Pasquetta. Passeggio in un parco tenendo per mano mia figlia unenne, che muove i suoi passetti barcollanti su un sentierino sterrato. Passiamo con la nostra andatura lenta davanti a una coppietta seduta nell’erba. Così, involontariamente, sento un brandello di conversazione.
Lui è in piena crisi esistenziale:
«Cioè, tra poco esce il nostro terzo album! Insomma, io sono il batterista di una band! Noi siamo una vera band, mica il cantautore che va con la chitarrina!»
A questo punto vi piacerebbe leggere che l’ho gelato con una battuta fulminante. Ma non sto a quel livello, non la prendo neanche sul personale.
Diciamo che mi interessa più il lato sociologico della cosa. Mi interessa il perché uno si sente fico se suona in una ruuuock baaand (da gridare puntando le corna verso il cielo) e un altro si imbarazza a spiegare che sai, io scrivo canzoni, insomma suono la chitarra, cioè, faccio delle cose (da dire con le mani in tasca mentre ci si guarda i piedi).
Ammettetelo, anche voi pensate così. Immaginate il tipo di reazione che avete difronte ai due tipi.
Si è molto parlato dell’ultimo film dei fratelli Cohen (A proposito di Davis, ispirato alla vita di Dave Van Ronk). Il discorso finisce sempre su Nick Drake, che è forse il caso più eclatante di folk singer ignorato dai contemporanei e osannato dai posteri.
E ogni volta a me viene in mente la vicenda di Vashti Bunyan, probabilmente perché Just another diamond day è in assoluto uno dei miei album preferiti. Siccome sono certo che la maggior parte dei miei lettori non la conosce, mi permetto di buttare giù due righe su di lei.
Nel ’67 scrive una serie di canzoni durante un folle viaggio su un carro di legno trainato da un cavallo. Parte da Londra per raggiungere una comune hippie organizzata da Donovan (sì, lui, il cantante) nelle isole Ebridi. Ci mette talmente tanto che quando arriva non c’è più nessuno, ma un amico con il fiuto per i geni incompresi, Joe Boyd, il produttore di Nick Drake, trasforma quelle canzoni in un disco. L’album è stupendo e, ovviamente, un fiasco commerciale.
Vasthi torna nelle Ebridi e per trent’anni vive in campagna con gli animali. Poi un giorno si stanca, si trasferisce a Edimburgo, si compra un computer, si collega a internet e scopre che Just another diamond day è un disco di culto. Le rarissime copie si vendono a prezzi pazzeschi.
Oggi in molti dichiarano di ispirasi a lei (anche io, ma io non conto, si parla di gente famosa tipo Devendra Banhart) ed è stata definita madrina del Freak folk.
Forse ancora più pazzesco è il caso dell’americano Sixto Rodriguez. La sua vicenda è stata narrata in un bellissimo film-documentario vincitore dell’Oscar (Sugar man, di Malik Bendjelloul).
Il povero Rodriguez smette di rincorrere il successo nei primi anni ’70 e per tutta la vita si spezza la schiena facendo l’operaio e vivendo in povertà. Il fatto è che è famosissimo in Sudafrica. E solo lì. I sudafricani credono che lui sia morto da un pezzo e lo venerano come un eroe. Ma lui non ne sa niente. Una vicenda incredibile, consiglio vivamente la visione del film.
Leggendo di storie così, a me viene da pensare: chissà quanti invece sono stati dimenticati per sempre.
C’è una particolare predisposizione dei folk singer, dei chiamatelicomevipare, insomma dei cantanutori con la chitarrina a farsi snobbare, dimenticare, disprezzare?
Secondo me è che la musica ha bisogno del contesto adatto. E nulla è meno adatto al cantautore con la chitarrina del mondo di oggi.
Siamo talmente immersi nel rumore che una persona che sussurra poesie, come Nick Drake o Vashti Bunyan, o intona canzoni di protesta, come Rodriguez, risulta quasi sempre fuori contesto, inadatta, noiosa, dilettantesca.
Che poi la Bunyan e Rodriguez sono passati attraverso il periodo d’oro del folk revival, negli anni ’60 e ’70, altrimenti è probabile che non sarebbero neanche riusciti a incidere un album.
La canzone non è uno spettacolo pirotecnico o un film in 3D. È più una conversazione pacata. E oggi tutto è contrario alla pacatezza. La musica sembra seria solo se c’è una vera band, cioè chitarre urlanti, bassi col subwoofer, batterie sovraincise dodici volte, ragazzini coi capelli assurdi.
Per uno salvato da internet, quanti geniali poeti sono caduti nel dimenticatoio per rimanerci?
E allora io, al di là dell’analisi sociologica, ho anche sviluppato una certa insofferenza verso tutto questo rumore. E sì che di musica di vere band ne ho ascoltata e suonata tanta. Ma mi sono rotto.
Perciò, quando andrò a vivere sul cucuzzolo della montagna (quello che invoco ogni volta che vedo un telegiornale) mi porterò solo i dischi dei cantautori con la chitarrina.
Anzi, neanche. Mi porto solo la chitarrina e quelle canzoni me le suono da me.
Oh, però vi lascio l’indirizzo. Che se per caso internet fa il miracolo e divento famoso, cazzo venitemelo a dire, non fate passare 30 anni.
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