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Prima Puntata☜
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Ora che la nostra lettrice o il nostro lettore sono a conoscenza di quale orrore attendeva il protagonista al ritorno nella casa di famiglia e a quale sciagura fossero destinati i suoi familiari, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. Inizieremo da un mattino assolato di tanti anni prima.
Quattro ragazzini s’erano dati convegno tra i Sassi di Lapile. A quel tempo, al borgo di Lapile si arrivava solo percorrendo la strada sterrata che saliva da Cinello. La carrareccia serpeggiava piena di buche fino alla Porta del paese e passava all’ombra della collina in cui erano scavati i Sassi, che sembravano spiare i pochi viandanti come tanti occhi neri. Le grotte che si aprivano nel tufo erano abbandonate da tempo immemore, le poche centinaia di abitanti vivevano all’interno delle mura. Tuttavia, quelle dimore ancestrali continuavano a essere frequentate da quelli che avevano esigenza di stare lontani da occhi indiscreti: i bambini ci andavano a giocare, i ragazzi ci portavano le ragazze e alcuni degli adulti ci svolgevano traffici che richiedevano discrezione.
I ragazzini di cui dicevamo avevano tra i dieci e i tredici anni e si erano incontrati lì per completare in segreto la costruzione di un congegno che avevano progettato nei giorni precedenti. L’arnese era così composto: alla estremità di un bastoncino della lunghezza di un avambraccio erano stati assicurati tre cordini, ognuno dei quali era legato all’angolo di un piccolo quadrato realizzato con quattro legnetti. Nel progetto iniziale i quadrati erano cerchi, perché così era fatto il modello che avevano visto nelle mani di un mercante di cianfrusaglie, al mercato della domenica, e che si erano adoperati per ricopiare. Ma siccome non avevano a disposizione attrezzi da falegname, né un pezzo di legno abbastanza grande da lavorare, avevano dovuto rassegnarsi al fatto che realizzare non uno, ma ben tre cerchi era fuori dalla loro portata. Così, avevano deciso di sostituire la forma circolare con una che si poteva ottenere con quattro rametti, legati con dei fili d’erba. La scelta dell’erba come spago era stata imposta loro dalla scarsità di cordino: il poco che avevano sgraffignato dalla bottega del sor Checco non sarebbe bastato per annodare anche i tre quadrati. Immobilizzare tutti quegli angoli usando solo fili d’erba era stato difficile e infatti i ragazzi ci lavoravano da due giorni. Peppe s’era portato il lavoro a casa e anche Aldo e Mino. A Gigi, che era il più piccolo, avevano affidato il bastoncino e il prezioso spago, raccomandandosi di tenerli ben nascosti. Ora il Marchingegno era pronto.
Il gioco consisteva in questo: si dava uno strattone per far alzare in aria i tre quadrati e poi si cercava di infilarne il più possibile col bastoncino, prima che ricadessero. Chi infilava più quadrati vinceva. Fu Peppe, che era il più grande, a testarlo e quando videro che funzionava presero a litigarselo.
«Bello! Bello!», applaudì Pelliccia, che aveva assistito alla costruzione e alle prove con molto interesse ed era entusiasta più dei ragazzi. Pelliccia era l’unico ad abitare ancora un Sasso, in condizioni peraltro molto misere. Non aveva niente, nemmeno una gallina, e il suo unico indumento era una grossa e lurida pelliccia di provenienza misteriosa, che indossava indifferentemente nelle estati più torride e negli inverni più spietati. Se ne stava seduto in disparte e si limitava a manifestare il suo fervore per l’inventiva dei ragazzi.
La gara la vinse Mino.
«Bravo Mino!», festeggiò Pelliccia.
«Oh, però non famolo vedé ai ragazzi grandi», disse Peppe tutto serio.
«Sicuro ce lo rubano!», convenne Gigi.
«O ce lo rompono», aggiunse Aldo.
«Manco a tu sorella?», chiese Mino rivolto a Peppe.
«Dev’èsse un segreto nostro», intervenne Aldo.
«Ma la sorella de Peppe mica ce ruba le cose o ce le rompe!», fece Mino.
«Ahó, sempre co mi sorella!», sbuffò Peppe.
«Mino vò fa vedé a Sandrina quant’è bravo col Marchingegno!», disse Aldo. Lui e Gigi sghignazzarono.
«A Mino je piace Sandrina», insisté Gigi.
«Ma che c’entra, no che nun me piace!»
«Ah Mino, se ne sò accorti pure li sorci».
«Ma poi è troppo grande pe te!»
«Annate a morì ammazzati», li maledisse Mino senza troppa convinzione. «Vabbè io ciò fame, vojo vedé c’ha cucinato mi madre».
I ragazzi si guardarono, Peppe si voltò verso Pelliccia:
«Ah Pellì, ma te che te magni?»
Pelliccia si limitò a sorridere con grandi occhi. Sembrava sempre molto contento quando qualcuno gli faceva una domanda, ma quasi mai rispondeva. Essere preso in considerazione pareva per lui una gioia così grande da farlo astrarre in pensieri o ricordi lontani.
I ragazzi risalirono la strada di ciottoli che dalla Porta arrivava alla Piazza. Avevano lasciato il Marchingegno in uno dei tanti Sassi. Solo Pelliccia aveva visto il nascondiglio, ma sapevano che non avrebbe mai toccato roba che non era sua. Era passato da poco il mezzogiorno e il campanile proiettava già un paio di metri d’ombra, come un dito disegnato sulle selci e puntato sulla fontana rotonda al centro della Piazza.
«Aho!», li chiamò sor Checco dalla soglia della falegnameria, appoggiato a uno stipite con aria sorniona, la faccia esposta al sole. Era un omone di dimensioni fuori dal comune, che aveva sempre un sorriso a disposizione per i ragazzi. «Caso mai qualcheduno de voi ha visto un pezzo de cordino? L’avevo lasciato qua sur tavolo a bottega…»
I ragazzi fecero finta di non sentirlo.
«Se lo sarà magnato un sorcio…», propose con un sorriso malizioso Nonno Pino dalla sua seggiola. Nonno Pino non era nonno a nessuno, lo chiamavano tutti così perché era vecchissimo. Tranne quando pioveva, trascorreva tutte le ore di luce su una seggiola che si portava da casa e che andava a posizionare accanto alla porta della bottega di sor Checco, il quale non disprezzava di far passare il tempo chiacchierando col vecchio.
Nella piazza c’era odore di cucinato, gli stomaci dei ragazzi brontolarono. Tre nasi si fermarono all’insù, provando a indovinare quale leccornia producesse quell’aroma. Il quarto, quello di Mino, aveva invece puntato la direzione indicata dall’ombra del campanile: dal lato opposto della Piazza, oltre la fontana, c’era una panchetta di legno addossata al muro, accanto alla porta di una casa. Su quella panchetta c’era seduta una ragazza. Teneva il piede scalzo sulla seduta, di modo che il ginocchio arrivava all’altezza del viso e la guancia ci stava appoggiata. Non guardava nulla, forse si godeva il sole o forse si annoiava. Una sberla colpì la nuca di Mino.
«È troppo grande pe te, ah Mino!», lo sbeffeggiò Aldo. Mino lo rincorse per restituirgli il colpo, Gigi salutò e corse dalla parte opposta, Peppe s’avviò verso casa sua.
Chiacchiere
Il tavolo rettangolare era sempre apparecchiato con una tovaglia, al centro della quale stavano un vasetto con fiori di campo freschi e una brocca piena d’acqua. Un’altra più piccola, riempita di vino, stava a capotavola, dove era il posto di sor Fausto. Mino doveva sedere vicino a suo padre. La madre stava alla sua sinistra e, di fronte a loro, c’erano le tre sorelle. Per lo meno sarebbero state in tre ancora per qualche mese: Maria Pia, la più grande, si sarebbe sposata la prossima estate e sarebbe andata a vivere a casa di suo marito.
Lorenza, quella di mezzo, era più o meno fidanzata con un tale che i ragazzi chiamavano Due-a-Bastoni, perché si diceva che avesse molta confidenza con le carte ma poca con la fortuna. Il vizio non destava però preoccupazioni, perché era figlio unico e suo padre aveva parecchi ettari di terra e un piede nella fossa; probabilmente Due-a-Bastoni aspettava il trapasso del vecchio per portare una proposta ufficiale di matrimonio a sor Fausto.
La più piccola delle tre, Ernestina, teoricamente era ancora libera, ma Mino l’aveva vista più di una volta uscire dal paese con aria circospetta insieme a un belloccio di Cinello che chiamavano Piperno o Pipino o qualcosa di simile. Mino sospettava che suo padre ne fosse a conoscenza, per il fatto che difficilmente gli sfuggivano quel genere di traffici; probabilmente riteneva quel Piperno un buon partito, viceversa Ernestina sarebbe finita segregata in casa dopo una sonora scarica di schiaffi e il Piperno sarebbe stato trovato fracassato di botte in qualche cespuglio di rovi sulla strada tra Lapile e Cinello.
Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno rimpiangeva di aver indispettito il sor Fausto. Quando c’era da sbrigare quel genere di affari, il padre di Mino si portava dietro un paio di contadini: uno dei due mezzadri che gli lavoravano la terra, un vecchio malato ormai mezzo demente, aveva un figlio molto grosso e molto stupido, bendisposto a fare qualsiasi cosa comandasse il padrone Fausto, specie quando c’era da menare le mani. L’altro capofamiglia era un tipo losco che a Mino metteva paura; lo chiamavano Cornacchia e Mino pensava che fosse perché aveva un naso adunco che spuntava da una chioma e da una barba incolte e nere come la morte. In realtà, il soprannome gli era stato affibbiato quando era giovane dai suoi compagni di malefatte, perché incontrarlo per la strada significava sventura. Ma di queste cose, a quel tempo, Mino non sapeva ancora niente.
A tavola nessuno parlava mai, se non era interpellato dal capofamiglia, perciò l’ora del pasto trascorreva perlopiù in assoluto silenzio. Ma quel giorno sor Fausto parlò. E si rivolse al figlio. Senza togliere gli occhi dal piatto, disse:
«’Ndo sei stato, stamattina, Mino?»
Il ragazzino non aveva bisogno di guardarsi intorno per sapere che sua madre e le sue sorelle lo stavano fissando col cucchiaio di minestra a mezz’aria.
«Ai Sassi», rispose.
Sor Fausto si prese tutto il tempo che gli occorreva a trangugiare un cucchiaio, pulirsi i lunghissimi baffi sul dorso della mano e ingollarsi un bicchiere di bianco. E poi aggiunse:
«Co quei ragazzini?»
«Uno è er fijo de sor Patrizio», intervenne la madre. «E quello piccolo… come se chiama?… è il fijo de Masserone…»
«Lo so chi è», la zittì sor Fausto senza comunque degnarla di un’occhiata. «Er piccolo se chiama Luigino, ma i ragazzi lo chiamano Gigi. Er padre, Masserone, cià un pezzo de terra che se coltiva da solo e ce cava patate, quanno va bene.
«Pure quel sor Patrizio è n’altro che se spacca la schiena su un pezzo de terra secca. Cià un fijio maschio e na femmina ch’è quasi in età da marito. Patrizio va cercando qualcheduno co ‘n po’ de terra che se la sposa. È una bella ragazza, ma non cià dote. Er fratellino, l’amico tuo Giuseppe che chiamate Peppe, finirà a fà er mezzadro.
«Quell’altro, invece, quel Monaldo che chiamate Aldo, è il fijo de uno dei pastori che fanno i soccidari ai Caprotti de Cinello».
Detto questo, si strofinò di nuovo i baffoni sul polso, ingollò un altro bicchiere e non proferì più parola. Non erano state chiacchiere, sor Fausto non chiacchierava, mai. Se aveva detto quelle cose, c’era un motivo. Ma, come capitava spesso, a Mino il motivo era del tutto oscuro. Suo padre faceva così, pronunciava frasi apparentemente insignificanti, a distanza di giorni, anche settimane una dall’altra ed era necessario tempo per arrivare al quadro completo. Un gioco snervante, perché scoprire troppo tardi cosa gli passava per la testa poteva avere come conseguenza la fatidica conta delle dodici cinghiate, una per ogni anno di età di Mino.
L’Erede
Solitamente, appena il padre si alzava da tavola il ragazzino schizzava via per andare a giocare, ma quel giorno non riusciva a mandare giù l’ultimo boccone. Lo stomaco s’era annodato e non c’era verso di infilarci più niente, così rimase a lungo seduto da solo. Quando riuscì a ingoiare l’ultima cucchiaiata, imboccò la porta di casa per andare al sole. Si sentiva tutto contratto nella fronte, perché trattenere il pianto è faticoso e fa venire male alla testa. Per lui i suoi amici erano come fratelli. Perché suo padre gli aveva detto quelle cose su quanto erano o sarebbero diventati poveri? Il cielo era limpido e un leggero vento tiepido spazzava la soglia. Una voce lo raggiunse alle spalle:
«Hai capito che differenza c’è, tra te e l’amichetti tua?»
Ernestina stava seduta su una sedia accanto alla porta, di fianco a Maria Pia che lavorava a maglia. Aveva il tono canzonatorio che riservava solo al suo fratellino, però stavolta sembrava più inviperita del solito. «Quei disgraziati non sò mica come te, che sei er fijo maschio de sor Fausto. Me viè da ride! Te magari ce credi pure! Te sarai messo in testa de fà il signore! Che te pensi che ce tirano fuori, quei due straccioni de mezzadri, da quella terraccia secca de papà? Tutti morti de fame, siete». Le ultime parole le sputò alzandosi e tornando dentro casa. Mino la guardò confuso, non ebbe il tempo di dirle che non aveva capito niente. Guardò Maria Pia. La sorella maggiore non aveva mai tolto gli occhi dalla maglia e sembrava del tutto indifferente. Eppure doveva sapere che il fratello la guardava, perché a un certo punto, continuando a sferruzzare, gli disse:
«È na stupida»
«Ma de che parlava?», le chiese Mino.
«Appunto, è proprio stupida. Mica lo capisce che sei ancora ‘n pupo, non sai proprio de che parla». Alzò lo sguardo e lo fissò in quello di Mino. Maria Pia non guardava mai suo fratello.
«Non sò un pupo, ciò dodicianni», disse lui senza troppa enfasi.
Maria Pia sospirò e poi parlò:
«Ascoltame bene. Boccaccia mia, io me devo sta zitta, come fa mamma. Non te le devo dì certe cose e non so chi me lo fa fà. Ascoltame bene, perché ste parole te le dico oggi e non parlo più, manco se me scannano.
«Quanno ero bambina, che te non eri nato, tutti i giorni sentivo Papà che bestemmiava. Tutti i giorni malediceva il Padreterno che nun j’aveva dato un fijo maschio. Alla mattina quanno s’alzava e alla sera quanno se ritirava. Tre volte l’aveva punito, diceva lui, tre femmine j’aveva dato. Me lo ricordo come fosse ieri, quello c’ha detto quanno che t’ha preso in braccio la prima volta, davanti a noi ragazzine, che Ernestina ciaveva solo quattro anni: “Ecco finalmente l’erede de sor Fausto!”, ha detto. “Vedrai quanta terra ciavrai, sarai più ricco dei signori de Cinello!”. Così ha detto. A quel tempo non ciaveva ancora niente, manco ‘n fazzoletto de terra secca». Abbassò gli occhi e tornò ad annodare fili sulla punta dei ferri. «È ora che capisci, perché te stai a fà grande», aggiunse. «Ernestina è ancora na ragazzina, ma io lo conosco er vecchio, cià qualcosa in testa. Mica s’accontenta de quel po’ de terra c’ha dato a quei due straccioni de mezzadri. Lui vole de più, vol’esse ricco come un signore. E ce riuscirà, te lo dico io, è disposto a annà a braccetto cor demonio. E te devi sta in campana, perché quello te vole fà diventà un principe, così un giorno te potrà fà sposa la fija de qualche riccone, de qualche nobile. Ma mettete de traverso e te ficca sottoterra pure se sei er fijo. Io t’ho avvisato, poi fà come te pare».
Mino non disse niente. Quei discorsi lo spaventavano. In che senso principe? Gli sembravano faccende troppo grandi. Si girò per andarsene, ma sentì chiaramente la sorella che mormorava e non seppe se parlava da sola o ce l’aveva ancora con lui:
«Che poi, se te leva dalla faccia della terra pò esse che se ricorda de avecce pure tre fije, quel vecchio bastardo».
Occhi nel buio
Alla fine, s’era ritrovato ai Sassi. Quel pomeriggio, Mino non era andato a cercare i suoi amici, che tanto quasi certamente erano a lavorare coi genitori, e aveva girovagato per la campagna. E mentre il sole volgeva ormai al tramonto, s’era accorto che i suoi piedi si stavano arrampicando fra le dimore rupestri che avevano accolto migliaia di generazioni di suoi antenati. Le caverne erano così tante che si poteva stare a esplorare per ore, ma si doveva stare accorti, specie quando si era da soli e specie a quell’ora. Ci si poteva incontrare gente poco raccomandabile. Una reticolo di sentieri si snodava tra le case di tufo e c’era una stradina che girava attorno alla collina e conduceva lontano, dove in quei giorni c’era ancora la foresta. Il cielo era rosso sangue e i Sassi erano in ombra perché davano le spalle al tramonto. Mino stava passando accanto alla buia apertura di una grotta, quando sentì un mugugno. Si voltò di scatto e vide Pelliccia, alle sue spalle. Era lontano dal Sasso dove dormiva e dove si rintanava appena iniziava a fare scuro. Se ne stava in piedi come uno strano scheletro peloso, le dita ossute delle mani tese e rigide, le gambette secche che spuntavano dalla pelliccia e la faccia incorniciata dalla barba incolta. Guardava Mino con occhi allucinati.
«Ciao, Pellì…?», disse Mino. «Ancora in giro…?»
L’uomo non rispose. Mugugnò ancora: un suono basso, a bocca chiusa, mentre continuava a fissarlo con occhi spiritati.
«Ma che ciài…? Te senti bene…?»
Pelliccia iniziò a muovere la testa, da un lato all’altro.
«No…? Nun te senti bene…?»
L’uomo continuò a fare lo stesso movimento, senza mai togliere gli occhi dal ragazzino. Poi alzò un braccio, indicando un punto lontano, via da quel luogo. Mino provò a seguire la direzione del suo dito indice:
«Che è? Che ce sta là?»
Ma l’uomo scuoteva la testa più velocemente e indicava con insistenza, come se ci fosse qualcosa di urgente.
«Vòi che me ne vado…?», chiese infine Mino. Ci aveva indovinato, ma ormai era tardi. Perché a quel punto la voce da dentro la grotta si fece sentire:
«E perché non vuoi farmi parlare con questo giovanotto?»
Mino fece un balzo. Pelliccia giunse al massimo del suo spavento e corse via. Mino si voltò a guardare nell’apertura del Sasso. Due occhi luminosi scintillavano nel buio.
«È un brav’uomo, ma a volte mi indispettisce», disse la voce. «Vieni un po’ più avanti, ragazzo, con questa poca luce non riesco a vederti per bene».
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