Questo è un racconto a puntate, per leggerlo integralmente devi partire dalla
Prima Puntata☜
Nella notte rischiarata dalle fiamme, i tre ragazzini seguirono il branco attraverso una vasta prateria che non conoscevano. Avevano accumulato così tanta tensione per gli eventi spaventosi che gli erano capitati, che non pensavano alla stanchezza e camminavano senza un attimo di tregua nella notte fredda. Avevano l’affanno per stare dietro ai lupi, ma non è che si potesse chieder loro di rallentare. Le bestie si fermavano solo di tanto in tanto ad annusare il vento. Cercavano una maniera di aggirare la foresta, trasformata in un’invalicabile parete di fuoco alta decine di metri, che si perdeva all’orizzonte, ruggiva suoni di scoppi e crolli e sembrava voler divorare il mondo intero.
Vagavano verso est, per territori privi di arbusti e frustati dal vento, in un continuo saliscendi fra colli d’erba alta.
Dopo molto camminare, giunsero in una zona con la visuale aperta sulla foresta e videro che le fiamme erano diventate basse e bruciavano erbe e rovi in mezzo a rari scheletri d’alberi e monconi di tronchi. Allora si avvicinarono. Qui il fuoco proseguiva la marcia crepitando piano, strisciando al suolo in cerca di nuovi fusti da aggredire. A volte si accontentava di divorare l’erba con calma, seguendo traiettorie contorte, lasciando intatte piccole radure qua e là per azzannare cespugli e alberelli; altre volte saltava a bordo di una foglia di corteccia sospinta dall’aria calda; oppure, con uno scoppio sparava un tizzone che andava ad accendere un mucchio di ramaglie.
Proseguendo ancora, incontrarono solo braci di radici e sterpaglie, macchie rosse su un tappeto di terra carbonizzata. Da quel suolo nero ardente, che mormorava inquietanti scricchiolii, s’alzava un fumo denso che faceva tossire e i ragazzi sollevarono le maglie dalle pance per coprirsi naso e bocca. Alla luce dei fuochi, le ombre saltellavano e confondevano la vista, creando visioni e scherzi macabri. Gigi urlò di terrore quando, avvicinandosi a un ammasso informe, si trovò a essere fissato da due orbite vuote scavate nel muso di una volpe, il cui corpo era incastrato e quasi fuso in un mucchio di sterpi. I denti erano esposti in un orrendo ringhio silenzioso. Incontrarono resti di conigli, scoiattoli, cinghiali.
A un tratto i lupi si fermarono ad annusare quello che pareva un basso albero rovesciato, proprio al centro del loro percorso. Lo aggirarono guaendo. Si trattava del cadavere annerito di un cervo, sinistramente rivoltato a pancia in su. Doveva essere fuggito dal bosco portandosi addosso le fiamme per andare a morire lì, forse rivoltandosi nel tentativo di spegnere il fuoco e restando immortalato in quella posa grottesca. Aveva la bocca semiaperta e sembrava fissare la terra orripilato. L’odore era così rivoltante che si allontanarono di corsa.
Quando l’aurora iniziò ad affacciarsi, arrivarono dove non c’erano fiamme né braci. I lupi annusavano cauti il suolo, avanzando a piccoli passi: forse intuivano che il fuoco poteva nascondersi sotto terra, covando in silenzio e senza fumo, trovando percorsi invisibili tra le radici più antiche e profonde. Non si udiva canto di uccelli. Procedettero con cautela, ma in breve fu chiaro che in quel luogo le fiamme non erano ancora giunte. Era un territorio di foresta rada, rocce ed erba. Potevano aggirare l’incendio.
I lupi presero a correre e i ragazzi accelerarono eccitati dietro di loro, affondando i piedi a grandi balzi nell’erba umida, senza risparmiarsi sulle salite e scapicollandosi in discese spericolate tra radici e massi. Al termine di una corsa sfrenata si trovarono affacciati sul confine meridionale di una prateria. In fondo a questa si alzavano i colli familiari, in uno dei quali si aprivano le dimore dei loro antenati, chiamate Sassi. I ragazzi saltarono e lanciarono ululati di gioia. Alla loro sinistra le loro ombre s’allungavano verso la foresta tetra, sul fianco opposto i raggi del sole rischiaravano la campagna amica, verde e bagnata di rugiada.
A casa
Vedevano sagome di esseri umani, mentre risalivano il colle dei Sassi andando incontro al sole appena sorto. I lupi non correvano più, erano certamente esausti e consumavano quegli ultimi metri con la lingua penzoloni. Una donna lanciò l’allarme con un grido acuto, un uomo che le era accanto invocò subito un fucile, qualcuno chiamò in aiuto il padreterno, qualcun altro bestemmiò. Quando dietro il branco comparvero i tre ragazzi, lo sbalordimento fu così grande che i paesani si zittirono all’improvviso come un solo uomo. Il capobranco sollevò il muso, indifferente a quell’agitarsi di umani. Annusava la brezza che cambiava direzione. Si voltò, seguito dagli altri, e in un attimo gli animali svanirono tra le ombre del crepuscolo. I ragazzi erano così esausti che si lasciarono cadere a terra, senza fare caso ai mormorii di stupore. Ma prima che qualcuno potesse rivolgere la parola a Mino, Aldo e Gigi, un uomo attirò l’attenzione:
«Ahó, ma che se sta a spegne?!» Aveva il braccio teso a indicare la foresta. La luce delle fiamme non si vedeva più, al suo posto c’erano grandi volute di fumo bianco che salivano in cielo.
Anche i ragazzi guardarono. Istintivamente si presero per mano, si afferrarono le braccia l’uno con l’altro.
«L’hanno fatto davero!», disse Aldo.
Gli altri due si voltarono verso di lui.
«Dici che sò state le streghe…?», mormorò Gigi.
«E che altro pò esse successo?», rispose Mino. «L’hanno spento loro!».
E mentre tutti stavano a fissare l’orizzonte con le mascelle a penzoloni, Mino si accorse che qualcuno si era avvicinato. Si voltò e vide sua sorella Ernestina:
«Vado a dì che sei tornato, finalmente», disse lei. «Mamma non ha dormito tutta la notte, papà ha mandato certa gente a cercatte». Non aggiunse altro. Fissò ancora il fratello per qualche istante, come se cercasse di leggergli qualcosa negli occhi, poi s’incamminò verso il borgo. I ragazzi non le prestarono troppa attenzione, buttarono le schiene a terra allungando braccia e gambe e iniziarono a ridere a voce alta. I paesani discutevano sempre più animatamente, c’era una donna che proclamava «al miracolo», mentre una accanto a lei si faceva il segno della croce a ripetizione. Qualcuno continuava a dire che dovevano esserci di mezzo i folletti.
Dopo un po’ Gigi disse a Mino:
«E mó tu padre che dice, che l’incendio s’è spento?»
«Perché’?», rispose Mino.
«Embè, l’ha fatto appiccà lui…»
«Ahó e lascialo perde!», intervenne Aldo.
«Embè, ma c’ho detto?», protestò Gigi. «Sto solo a dì che mó s’arrabbierà…»
«Ma che te frega a te?», lo rimbrottò Aldo.
«No, cià ragione», disse Mino. «Mi padre s’arrabbierà. Voleva brucià tutto e invece mezza foresta è rimasta in piedi».
«Allora me sa ch’è mejo che non lo viene a sapé andó semo stati», fece Aldo.
«Perché?», chiese Gigi.
«Secondo te che dice, se sa che semo andati a cercà na strega e quella è annata a spegne er foco insieme all’amiche sue?»
In quel momento un uomo si avvicinò, un tipo dall’aspetto secco e nervoso e con un vistoso riporto che s’impennava ad ogni folata di vento. Li scrutava con occhi indagatori. Mino, Aldo e Gigi avevano smesso di parlare e lo guardavano a loro volta.
«Che è che stavate a dì?»
Mino sollevò la testa ma non rispose.
«’Ndov’è che siete stati?»
Mino esitava, gli serviva qualche attimo per elaborare un racconto alternativo a quello della notte appena trascorsa. Sentì Gigi che prendeva fiato per dire qualcosa e Aldo che lo calciava su una gamba, per fermargli in gola qualsiasi imprudenza stesse per dire. Gigi emise un grido di protesta. L’uomo aveva un’espressione arcigna. Era cugino al padre di Aldo, un scapolo che faceva lo stalliere per i signori di Cinello.
«Embé? Da ‘ndo venite?»
«Dalla campagna», rispose Aldo.
«Da Cinello», disse Mino contemporaneamente. E poi provò ad aggiustare il tiro:
«Abbiamo fatto un giro a Cinello… ieri mattina… poi avemo passato la notte in campagna, sulle colline…»
«E ‘ndove, a Cinello? Io stavo là e non v’ho visto».
«Perché non semo andati ar paese, ciavemo girato intorno», intervenne prontamente Aldo.
«Ma se venivate dal Pratone! Ma che giro avete fatto?»
«È perché poi semo andati pe campi»
«E avemo passato la notte là».
«Sì perché era bello… er cielo…».
«Ce stavano certe stelle!».
«Anche se però faceva freddo…», intervenne Gigi e gli amici lo guardarono.
«Infatti faceva freddo!», disse l’uomo scrutandoli attento. «Manco na coperta, ciavevate…»
«Eh, nfatti…», fece Aldo.
«La prossima volta se la portamo…», disse Mino.
L’uomo incalzò:
«Perché ce stava un branco de lupi?»
«Che lupi?», rispose Aldo.
«Ah regazzì, non me pijà per naso! Ce stava un branco de lupi! Sò arrivati insieme a voi e poi se ne sò andati! Sembrava quasi che v’hanno accompaganto a casa!»
«Se vabbè, mó annamo a spasso coi lupi!», rispose Aldo con una risata sfacciata, girandosi verso i compagni.
Mino riuscì a buttare fuori uno sghignazzo quasi credibile.
«Ahó, ah regazzì», ringhiò l’uomo, «non me ride in faccia che te le sòno, eh?». Alzò la mano destra con l’evidente intenzione di mettere direttamente in pratica la minaccia. Ma i ragazzi erano già balzati in piedi come lepri e fuggivano verso il paese.
In pochi minuti furono sulla salita che imboccava la porta del borgo. E lì incontrarono tutte e tre le loro madri. Le donne parlottavano, visibilmente agitate. Ai ragazzi sembrarono piuttosto minacciose. I tre amici ripeterono la storia che avevano propinato al cugino del padre di Aldo, cioè che avevano passato la notte dalle parti di Cinello, sotto un bel cielo pieno di stelle. Era un racconto plausibile, ma non risparmiò ai ragazzi più di uno sganassone a testa e urla di rimprovero che riecheggiarono tra le mura. Le donne non sapevano ancora che i ragazzi erano giunti scortati da un branco di lupi e per il momento la faccenda fu conclusa.
Ma le stranezze di quella mattina meritavano di saltare rapide di bocca in bocca e, un paio d’ore dopo, sor Fausto giunse a cavallo dalla campagna, dove era andato a verificare di persona l’estinzione dell’incendio. Quello che aveva visto lo aveva sconcertato: il sottobosco era completamente bagnato e la foresta era attraversata da un torrente copioso, che sembrava aver debordato allagando tutto. Non c’era mai stato alcun torrente in quella foresta, il più vicino era quello che scendeva da Monte Scano e attraversava la forra chiamata Fosso degli Scannati, ma girava a ovest verso Monte Muto. Fausto si fermò in piazza scortato da una mezza dozzina di uomini, tra cui Cornacchia, che girava con un coltellaccio infilato nella cintura. I tre ragazzini, che erano andati a tuffarsi nei rispettivi letti, furono mandati a chiamare e arrivarono accompagnati dalle madri, assonnati, confusi e spaventati. Nella piazza della fontana, davanti al sagrato della chiesa, Mino si stropicciava gli occhi al cospetto di suo padre, insieme ai suoi amici.
Ribellioni
Per fortuna potevano contare su una storia già pronta. Non avevano avuto modo di consultarsi prima e, se avessero dovuto inventare qualcosa lì per lì, sarebbero stati facilmente sbugiardati. Non fu comunque facile raccontare una menzogna sotto lo sguardo spaventoso e penetrante di Fausto e circondati dai suoi scagnozzi, grandi e grossi e con le facce da galera. E come se questo non fosse bastato a innervosire i ragazzi, s’era formato un capannello di curiosi. Il borgo era da un pezzo in piena attività, si usciva di casa, le donne andavano al fontanile a lavare i panni. Si sentì cigolare la vecchia porta della canonica, da cui s’affacciò don Flavio. La piccola falegnameria di sor Checco mandava rumori di pialla e sega.
«Io non l’ho visti a Cinello!», ruggì il cugino del padre di Aldo, interrompendo il racconto dei ragazzi.
«Perché nun semo entrati al paese!», gli rispose Aldo a brutto muso. «Già te l’avemo detto!».
«Vabbè, mó statte zitto», disse sor Fausto all’uomo, senza guardarlo in faccia. «Vojo sentì dai ragazzi sta storia dei lupi».
«Che lupi?», gridò la madre di Mino.
«Sò arivati insieme a un branco de lupi», intervenne una donna.
S’alzò un chiacchiericcio così intenso da rendere impossibile qualsiasi dialogo. Fu un urlo di Cornacchia a riportare il silenzio:
«Se nun ve state zitti nun se capisce niente!», sbraitò. A Cornacchia non era difficile incutere paura, tutti sapevano che razza di bandito era stato da giovane.
«Me spieghi sta faccenda dei lupi?», disse allora Fausto in tono pacato, stavolta rivolgendosi direttamente a suo figlio.
Mino doveva inventare qualcosa alla svelta, negare non avrebbe avuto senso, in troppi li avevano visti arrivare insieme al branco.
«Era buio», disse. «L’avemo visti da lontano, mentre salivamo verso i Sassi, ma ce parevano cani… Forse scappavano dalla foresta, pe via dell’incendio, e non sapevano andove annavano…».
Cornacchia si avvicinò a Fausto e gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio.
«Sì, lo so, lo so», gli rispose Fausto e poi tornò a fissare il figlio. «Quello che non ho capito è perché venivate dal pratone. Avete detto che stavate a Cinello, quindi dovevate arrivà dalla strada, no da dietro ai Sassi».
«Perché dopo avemo fatto un giro!», intervenne Aldo. «Semo arrivati da Cinello che spuntava er sole, però volevamo vedé l’incendio da vicino e allora semo scesi al pratone e se semo avvicinati alla foresta».
«Io l’ho visti bene, i lupi». Questa volta a intromettersi fu Ernestina. La sorella teneva gli occhi su Mino, ma parlava al padre: «Non erano bestie che scappavano, mica erano spaventate. Hanno aspettato che sti tre mocciosi salivano in cima alla collina. Erano lupi ma facevano come fanno i cani da pastore co le pecore. Me possino cavà un occhio, quei lupi hanno riportato sti ragazzini a casa». Fece una breve pausa, come soppesando quello che stava per dire. Infine aggiunse: «E questa è roba de stregoneria!»
Calò nella piazza un silenzio sgomento. Mino, Aldo e Gigi non poterono fare a meno di scambiarsi un’occhiata preoccupata, un dettaglio che notarono in molti.
«Te te devi impiccià de li fatti tua», tagliò corto Fausto rivolto alla figlia. «Comunque», proseguì rivolto a Mino, «un branco de lupi che riporta a casa tre ragazzini è na cosa strana. Le cose strane succedono, ogni tanto. Pensa che st’amico mio, qua», e fece un cenno verso Cornacchia, «na volta ha incontrato tre giovanotti che erano mezzi lupi, co le zanne, pelosi, forti come dieci òmini. La raccontano in tanti sta storia, ma lui l’ha visti davero. Certi dicono che dentro alla foresta ce stanno i folletti. E poi ce stanno certi che pensano che i folletti sò amici dei lupi. C’è chi dice che je montano in groppa come coi cavalli. Er monno è pieno de cose strane. E sò strane proprio perché capitano solo ogni tanto. È pe questo che due cose strane insieme, nello stesso momento, non capitano mai. Dico bene?
«E invece guarda ‘n po’, pare proprio che stanotte sò successe due cose strane insieme. Un branco de lupi ha incontrato tre ragazzini e, anziché sbranasseli, l’ha riportati a casa. E intanto na foresta che bruciava s’è spenta all’improvviso da sé, senza che pioveva». Poi fece un cenno a Cornacchia, «Te l’hai mai visto n’incendio che se spegne senza che piove?».
Cornacchia fece di no con la testa.
Nessuno fiatava. Gli sguardi si spostavano dai ragazzini a Fausto. Questo fissò il figlio come una belva affamata che punta una preda e disse:
«Adesso me devi dì la verità: andó siete stati e chi avete incontrato».
Aldo e Gigi si voltarono verso l’amico. Ormai era una faccenda tra lui e suo padre. Mino prese tempo inumidendosi le labbra. Se non fosse stato per lui, probabilmente la foresta sarebbe stata ancora in fiamme. Non poteva dirla la verità. Non poteva raccontare davanti a tutto il paese di essere andato a consulto da una strega e di averla avvertita che suo padre stava devastando la foresta, di aver incontrato un folletto e di averci stretto un patto, di aver visto e partecipato a eventi magici. Passare da bugiardo era meno peggio che essere etichettato come amico di esseri fatati.
«Dalle parti de Cinello», ripeté: «Semo andati…»
«Basta», lo interruppe il padre. «Zitto!». Anche se non alzava la voce, le narici dilatate tradivano l’ira. «Se non me vòi dì la verità adesso allora ne parlamo dopo a casa».
Mino sapeva esattamente cosa significava parlarne dopo. Aveva mentito a suo padre davanti a tutto il paese. Non se la sarebbe cavata con le solite cinghiate, stavolta. Invece di girare i tacchi e incamminarsi, restò fermo immobile, paralizzato dalla paura. E suo padre lo fissava.
«Vattene», ripeté Fausto.
E improvvisamente a Mino saltò in mente che la sera precedente un’altra persona gli aveva detto quella stessa parola: vattene. Però non per dirgli di tornare a casa, ma esattamente il contrario. Gli apparve davanti il volto di Lella la strega, come se fosse stata lì nella piazza. Il ragazzo divenne rosso in faccia, il sudore cominciò a scendergli dalla fronte.
«Embè? Alza i tacchi!»
Il cuore batteva all’impazzata, sentì un fuoco avvampargli le guance, le orecchie e, prima che potesse rendersene conto, la sua bocca emise una sillaba:
«No».
Dalla falegnameria riecheggiava nella piazza il rauco grattare di una raspa, eppure tutti sentirono chiaramente la domanda di Fausto, nonostante fosse poco più di un sussurro:
«Com’hai detto?»
Mino prese fiato e ripose:
«Ho detto de no».
La madre di Mino afferrò il figlio per un braccio:
«Annamo a casa».
«No!», fece lui strattonando per liberarsi.
Più di qualcuno sospettava che Fausto sarebbe stato capace di ammazzare pure il figlio, per un’insolenza del genere. Donne si portarono le mani alla bocca, uomini presero a mormorare parole di biasimo. Mino allontanò sua madre con un mezzo spintone.
«Nun ce torno a casa!».
Il padre non si avvicinò.
«Cornà, ariportamelo a casa», disse. «Fà er favore».
Cornacchia avanzò. Mino si guardò intorno, voleva fuggire ma era circondato da troppe persone. Era impossibile aprirsi un varco. Guardava Cornacchia avvicinarsi. Era braccato. Il bandito stava allungando una mano verso di lui, quando fu interrotto dalla voce di un vecchio:
«Daje e daje s’è ribellato, er ragazzino!»
Era Nonno Pino. La folla si aprì spontaneamente, creando un passaggio che dal centro della piazza portava alla porta della falegnameria, accanto alla quale, come tutti i giorni, il vecchio se ne stava seduto sulla seggiola che si portava da casa. Il suono di raspa era cessato.
«Impicciate de li fatti tua, vecchio», lo apostrofò Cornacchia.
«Li fatti mia? State in mezzo a na piazza, sò fatti de tutti!», ridacchiò serafico Nonno Pino. «E poi sto ragazzino me sta simpatico».
Cornacchia lanciò un’occhiata al padrone, come a chiedergli se era il caso di dare una lezione a un vecchio così decrepito e Fausto gli fece un cenno per dire di lasciar correre. Ma Mino approfittò di quell’attimo di distrazione per allontanarsi lungo l’unico percorso libero e s’andò a mettere accanto a Pino, davanti alla soglia della falegnameria. Cornacchia mormorò un’imprecazione e avanzò verso di lui a grandi passi.
E allora accadde la cosa che più sbalordì gli abitanti di Lapile quella mattina. Nonostante gli eventi fuori dal comune che s’erano già verificati, il fatto che più eccitò la loro fantasia per anni a venire fu vedere la mano che si posò sul petto di Mino. Una mano enorme. Il ragazzo fu spinto indietro. E tutti videro Checco il falegname che si frapponeva tra Cornacchia e il ragazzino. Era altissimo e con le spalle possenti, ma quel giorno sembrò che non fosse mai stato così gigantesco, forse perché teneva la schiena più dritta del solito.
Cornacchia lo guardò sinceramente stupito:
«Me sa ch’è mejo che te levi», gracchiò.
«Va’ dentro alla bottega», disse Checco a Mino.
Il ragazzo non se lo fece ripetere. Gli uomini di Fausto andarono a spalleggiare Cornacchia, qualcuno tirò fuori una mazza. Allora sor Checco, con assoluta naturalezza, fece un gesto con la mano aperta verso di loro, come a dire aspettate un attimo; si voltò, con un passo arrivò alla soglia della sua bottega e chinò la testa per affacciarsi dentro, perché era così alto che stando dritto non ci passava. Quando si rivoltò brandiva un ascia da boscaiolo nella destra, mentre con la sinistra si sistemava una roncola nella cinta dei pantaloni. Poi disse:
«Er primo che s’avvicina je apro la zucca in due».
«Fa’ uscì subito mio fijo da là dentro», disse Fausto.
Mentre teneva gli occhi su Cornacchia, Checco rispose:
«Sor Fà, io sò cresciuto dentro ai boschi. Tante notti, co la tempesta, l’ululati dei lupi… quando ero piccolo ciavevo paura e piagnevo. Allora sai che faceva mi padre? Me riempiva de botte. A legnate. Sì e no j’arivavo alla cinta e lui me pijava a legnate sur culo, sulla schiena, certe volte pure su le mani. Io piagnevo de più e allora lui me ne dava de più».
Per la prima volta il volto di Fausto non poté nascondere un fremito di rabbia. Gli ci vollero alcuni secondi, ma poi capì a cosa alludeva Checco. Quello straccione di falegname doveva aver visto i segni delle frustate sulla schiena di suo figlio e ora osava impicciarsi dei fatti di casa sua davanti a tutti.
«Se vede che non te n’ha date abbastanza», rispose. «Se no avevi imparato che comanda er più forte».
«E invece ho imparato eccome. Infatti appena sò diventato grosso come lui j’ho rotto er naso e l’ho cacciato de casa». Era una storia vera, in molti la potevano confermare.
Mino s’era affacciato alla soglia della bottega e guardava a bocca aperta.
«Io dico che sto ragazzino è grande abbastanza da decide se vole tornà a casa o no», proseguì Checco. «E se quarcheduno non è d’accordo deve parlà co me». Detto questo, sollevò l’accetta all’altezza della testa di Cornacchia.
S’alzarono grida si spavento e quelli in prima fila presero a spingere per indietreggiare.
«Mettete via quelle armi!», protestò don Flavio con le mani sulla testa.
«Ve siete ammattiti?».
Gigi fu afferrato per il colletto dalla mano di sua madre e tirato via. Aldo s’allontanò da solo, ma non così tanto da non potersi godere la scena.
«Lascia perde, sor Che!», urlò qualcuno.
«Nun sò fatti tua!»
«Sì però è ora che qualcuno je ne dice quattro, a sti mascalzoni!»
«Stanno a distrugge tutto!»
«Vabbè ma quello è er fijo!»
Fausto doveva valutare la situazione in fretta. I suoi erano in tanti, ma esitavano a farsi sotto. Il più alto arrivava alle spalle di Checco. Probabilmente alla fine avrebbero avuto la meglio, sempre che qualcuno di loro avesse trovato il coraggio di provarci. Era evidente che il falegname aveva intenzione di spedire in una cassa di legno il primo che gli fosse arrivato a tiro. In ogni caso sarebbe finita in un bagno di sangue e Fausto non poteva permettersi di causare un altro motivo di protesta nei suoi confronti, dopo aver incendiato la foresta.
«Allora famo così», disse all’improvviso: «Mio fijo è libero de non tornà a casa. Però, se non torna, allora deve sparì dalla circolazione. Per sempre. Perché dopo, se lo rivedo, sgozzo a lui e a te. Co le mano mie. Je do tempo fino a stasera pe decide».
Detto questo, fece un cenno ai suoi, si voltò e se ne andò.
La madre di Mino esplose in un pianto disperato. I suoi singhiozzi e le sue grida riecheggiarono per ore, mentre cercava di convincere suo figlio, barricato nella falegnameria. Per tutto il pomeriggio, in tutto il borgo si udirono le sue implorazioni.
Partenza
Nella piazza in ombra cominciava a soffiare un vento freddo. Il sole era già sparito dietro il colle dei Sassi. Sulla soglia della bottega, Mino si stava infilando a tracolla uno zaino di buona fattura, fatto di tela con cinghie in pelle e il telaio di legno.
«Me l’ha dato un soldato zoppo», disse sor Checco. «J’ho sistemato la porta de casa ma non ciaveva un soldo bucato. J’ho fatto ‘damme quello zaino e stamo a posto’. Ma poi non l’ho mai usato». Mino indossava una giacca di Aldo e un maglione di Gigi. L’unica cosa di valore che aveva con sé erano le scarpe ai piedi, acquistate sei mesi prima coi soldi di suo padre. Non era potuto tornare a casa a farsi un bagaglio e i suoi amici avevano provveduto portandogli cose.
«In bocca al lupo, regazzì», disse Nonno Pino dalla seggiola.
«Crepi», rispose Mino, che poi si voltò verso il falegname: «Grazie, sor Che», disse abbracciando l’omone. Abbracciò anche i suoi amici. Gigi piangeva senza vergognarsi, Aldo girava la testa per non far vedere i lacrimoni.
Lo accompagnarono alla porta del paese. E lì incontrarono Peppe e sua sorella Sandrina. Stavano rientrando dalla campagna insieme a loro padre. Si guardarono negli occhi, ma non si dissero niente. Per un attimo, Mino rivide il viso di Sandrina accanto a un mazzetto di calendule gialle e arancioni, mentre gli sorrideva coi capelli castani agitati dal vento. Erano passati solo pochi giorni da quella domenica mattina, ma parevano secoli. Quell’incontro fece diventare il peso sul cuore di Mino ancora più grande. Non sapeva dove sarebbe andato. Aveva un pezzo di pane, una bottiglia di acqua, una coperta di lana, un coltello da cacciatore, un’accetta da boscaiolo, un acciarino e lo zaino di un vecchio soldato squattrinato.
+++FINE DELLA SESTA PUNTATA+++
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