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Prima Puntata☜
☜Indice dei Racconti della Foresta d’Oro
Il tramonto era terrificante. Il rosso del sole si confondeva con quello delle fiamme, l’orizzonte era un incendio senza fine e un fumo grigio-porpora s’innalzava nel crepuscolo. C’erano uomini a cavallo che si muovevano lungo il limite della foresta, lanciando grida indistinguibili. Mino, Peppe, Aldo e Gigi stavano in piedi sulla cima del colle dei Sassi, insieme a diverse altre persone. C’erano alcuni ragazzi grandi, c’era sor Checco il falegname con altri uomini e alcune donne che parlottavano tra loro. In disparte, Pelliccia se ne stava accucciato, gli occhi sgranati che spiavano la scena nascosti tra la matassa dei capelli e la pelliccia in cui stava imbozzolato. Se qualcuno si fosse avvicinato a lui l’avrebbe sentito piagnucolare ininterrottamente:
«È male… è male… è male…»
Pronunciava di rado vere parole. Ma nessuno gli badava, erano tutti ipnotizzati dal fascino mostruoso di un incendio infinito. Di fronte agli abitanti di Lapile l’antica foresta stava morendo.
Tutti sapevano chi aveva appiccato il fuoco e perché. Gli uomini di sor Fausto sorvegliavano le fiamme dalla prateria, mentre Cornacchia sbraitava ordini. Mino si sentiva gli occhi delle donne addosso, ma non si girava mai. Aveva un groppo allo stomaco che teneva solo per sé e si sforzava di rimanere rivolto verso l’incendio. Erano passati tre giorni da quando era venuto a conoscenza dei piani di suo padre, che ora si stavano realizzando sotto gli occhi di tutti i paesani.
«Anvedi!», gridò a un tratto Gigi puntando il dito verso l’alto. Una miriade di fiocchi bianchi calava lentamente dal cielo. Nella sua mente Mino tornò subito all’unica volta in cui aveva assistito a uno spettacolo simile, nell’inverno dei suoi otto anni, quando Lapile era rimasta sepolta una settimana sotto la neve. Per un attimo pensò che il cielo volesse salvare la foresta, ricoprendo le fiamme con una nevicata.
«È cenere», sentirono dire a sor Checco, che guardava un granello caduto sul palmo della sua mano.
«È na cosa sciagurata», gridò una donna. «Sciagurati! Sarà disgrazia pe tutti!»
Un attimo dopo, Mino sentì un’altra voce urlare alle sue spalle. Una voce che riconobbe subito:
«Te lo sapevi!», diceva. «Te lo sapevi e non ciai detto niente!»
Mino sentì il groppo allo stomaco balzargli su per la gola. Se anche avesse avuto il coraggio di dire qualcosa, non avrebbe potuto. Vide Sandrina accanto al gruppetto di donne, col viso trasformato in una maschera di rabbia. Doveva essere arrivata in quel momento, anche perché era affannata come se avesse corso. Doveva aver pianto. Fissava lui.
«Te lo sapevi!», ripeté e gli si avvicinò. Lo afferrò per un braccio, con tanta foga che sembrava volerglielo staccare. Mino pensò che lo avrebbe schiaffeggiato e incassò la testa tra le spalle. Siccome non arrivò alcun colpo, riaprì le palpebre e vide sor Checco che teneva il polso della ragazza.
«E lasciame!», urlò lei provando a liberarsi con uno strattone. Non era possibile, sor Checco aveva un braccio enorme e la forza di due cristiani. Il falegname la lasciò andare quando capì che aveva rinunciato a schiaffeggiare Mino.
«Che te pija, Sandrì?», le diceva mettendosi di traverso tra lei e il ragazzino. Peppe era saltato su, ma era talmente sbalordito che passava ammutolito lo sguardo dall’amico alla sorella.
«Hanno bruciato er terreno nostro!», gridava Sandrina. Tutto! La vigna, l’olivi, l’orto! Nun ciavemo più niente! Tutto cianno abbruciato! Tutto! Quer bastardo de suo padre!». Aveva cominciato a piangere copiosamente e additava Mino col braccio teso. «Lo sapeva! Sto infame lo sapeva e non cià detto niente!»
«Ma che stai a dì?», intervenne Peppe, confuso. La sorella si voltò a guardarlo. Lo fissò per un attimo, poi ringhiò:
«Mentre er padre organizzava de incendià tutto er bosco fino al terreno nostro, l’amichetto tuo, qua, tu fratello, come lo chiami sempre, se n’è stato zitto! È dall’altro ieri che tutti sti scagnozzi girano pe casa sua! Come faceva a non sapé?»
«Er terreno nostro…?», bofonchiava Peppe.
«Eh! Non ce senti? Ha preso foco tutto! Le fiamme sò arivate fino alla vigna…». La ragazza singhiozzava. «Semo scappati via… Bruciava tutto…»
«E mamma e papà…?»
«Semo scappati, t’ho detto… Non ciavemo più niente!», piangeva Sandrina. Si voltò di nuovo verso Mino. «Se sto maledetto ce l’avesse detto, che er padre voleva dà foco a tutta la foresta, forse potevamo fà quarcosa!»
«Ma te pare che je lo diceva a Mino…?», rispose Peppe, che poi si voltò a guardare il compagno di giochi. Ma lui teneva gli occhi bassi e non proferiva parola. Sul volto di Peppe si fece strada lentamente la verità.
«Aho…?», interrogò Mino, che non rispose.
Peppe passava lo sguardo incredulo da lui alla sorella.
«Aho!», disse ancora e stavolta spinse l’amico con una mano sul petto.
«E dì quarcheccosa!», sbottò, dando uno spintone più energico.
«E lasciame!», reagì Mino restituendo lo spintone.
L’espressione di Peppe mutò dallo sbigottimento alla collera. Gli fu chiaro che la vita della sua famiglia era distrutta e che la colpa era del suo migliore amico. Continuarono a spintonarsi, poi s’azzuffarono. Diventarono due furie in un attimo. Peppe era più grande di un anno e più alto, agguantò Mino tra le braccia e lo sbatté con la schiena a terra. Una fitta di dolore lancinante trafisse Mino, perché le ferite delle frustate non erano ancora rimarginate. Fu incapace di difendersi, Peppe gli tirò due colpi al volto, col pugno destro, fortissimi. Mino avrebbe continuato a farsi riempire di botte, se le mani del sor Checco non avessero afferrato Peppe per le spalle per spostarlo di peso.
Restò riverso a terra con le braccia sulla faccia. Quando infine riaprì gli occhi vide Peppe e Sandrina che si allontanavano insieme sul sentiero che riportava in paese. Sor Checco lo aiutò a rialzarsi, mentre Aldo e Gigi si avvicinavano. Quando Aldo gli posò una mano sulla schiena, Mino emise un gemito acuto. Gli parlavano ma non prestava alcuna attenzione, sentiva male alla schiena, alla faccia e un senso d’angoscia così pesante che sembrava che qualcuno l’avesse calciato nella pancia. Aveva sapore di sangue in bocca. Si accorse a mala pena che qualcuno gli sollevava la maglia per guardargli la schiena.
Discorsi sotto le stelle
«Mi padre me pija a schiaffi», diceva Aldo, «ma solo quann’è ‘mbriaco. Na volta m’ha tirato na scarica de sberle che m’è rimasta na guancia gonfia pe giorni. E infatti mó la sera, quanno torna dall’osteria, me chiudo in cantina finché non s’addorme. Pure mi madre me tira na sberla, quanno s’arrabbia, però non me fa tanto male».
«Mi padre invece fa a calci nel sedere», intervenne Gigi. «Certe pedate che non me posso più mette a sede. Ma mó me sò imparato, quando capisco che l’ho fatta grossa scappo come na lepre. Sparisco pe mezza giornata e quanno torno j’è passata».
Mino sedeva sull’erba accanto ai suoi compagni. C’erano solo loro sulla cima della collina, eccetto Pelliccia, che però restava a distanza e fissava la foresta.
«A mi padre non je passa», disse. «E non c’entra quando se ‘mbriaca. Dice che così cresco più forte. Usa sempre la stessa cinta, da quanno ero piccolo».
Vedendo la sua schiena, Aldo e Gigi erano rimasti sconvolti. Era troppo anche per i loro padri ubriaconi e violenti. Oltre alle ferite di tre giorni prima, la pelle di Mino era solcata da dozzine di cicatrici. Perfino sor Checco s’era portato una mano alla bocca, ma non aveva detto niente. A Mino, invece, non importava delle cicatrici. Pensava alla faccia rabbiosa di Peppe che lo pestava e alle grida piene di odio di Sandrina. Ora era contento di stare solo con Aldo e Gigi sotto il cielo. Al calare del buio, Mino aveva detto di voler restare sulla collina e Aldo e Gigi avevano insistito per tenergli compagnia. Invece gli adulti erano tornati in paese. Per quanto fossero molto agitati, non avevano nulla da fare lì. A quell’ora dovevano essere tutti in piazza a organizzare secchi d’acqua da tenere a portata di mano, nel caso l’incendio si fosse allargato fino al borgo. Secondo sor Checco non sarebbe accaduto, diceva che la collina dei Sassi avrebbe protetto Lapile. Ad ogni modo, erano tutti così in allerta che nessuno avrebbe fatto caso all’assenza di tre ragazzini.
«Tu padre m’ha sempre fatto paura», disse Gigi.
Era una sera senza luna, ma l’orizzonte di fiamme illuminava il cielo. Non si udivano più le grida lontane, tuttavia qualcuno degli uomini di sor Fausto doveva essere accampato sul posto, perché si scorgevano un piccolo falò acceso e le ombre di un paio di cavalli. Mino si sentiva esausto e sconvolto, il suo mondo era crollato. Decise che doveva svelare il suo segreto. Prese fiato e mormorò:
«Ve devo dì na cosa».
La cenere aveva smesso di piovere su di loro, perché il vento aveva girato verso la foresta in fiamme. Sotto il cielo stellato, mentre l’alone innaturale dell’incendio arrossava il buio, Mino trovò il coraggio di raccontare della creatura fatata che lo andava a visitare di notte o s’intrufolava nei suoi sogni, del loro primo incontro tra i Sassi, una sera di molti mesi prima, e della paura che da allora lo perseguitava al calar del sole. Un silenzio attonito seguì l’inverosimile racconto, ma Aldo e Gigi sapevano che Mino non avrebbe propinato loro una storia fasulla, specie in una notte come quella.
«Folletto», disse Pelliccia.
Tutti si voltarono verso di lui.
«Folletto», ripeté.
I ragazzi si guardarono.
«Te c’eri, quella sera, ai Sassi», disse Mino. «Lo conosci! Lo sai chi è?»
«Folletto», rispose Pelliccia.
«Embè ma che è un folletto? Da ‘ndove viene?»
Pelliccia alzò un dito indicando l’incendio.
«Dalla foresta?»
L’uomo non rispose.
Aldo tornò a guardare Mino:
«Ma che vole da te, sto folletto?»
«Te l’ho detto, dice che devo esprime un desiderio»
«Mhhh!», fece Pelliccia, scuotendo la testa con gli occhi sbarrati. «Mhhh!»
«Un desiderio?», fece eco Gigi.
«Mhhh, mhhh!», mugugnava Pelliccia.
«Sì, ma me fa paura», disse Mino. «Non lo capisco e non me piace. M’ha chiesto se vojo che more mi padre»
«E te che j’hai detto?», fece Aldo.
«Che non vojo».
«Embé, esprimi un desiderio, così te lascia in pace», disse Gigi.
«Mhhh, mhhh!»
«None! Non vojo! Te l’ho detto che me fa paura»
«Io je chiedevo de esse ricco!»
«Io je chiedevo cento ettari e un casale coi servi»
«Ma qualsiasi desiderio?»
«Pure soldi? Oro?»
«Dije de fatte sposà na donna ricca!»
«E bellissima!»
«Così te ne vai de casa e tu padre non te frusta più»
«Eh, ma Mino è troppo piccolo pe sposà!»
«E se je dici de fà sparì st’incendio? De fà torna tutto com’era prima?», disse Aldo.
«Mhhh, mhhh!»
«Non l’avete visto», disse Mino. «Se lo vedevate capivate pure voi, forse. Cià certi occhi co na luce gelida, me fa sentì in trappola. Se parlo penso che succede quarcheccosa de brutto. Vojo solo che me lascia in pace, ma torna sempre».
«Ma perché proprio a te?»
«Ahó, dije de fà innamorà Sandrina de te!», ridacchiò Gigi.
«Mhhh, mhhh!»
Mino si rabbuiò e Aldo diede una gomitata forte a Gigi:
«Ahó, ma sei proprio ‘mbecille!», lo rimproverò tra i denti.
Rimasero in silenzio per un po’.
«Ma scusa, che pò succede de male, se esprimi sto desiderio?», disse infine Aldo.
«Non vojo. Vojo solo che me lascia in pace».
«Embè, allora devi chiede aiuto a qualcuno».
«E a chi?»
«Ar prete?»
«Se! Don Flavio?», fece Mino con una risatina depressa. «L’hai visto mai quanno incontra mi padre? Manca poco che se inginocchia pe leccaje le scarpe».
«Vabbè ma è sempre un prete. Quarcheccosa ce capirà de folletti e de incantesimi».
«Semmai allora ce vorrebbe na strega», disse Mino.
«Io la conosco na strega!», saltò su Gigi.
In cammino
Era l’alba. Faceva freddissimo, ma Mino, Aldo e Gigi non sentivano niente, tanto erano eccitati. S’erano fatti un fagotto per uno, sgraffignando pezzi di pane e formaggio dalle dispense delle rispettive case. In piazza avevano incrociato Nonno Pino, che tutte le mattine faceva una passeggiata fino ai Sassi per guardare il sorgere del sole. Gli avevano fatto il gesto del dito sulle labbra, il vecchio s’era voltato fingendo di essere assorto nei pensieri e se n’era andato per la sua strada. Avevano sceso la strada che portava alla porta del paese più silenziosi che potevano, costeggiando i muri. Varcata la soglia, avevano spiccato una corsa per allontanarsi più velocemente possibile da Lapile.
Il tragitto più breve per Monte Muto passava attraverso la foresta, ma non sarebbe stato consigliabile nemmeno se non ci fosse stato l’incendio, perché era un percorso di alcuni chilometri senza un sentiero tracciato. Dovevano per forza seguire la strada per Cinello e da lì prendere la deviazione che saliva a Monte Muto, un borgo ancora più piccolo e isolato di Lapile, nascosto tra le montagne.
«Com’è fatta sta strega? È na vecchiaccia col naso peloso?», chiese Aldo.
«E che ne so, mica l’ho vista mai», rispose Gigi.
Aldo e Mino lo guardarono stupefatti.
«Hai detto che la conosci!»
«Sì, ma pe sentito dì!», si difese. Poi fece un sospiro: «È un segreto. È na cosa ch’è successa quando ero un pupo. Mi madre e mi nonna sò andate a cercà sta donna a Monte Muto pe fà na stregoneria. Se sanno che l’ho detto a qualcuno me sa che me riempiono de botte. Hanno fatto tutto de nascosto, manco mi padre l’ha mai saputo. A me me l’ha raccontato mi cugina a Natale scorso».
«E come fai a sapé ch’è vero?»
«Boh? Perché non dev’esse vero?», fece Gigi.
«Magari tu cugina se voleva fà du risate alla faccia tua!»
Si fermarono due volte, prima di mezzogiorno, a smangiucchiare e riposarsi. Così arrivarono all’ora di pranzo senza provviste. Dopo un’oretta che avevano superato il bivio per Cinello, incrociarono un contadino che tirava un mulo dall’aria stanca, carico di ceste. L’uomo chiese sospettoso dove se ne andavano, dissero che facevano una commissione. Rimediarono delle albicocche. Poi notarono due ragazze che scendevano verso di loro e, siccome una la conoscevano di vista, si andarono a nascondere dietro alcuni rovi ad attendere che passassero. Quando era pomeriggio da un pezzo, scorsero il mucchio di casette di pietra arroccate sul cocuzzolo alle pendici del Monte Muto, la montagna più alta della zona, da cui il piccolo abitato prendeva il nome. Quando videro la valle verde che si estendeva sotto il paese, circondata su tre lati dalle montagne e su un lato dalla foresta, rimasero senza fiato. Non avevano mai visto nulla di più spettacolare e avrebbero voluto correre a giocare nel prato immenso. Ma non potevano permettersi distrazioni e tirarono dritto verso il paese.
Su un lato della strada, seduto su una pietra, c’era un pastore che aveva lo sguardo fisso verso la foresta. L’incendio non era arrivato fin lì, ma si vedeva il fumo che saliva dall’orizzonte. Scrutò serissimo i tre ragazzini, quando gli spiegarono chi stavano cercando. Chiese da dove venivano.
«Da Lapile», rispose Mino
«È là che brucia la foresta? Quant’è grande l’incendio?»
«Brucia tutto».
Il pastore indicò l’entrata del paese, dicendo a quale porta dovevano bussare. I ragazzi passarono in mezzo alle pecore che ruminavano le erbe cresciute sul sentiero e varcarono la soglia di Monte Muto.
La strega
«Te sei Lella?», chiese Gigi con una vocina esile.
La sconosciuta li studiò attentamente dalla soglia della porta. I ragazzini erano rimasti con le mascelle a penzoloni, perché non avevano mai visto una donna così.
«Venimo da Lapile», aggiunse Mino. «Semo partiti all’alba».
La donna non disse niente, si voltò e tornò in casa, lasciando la porta spalancata. I tre amici entrarono.
Era una casetta di un paio di stanze. La donna si accomodò su una sedia accanto al camino. Nella mano sinistra teneva un bicchiere di vino rosso. Aveva lunghi capelli neri come la notte sciolti sulle spalle. Era bellissima. Mino pensò che doveva avere l’età di sua madre, forse poco più giovane, ma sua madre non era mai stata così. Indossava una camicetta aperta fin quasi sullo stomaco, da cui s’intravedevano le linee dei seni. Portava le maniche arrotolate sopra i gomiti, lasciando le braccia nude, e la pelle lucida rifletteva la fiamma danzante del focolare. Scrutava con occhi penetranti i ragazzi, che si scambiavano sguardi imbarazzati. Prese un sorso di vino e disse, rivolta a Gigi:
«Te sei il figlio de quella donna de Lapile, quella co la sorella moribonda. Ciavevi tre anni, quattro, forse, ma te riconosco. Ciò mangiato un anno co quel montone che m’ha dato tu madre».
«Lo so. Cioè me l’hanno detto. Hai curato mi zia».
«Io non curo nessuno», rispose la donna. «Non sò mica ’n dottore. Posso chiede alla morte de andassene. A volte m’ascolta, a volte no. Coi vecchi non m’ascolta quasi mai, ma tu zia è giovane. Perché sei venuto fino a qua? Te sei portato gli amichetti…». Posò uno sguardo incuriosito su Mino, come se avesse improvvisamente notato qualcosa. Lo fissò alcuni istanti, poi disse: «Come te chiami?»
«Massimo. Però me chiamano tutti Mino».
«Piacere Massimo che tutti chiamano Mino», disse la donna prima di bere un altro sorso. «Io me chiamo Mariella, però tutti me chiamano Lella. O Lelletta. Sti ragazzini te vojono bene, se hanno fatto tutta sta strada pe portatte da me».
Mino non chiese come faceva a sapere che erano venuti per lui.
«Semo amici», disse.
Quando Mino ebbe raccontato la storia del folletto, Lella si vuotò il bicchiere in gola.
«Sei un tipo svejo, Massimo che tutti chiamano Mino. Se vede che te porti dentro un peso grosso, che sei infelice, se no er folletto non veniva da te. Je serve na preda facile». Senza alzarsi dalla sedia, prese l’attizzatoio e smosse la brace, ravvivando il fuoco. Poi infilò un nuovo ceppo tra quelli mezzi consumati. «C’entri qualcosa co gli incendi?», chiese mentre ancora trafficava.
I ragazzi si scambiarono immediatamente uno sguardo stupito.
«Lo sapete che da qualche anno certa gente s’è messa a brucià l’alberi? Dove prima c’era la foresta fanno campi da coltivà». Si voltò e fissò gli occhi in quelli di Mino.
«Mi padre», confessò il ragazzo. «Quando sò nato io, ha dato foco a un pezzo de bosco e cià tirato fori un paio de fattorie. Mó cià du mezzadri che je le lavorano…»
«La foresta è sacra», l’interruppe Lella. «Ce vivono le creature fatate. E mó cercano vendetta. I folletti sò perfidi, quanno s’arrabbiano sò peggio de qualsiasi demonio. De sicuro è venuto da te pe vendicasse de tu padre. Io non lo posso mandà via, nessuno può. E non te lascerà in pace. Se vole che esprimi un desiderio devi daje na risposta, ma qualsiasi cosa je dici la userà contro la famija tua».
«E allora che devo fà?», disse Mino. Era spaventato, gli veniva da piangere e non poteva nasconderlo.
«Niente, non pòi fà niente», disse la donna studiandolo attentamente. «Quando piove, piove. I folletti sò come la pioggia, come il sole, come il vento». Posò il bicchiere vuoto sulla mensola del camino, allungò la schiena contro la spalliera della sedia e prese ad accarezzarsi il collo con la punta delle dita, l’aria assorta, sempre fissando il ragazzino. Infine disse:
«Tu padre ha appiccato n’altro incendio ieri sera. A sto punto il folletto sarà na furia. Fino a mó ha giocato co te. Daje quello che vole. Non è colpa tua quello che fa tu padre, ma se lo proteggi ce vai de mezzo pure te».
Mino alzò gli occhi, prese coraggio e disse:
«Stavolta mi padre vole brucià tutto. Fino qua a Monte Muto. Tutta la foresta. Non ce resterà manco un albero».
Lella lo guardò con freddezza. Una breve contrazione le strinse quasi impercettibilmente gli occhi. Si alzò, afferrò la sedia dalla spalliera e la infilò sotto il tavolo, andò alla porta, la aprì e disse in tono secco:
«Non te posso aiutà. Non dovevi venì da me. Non me dovevi dì ste cose. L’amico tuo che t’ha portato qua non t’ha fatto un favore. Ho fatto na promessa, solo pe questo non ce vengo io a toglie la vita a tu padre». Spostò lo sguardo su Gigi. «Io non salvo le persone dalla morte. Io ce parlo co la morte. Se je chiedo de lascià andà qualcuno, qualche volta m’ascolta. Se je chiedo de portasse via qualcuno me obbedisce». Poi tornò a guardare Mino: «Er folletto farà del male a tu padre e tu non ce pòi fà niente. Manco io, ma se potevo non facevo niente lo stesso. E mó annatevene da casa mia».
I ragazzini si voltarono senza replicare e presero l’uscita. Solo quando furono sulla soglia Mino si accorse che s’era fatto buio. Fu scosso da un brivido. Il borgo era deserto. Il vento portò da lontano l’ululato di un cane, forse di un lupo.
«Vattene», disse Lella.
«Ho capito», rispose Mino.
«No, vattene da casa tua».
Mino la guardò negli occhi. Erano neri come la più fitta delle notti. Profondi come pozzi, come cieli di stelle fredde e lontanissime, oceani di oscurità in cui annegare e dimenticare tutto. Era così bella e così spaventosa. Per un attimo desiderò chiederle di prendersi la sua di vita, immaginò che sarebbe stato un sollievo farsela portare via da lei. E non doversi preoccupare più di niente. E pensò che lei volesse farlo davvero, perché gli prese il mento nella mano e si chinò su di lui.
«Non pòi fermà la notte e non pòi fermà il vento. Però te pòi mette in cammino. Nessuno te obbliga a soffrì. Te non sei tu padre. Sei venuto a cercà un consiglio e io te do questo: sei ancora un ragazzino, salvate, a casa tua ce sta solo dolore e morte. E invece er mondo è pieno de vita. Vattela a cercà».
Furono investiti da una folata d’aria gelida. Mino, Aldo e Gigi si scambiarono un’occhiata e poi guardarono la stradina che usciva dalla porta del paese addentrandosi nell’oscurità. La via di casa era lunga, ore di cammino tra monti e campagne sconosciute. E nessuno sapeva dove erano andati.
+++FINE DELLA QUARTA PUNTATA+++
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