa saga sono stati svelati ma ora stiamo aspettando con ansia di conoscere le sorti del povero Mino e dei personaggi a lui legati
Abbiamo ritrovato forse l’origine delle misteriose piantagioni d’oro del Canto degli appestati e il maligno folletto che purtroppo nn promette niente di buono
Attendiamo impazienti il finale!
Grazie!