Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla☜Prima Puntata
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Delle sue montagne, Antonio conosceva ogni sasso.
Aveva a disposizione parecchie ore di luce e si dirigeva verso una sella rocciosa che separava due altopiani. Da lì intendeva proseguire lungo la cresta fino a una vetta dalla quale avrebbe potuto vedere la sua valle e controllare se la zona era sicura. C’era un percorso che dalla cima scendeva dritto a casa sua, talmente ripido che i cavalli del tizio col naso troppo lungo e del suo compare non avrebbero potuto passarci.
Lo avevano seguito un bel po’, per assicurarsi che si allontanasse a sufficienza. E poi erano rimasti a guardarlo andare via gridandogli dietro:
«Se ti rivediamo ti spariamo senza avvisarti!»
Esplosero in aria colpi a intervalli regolari, uno ogni quattro o cinque minuti.
Antonio se ne era andato in silenzio, seguito dall’eco degli spari tra le montagne, ma senza alcuna intenzione di farsi cacciare dalla sua terra.
Quando arrivò sulla cresta, era passato da tempo il mezzogiorno. La suola lisa della scarpa destra si era bucata definitivamente. Aveva fatto un lungo giro per poi tornare indietro inerpicandosi su un sentiero che conoscevano in pochi.
Camminava in bilico fra i due versanti della montagna. Quello sinistro era caldo e indorato dalla luce del pomeriggio, il destro era completamente in ombra e battuto da un vento freddo. Da lì arrivavano grandi nuvole bianche. Antonio accelerò il passo.
E quando vide la vetta stagliarsi davanti a lui, le nuvole avevano coperto tutto il cielo ed erano diventate nere.
Doveva arrampicarsi per alcune decine di metri fino alla cima, per verificare che in quella parte di montagne non ci fossero altri ficcanaso. E poi scapicollarsi a trovare un rifugio: aveva poco tempo a disposizione prima di essere investito dalla pioggia. Anche se la tosse era quasi del tutto passata, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una notte sulle montagne con indosso dei vestiti fradici.
Non perse tempo a cercare il sentiero, si arrampicò tagliando dritto, usando le mani e rischiando di scivolare più di una volta. In pochi minuti fu sulla vetta, una piccola terrazza piatta e pietrosa.
Il vento era così forte da impedirgli di tenere gli occhi aperti. E siccome gli strappava il berretto dalla testa, se lo tolse e se lo mise sul lato destro della faccia, per proteggersi.
Vide subito la sua casetta di pietra grigia, ma ebbe un tuffo al cuore: il praticello era scomparso, così come gli alberi da frutta, e i campi d’oro arrivavano a circondare le mura; tutto era immobile, porta e finestre sembravano sprangate.
Spostò lo sguardo poco più a est, verso il monte del paese, e vide che le case affacciate sul suo versante avevano tutte le persiane serrate. Tutta la vallata appariva deserta, abbandonata al vento e al silenzio. Persino i campi d’oro sembravano cupi, nella luce grigia. Comunque non c’erano pericoli in vista, perciò sarebbe sceso da lì.
Un lampo balenò a sinistra squarciando l’aria con una luce tetra. Prima di lanciarsi a precipizio giù dalla vetta Antonio volle dare un ultimo sguardo a casa sua. Ma fu attratto da qualcosa che si muoveva tra i campi: sembravano due donne e non gli pareva fossero armate.
Un tuono esplose nel cielo e Antonio saltò dallo spavento.
Poi, col petto che ancora tremava affrontò il versante nord della vetta, che scendeva ripidissimo e scivoloso dritto sulla valle.
Il Diluvio
Aveva seriamente rischiato di cadere, proprio sul tratto finale: mentre le prime grosse gocce di pioggia gli colpivano il naso, una pietra gli era improvvisamente rotolata via da sotto la scarpa bucata, nel punto in cui la discesa diventava uno strapiombo.
S’era aggrappato a una pietra spigolosa e se l’era cavata con una brutta botta al ginocchio sinistro.
Giunto ai piedi della montagna, guardò le coltivazioni d’oro che si estendevano a perdita d’occhio e non andò oltre, perché aveva trovato rifugio sotto un’ampia sporgenza rocciosa.
Mentre lampi e tuoni tempestavano la valle, la pioggia scendeva fitta facendo tintinnare le foglie in un tetro concerto. Antonio attese paziente e quando il temporale si fermò, si avviò verso casa.
Tracce cancellate
Le scarpe affondavano nel fango. Il temporale aveva lasciato dietro di sé un’aria gelida.
Attraversò i campi d’oro, incurante dello scampanellio che provocava, e in breve si trovò di fronte alla porta di casa. Non c’era più alcuna lanterna appesa fuori, tutto era spento e sbarrato. I suoi timori più orrendi si stavano materializzando. Ruppe un vetro ed entrò da una finestra. La casa era abbandonata da tempo, spoglia e fredda.
Salì a visitare le camere da letto, ma ogni traccia della sua famiglia era stata cancellata, non c’erano neanche più i materassi.
Quando ridiscese al piano inferiore rimase fermo davanti al camino spento per diversi minuti. Poi aprì lo zaino e prese il coltello, con l’intenzione di tagliarsi le vene dei polsi.
Ma non lo fece. Pensò che erano successe troppe cose, troppi eventi straordinari lo avevano condotto fino a quel punto: aveva una missione da compiere, prima di mollare la presa.
Così uscì di casa e andò verso il paese, mentre il sole iniziava a calare.
E quando arrivò alla strada che saliva ripida fino alla porta del paese, vide due donne che si inerpicavano poco più avanti di lui.
Le chiamò, ma quelle si immobilizzarono, come spaventate. Allora fece loro un segno di saluto e accelerò il passo.
«Chi sei?», chiese una delle due, che era molto più anziana dell’altra.
«Te sei Elvira», disse Antonio, «e quest’altra è tu fija Fernanda. Sò Antonio er cantastorie!»
Ci fu un lungo silenzio, poi la donna disse in un sussurro che suonò terrorizzato:
«Antonio! Nun è possibile! Tu sei morto!»
«No, ma è mejo che se levamo da qua!», rispose Antonio voltandosi a guardare alle proprie spalle.
La ragazza seguì il suo sguardo ed emise un grido, vedendo che uno Spettro li stava raggiungendo lungo la salita.
Madre e figlia erano uscite in cerca di qualcosa da mangiare. Erano andate a caccia degli unici animali che abitavano ancora la valle d’oro: i topi.
«Se nun sò le guardie sò sti fantasmi maledetti!», imprecò Elvira col fiatone fuggendo lungo la salita seguita dalla figlia. Si fermò davanti alla porta di una casetta appoggiata alle mura esterne del paese. Antonio la conosceva, era la casa del Sor Pietro, un vecchio pastore con moglie e due figli. Elvira bussò forte.
Ad aprire la porta fu un ragazzo.
Notizie e vino annacquato
Si chiamava Oreste e aveva circa venti anni.
Apparecchiò sul tavolo quattro bicchieri e una brocca di vino bianco allungato con l’acqua, tutto quello che aveva da offrire.
Antonio prese il cadavere del topo che Elvira aveva ammazzato tra i campi e senza dire niente lo gettò nel fuoco del camino.
«Sò i topi a portà la malattia», disse severo.
«In tanti li mangiano!», protestò Fernanda.
«Lo so», rispose Antonio. Ma la ragazza insistette:
«Sò li Spettri che portano la malattia, lo dicono tutti!»
«Nun è così. Sò i topi che portano la malattia, nun li dovete magnà!»
Oreste raccontò di come viveva solo chiuso in casa da molti giorni. Aveva dovuto trascinare i cadaveri dei genitori e della sorellina fino alla fossa comune. Il Sor Pietro, sua moglie e la figlia tredicenne giacevano in una grossa buca fuori dal paese, insieme a decine di altri corpi.
Antonio vide che Oreste si schermiva e non voleva essere visto in lacrime da Fernanda. E vide che Fernanda distoglieva lo sguardo: i due ragazzi si piacevano.
«Solo li stupidi e l’infami non piangono mai. Bevi», disse Antonio al ragazzo versandogli un po’ di vino dalla brocca. «Sei stato forte. Perché nessuno t’ha aiutato?»
Gli altri lo guardarono in silenzio.
Fu Elvira a parlare.
Il Signore del paese, il vecchio Peppe Sassosecco, era stato tra i primi ad ammalarsi di tosse. Era morto nel giro di una settimana e l’eredità era andata all’unico figlio Mario Livio Filippo.
Il giovane Sassosecco aveva organizzato una Guardia Cittadina, fatta di una mezza dozzina di caporali che lavoravano già nei campi d’oro del vecchio.
Quelli della Guardia Cittadina impedivano a chiunque di uscire di casa: per evitare di diffondere il contagio, dicevano. Ovviamente questo non valeva per quelli che lavoravano nei campi d’oro, cioè la maggior parte degli uomini.
Il Dottor Nino, il vecchio medico del paese, s’era messo a protestare che invece bisognava lasciare a casa anche gli uomini, se no avrebbero portato la tosse alle famiglie. E diceva che si doveva organizzare un ricovero per i malati e separarli dagli altri, altrimenti avrebbero infettato anche i familiari.
«Povero Dottor Nino», intervenne Fernanda, «m’ha salvato dalla polmonite quanno ero bambina!»
«L’hanno preso a bastonate che manco a ‘n cane!», disse con rabbia il ragazzo. «Ma ciaveva ragione! Qua a casa mia me sò salvato solo io che stavo al pascolo co le pecore dalla fine dell’autunno! Quanno sò tornato erano tutti morti!»
«E co tutte le botte che j’hanno dato», intervenne Elvira, «il giorno dopo ha ripreso a fà il giro delle case, a visità i malati! Ma sò tre giorni che non se fa vedé, me sa che alla fine se l’è presa pure lui…»
Doveva essersi ammalata almeno metà del paese, ma nessuno aveva un conto dei vivi e dei morti.
I corpi venivano ammassati nella fossa comune, a portarceli erano i parenti, quando c’erano. Fin troppe case custodivano i cadaveri di interi nuclei familiari.
Il capo della Guardia Cittadina era un tipo chiamato Sorrisone.
Lo chiamavano così per il modo in cui si comportava: parlava sempre a tutti in modo gentile, ma poi ordinava punizioni atroci che venivano eseguite da altri. Se ti andava bene, ti faceva dare poche bastonate. Se ti andava male ci restavi storpio o morto.
«È uno alto e magro col naso troppo lungo?», chiese Antonio, «che gira su un cavallo basso e massiccio?».
Il ragazzo e le due donne annuirono stupiti.
«L’ho incontrato sulle montagne, m’ha dato er benvenuto col fucile. Stava insieme a un altro. Ma non j’ho detto chi sò».
«Hai fatto bene!», strillò Elvira. «Se te scopre t’ammazza! È stato lui a dì a tu moje che sei morto in città! L’ha costretta a cede casa vostra!»
«Che sai de Adele e i bambini?» chiese Antonio drizzandosi improvvisamente sulla sedia.
Lo straniero incappucciato
Tra le strade di pietra soffiava un’aria gelida, le poche lanterne accese dondolavano cigolando. Antonio indossava un vecchio mantello, col cappuccio calato sul viso, e si appoggiava a un lungo bastone. Si fermò davanti alla porta di legno di una vecchia cantina, piuttosto malconcia, incastrata alla fine di tre gradini di pietra che scendevano scivolosi. Bussò forte, molte volte. Quando finalmente una voce di donna chiese timorosa «chi è», rispose solo:
«Sò io».
E la porta si aprì.
Erano tutti vivi e rimasero abbracciati per molti minuti, lui Adele e i bambini. Quando furono più calmi e lacrime e risate lasciarono il posto alle parole, Adele si accorse delle tante rughe che solcavano il viso di suo marito, ma non disse niente. Nella cantina c’era forte odore di muffa, non c’erano finestre e gli unici arredi erano tre brande, un tavolaccio spaccato e una sedia.
Spensero la lampada e si accoccolarono tutti insieme su un’unica branda, i bambini in mezzo. Erano terribilmente magri.
Quando i piccoli furono completamente abbandonati al sonno, Antonio e Adele si sedettero su un’altra branda e parlarono a lungo. Lui le raccontò del lavoro in città, dei cadaveri sparsi nelle strade, del folletto, del viaggio nella foresta e dell’incontro con gli Spettri, di come si fosse ammalato, del vaccaro Mino e dei bulbi di giglio.
Poi chiese di casa loro e Adele si rabbuiò:
«Quel maledetto! Un tizio che chiamano Sorrisone», disse lei stringendo i pugni, «s’è presentato a casa dicendo che eri morto, che ce avrebbero dato qualcosa pe la terra. Ho aspettato qualche giorno, ma alla fine ho dovuto di de sì, non ciavevamo più un soldo, Antò. Non ce volevo crede che eri morto, ma che potevo fà? Siamo venuti qua, pensavo che poi avremmo trovato na sistemazione decente, ma hanno cominciato a sta tutti male. Stanno a morì tutti, Antò. È questione de giorni, toccherà pure a noi. Pure er dottore s’è ammalato».
«No, non moriremo tutti», disse Antonio. «Come sò guarito io possono guarì pure gli altri. Devo annà, Adè!». Prese la sacca contenente i bulbi da dentro lo zaino poggiato a terra e gliela mostrò. «Devo annà subito dal Dottor Nino. È il primo che dev’esse salvato, se non sta già all’altro mondo».
«Domani, Antò, domani. Adesso ce sò li Spettri che girano», fece Adele.
«Non te preoccupà degli Spettri», disse lui accarezzandole il viso. «Non me possono fà più niente».
Ma pareva che neanche gli Spettri Neri avessero voglia di vagare nella notte fredda. Solo la luna lo guardava aggirarsi tra le stradine stremato, appoggiato al bastone e incappucciato nel mantello scuro.
La porta del Dottore era socchiusa.
Antonio entrò bussando. Era tutto buio e accese una piccola lanterna che portava con sé. C’era cattivo odore. Trovò il vecchio abbandonato su un letto, febbricitante.
Aprì la finestra per far uscire l’aria malsana, tirò fuori la corteccia di salice e ne staccò un pezzetto, prese la sacca coi bulbi di giglio, ne tagliò una fetta e preparò il decotto. Poi sollevò il dottore di peso e glielo fece bere a forza. Si addormentò sulla sedia e passò in quel modo il resto della notte. Alle prime luci dell’alba aprì gli occhi e somministrò un’altra dose al dottore.
Alla fine della mattina, il vecchio era di nuovo in grado di parlare e ascoltare.
E Antonio si fece dire quanti uomini in salute potessero esserci ancora in paese, in grado di impugnare un’ascia, un coltello o un bastone.
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Elisabetta says
Dai Antonio che ce la fai! La 7ma puntata è attesissima !
Complimenti perché questa 6a Epuntata è veramente un piccolo capolavoro
Luca Ricatti says
Addirittura!
Grazie!
Titti says
Che ansia Luca, aspetto la settima puntata fai presto!! Bellissimo! Complimenti!
Luca Ricatti says
Ciao Titti,
grazie infinite per il tuo entusiasmo!
Ce la metto tutta, ma le tempistiche sono quelle… Abbiate pazienza!
Monica Iturri says
Caro Luca. mi é piaciuto moltissimo il racconto. Sono una studente d´italiano. abito in l’Argentina. e cercando qualcosa da leggere in italiano ho trovato il tuo blog. D’ora in piú saró la tua lettora fidele. Ti ringrazzio e mi congratulo con te.
Luca Ricatti says
Ciao Monica,
ti ringrazio moltissimo per questo commento! Mi rende molto felice darti qualcosa di utile e piacevole e anche che ci siano persone come te che si appassionano alla cultura italiana!
Anonimo says
Complimenti…..l a mia attenzione non è ma venuta meno!
Luca Ricatti says
Grazie mille!