Il 15 Novembre del 2014 Steve Albini fu invitato a fare un «Keynote Speech» alla Melbourne Music Week, per raccontare al pubblico australiano cosa pensava dello stato del mercato discografico. Ne uscì fuori una vera lezione su come il business della musica si è evoluto in seguito all’avvento di internet.
Dal 2014 le cose sono cambiate ancora, ma il contenuto di quella conferenza resta interessantissimo e ricco di spunti di riflessione.
In questo articolo ne riassumiamo il contenuto e proviamo a darne una lettura.
Prima di proseguire: questo articolo è la Terza e Ultima Parte di una serie dedicata a Steve Albini.
Le prime due parti sono:
1) Chi era e cosa diceva Steve Albini
La Conferenza al Melbourne Music Week
Dal 1993, quando aveva scritto «The Problem with Music», erano passati venti anni, il mondo della musica era stato travolto dall’avvento di internet e Steve Albini si definiva, senza mezzi termini, ottimista. Era in controtendenza, la gran parte delle persone che si occupavano di musica era pessimista sul futuro della musica. Ancora oggi, molti sono convinti che internet abbia cambiato in peggio il mercato musicale.
Per avvalorare quello che stava per dire, Albini spiegò che pensava di poter dare un’opinione competente perché aveva iniziato a lavorare nella musica nel 1978, faceva da sempre il musicista (ha avuto tre band), aveva fatto il redattore di fanzine, il promoter, aveva aperto un’etichetta discografica e lavorava da sempre come tecnico del suono.
In base a questa sua esperienza, era convinto che per i musicisti le cose fossero migliorate.
Certo, chi faceva soldi con le royalties e con le vendite di supporti fisici (vinili, cassette e CD) aveva visto i suoi guadagni svanire. Ma tutti i discorsi su come queste fonti di guadagno avrebbero dovuto essere sostituite, secondo lui sono puttanate.
Davvero era meglio prima?
Fino alla nascita di internet, dice, l’industria musicale è stata sostanzialmente l’industria delle registrazioni.
«Ma registrare era un’impresa costosa, perciò non era comune. Persino una demo richiedeva un investimento considerevole». La maggior parte delle band nasceva e si scioglieva senza mai aver prodotto alcuna registrazione.
Nel 1979, dice, si poteva acquistare un 45 giri per $1, un album per $5. Poi, con una «graduale inflazione», tra gli anni ’70 e i ’90, i prezzi sono lentamente aumentati a dismisura, rendendo gli album registrati sempre più costosi.
Ma nonostante l’aumento dei prezzi, le registrazioni sui supporti fisici continuavano a essere la principale fonte di esperienza musicale per le persone di tutto il mondo. Le band andavano in tour sostanzialmente per promuovere i loro dischi.
«Tutta l’indiustria dipendeva da queste vendite, e le vendite dipendevano dall’esposizione», dice Albini.
Banalmente, la quantità di dischi che poteva vendere un musicista dipendeva da quanto lui e i suoi brani musicali erano famosi.
Ma ottenere questa «esposizione» era costoso.
L’industria degli sprechi
Il primo modo per avere esposizione era fare concerti.
Per mantenere le band in tour, le etichette spendevano molto denaro, perché dovevano pagare agenti, manager, roadie (i tecnici).
Oltre ai tour c’era il materiale pubblicitario: poster, display, annunci, omaggi. I negozi, specie quelli delle grandi catene, vendevano degli appositi spazi pubblicitari dove le etichette potevano posizionare poster e display pagando profumatamente. Con situazioni paradossali, come il mega poster della band hair metal in un negozio di periferia frequentato da casalinghe e pensionati.
E poi c’erano le radio.
La pratica della cosiddetta payola è sempre stata molto comune, nonostante negli USA fosse illegale dal 1960. Payola è un termine poco noto in Italia, usato in America per indicare la pratica di pagare sottobanco i dj perché trasmettano certi brani.
Per le radio era un affare, tanto più che spesso raggiravano le etichette, mandando in onda le loro canzoni solo a tarda notte o solo in frammenti.
Poi c’erano le copie dei dischi che venivano inviate a giornalisti e dj. I destinatari di queste copie omaggio le rivendevano nel mercato dell’usato. Albini racconta che sua moglie lavorava in un negozio di dischi negli anni ’90 e conosceva di persona alcuni di questi tizi. C’era gente che alzava $1000 al mese o anche di più, rivendendo queste copie omaggio.
Tutto questo sistema era quindi basato su una quantità enorme di sprechi: denaro che usciva incontrollato attraverso buchi, come un sistema idrico pieno di falle. Ovviamente dava lavoro a tantissima gente: commessi dei negozi, avvocati, fotografi, tipografi, manager, direttori artistici, dj, agenzie di booking, banche, agenzie di viaggio, venditori di cocaina, prostitute. Ma dal punto di vista dei costi era anche altamente inefficiente.
Tutta l’industria musicale era organizzata per far funzionare questi numerosi e costosi passaggi. Ma l’aspetto fondamentale è che questi passaggi erano pagati sfruttando un trucco contabile chiamato «Recouping Costs» (Recupero dei Costi). Ne abbiamo già parlato in The Problem with Music, comunque il succo è che questo recupero avveniva scalando le spese dalle royalties destinate ai musicisti.
In pratica, non erano le etichette a pagare tutto, ma i musicisti: dalle copie promozionali ai poster passando per le mazzette ai dj.
Quando negli anni ’90 le etichette hanno spostato la stampa dei supporti fisici dal vinile al Compact Disc come formato dominante, i guadagni per le etichette sono aumentati a dismisura, perché i costi per la stampa, l’immagazzinamento e la spedizione erano molto più bassi per i CD, ma questi venivano venduti a prezzi più alti. E per attirare l’attenzione del pubblico e convincerlo ad acquistare i Compact Disc, venivano inventate edizioni uniche, speciali, bizzarre, che ovviamente avevano costi di stampa più alti: che però venivano scalati dalle royalties dei musicisti, quindi per l’etichetta era sempre un guadagno.
Qui c’è un passaggio cruciale nell’analisi di Albini: se i soldi delle royalties fossero andati interamente ai musicisti, questi li avrebbero reinvestiti al di fuori dell’industria musicale: in case, generi alimentari, istruzione universitaria, eccetera.
Invece, col sistema del «Recupero dei Costi» quei soldi venivano reinvestiti all’interno dell’industria musicale, aumentando il prestigio dei dirigenti che autorizzavano quelle spese.
È come se il tuo capo, dice Albini, usasse una quota enorme del tuo stipendio per pagare persone che lo circondano, aumentando così la sua reputazione nell’ambiente lavorativo.
Questa cosa ha portato negli anni ’90 a una vera e propria gara a chi spendeva di più.
Insomma, un intero sistema industriale si reggeva sugli sprechi.
L’alternativa agli sprechi
Ma esistevano anche band al di fuori di questo sistema, come quelle in cui suonava Albini. Per queste band era tutto molto più piccolo e quindi anche più facile da gestire.
La promozione era affidata ai volantini attaccati ai pali, alle menzioni occasionali nelle radio dei college, alle fanzine. Se il locale dimenticava di pubblicizzare la serata, ti poteva capitare di suonare in una sala vuota (per inciso, una volta a me è successo! Ma il gestore del locale, che era una persona onesta, mi ha pagato lo stesso, rimettendoci i soldi).
I media non ti prendevano in considerazione se non avevi una copertura nazionale, quindi non aveva senso sbattersi per contattarli. E le radio commerciali erano inaccessibili se non avevi un sacco di soldi per pagare la payola.
Così, queste band che stavano al di fuori del sistema delle grandi etichette, semplicemente, imparavano ad arrangiarsi. Avevano la loro rete di locali, le loro fanzine e i loro dj. A volte creavano delle etichette indipendenti, nelle quali ognuno doveva fare la sua parte e i profitti erano equamente suddivisi, cosa che incoraggiava l’efficienza e scoraggiava gli sprechi.
Albini descrive questa scena indipendente come un’accozzaglia di «punk, frickettoni casinisti, drag queen e balbettanti poeti di strada». Ma è lì che «la maggior parte di noi ha capito che era possibile farsi i propri dischi, condurre il proprio business e avere il controllo della propria carriera. Se un mucchio di sniffatori di colla brufolosi poteva farlo, pensavamo, allora poteva farlo chiunque».
Dice che la sua band intascava il 50% del netto su ogni copia venduta. È una percentuale enorme. Michael Jackson, Bruce Springsteen, Madonna e Prince se le sognavano delle percentuali così, dice scherzando (cioè, è vero, solo che poi ovviamente quelle mega star vendevano milioni di copie).
Sembra tutto fantastico e di sicuro lo era, almeno nei paesi come gli U.S.A., dove la musica alternativa trovava facilmente un seguito. Ma poi è arrivato internet e tutto questo è finito.
È un dato di fatto.
Il world wide web ha reso obsoleto il commercio dei supporti fisici e le band indipendenti, che sopravvivevano vendendo le loro incisioni autoprodotte, hanno visto svanire il loro mercato.
Tuttavia, le cose vanno viste anche dal punto di vista del pubblico!
Perché il mercato discografico è composto da due poli principali:
1) i musicisti, che producono la musica
2) e il pubblico che la ascolta.
Dai musicisti al pubblico direttamente
Lo scopo di internet è velocizzare la comunicazione e la condivisione. Una cosa perfetta per far circolare la musica. Ma chi aveva creato un business gigantesco vendendo supporti fisici in tutto il mondo attraverso una complicatissima rete logistica non sapeva come sfruttare un’innovazione del genere. Era un cambiamento troppo radicale perché i discografici lo prendessero in considerazione. E così gruppi di hacker e programmatori sparsi per il mondo svilupparono delle tecnologie che permettevano di distribuire la musica in modo informale e gratuito.
Questa tecnologia fu subito definita illegale.
Eppure il pubblico ne fu entusiasta.
È inutile che ce lo nascondiamo, tutti noi appassionati di musica abbiamo pensato che era il paradiso in terra. Negli anni ’90 gli stipendi andavano mediamente da 1 milione a 1 milione e mezzo di lire; per acquistare un CD ti servivano dalle 20 alle 30mila lire, una cifra abbastanza alta da impedire di comprarne grandi quantità, specie per i giovani studenti che spesso erano senza reddito.
All’improvviso, sfruttando un software di file sharing, era possibile accedere gratis a tutta la musica del mondo o quasi.
Incidentalmente, poteva capitare che il disco di una band dimenticata da decenni venisse digitalizzato e messo in condivisione, trovando nuova vita e nuovi fan. Musicisti che avevano dovuto abbandonare la carriera perché esclusi dal mercato potevano ricominciare a fare concerti.
Nel frattempo, la tecnologia ha reso l’attrezzatura per registrare musica molto più economica. I computer escono dalla fabbrica con software di registrazione installati di default e microfoni di buona qualità si trovano ovunque a prezzi accessibili. Le band oggi possono fare registrazioni della loro musica con costi prossimi allo zero. Possono mettere queste registrazioni su piattaforme nate per la condivisione di file audio-video come BandCamp, SoundCloud e YouTube e poi postare link a questi file sui social network o sui loro siti, dove sono accessibili a utenti sparsi in tutto il mondo.
Per una piccola band indipendente, un tempo era impensabile arrivare in mercati lontani come Grecia, Turchia Giappone o Cina. Oggi è facilissimo e più o meno gratuito. I fan in questi luoghi lontanissimi possono scrivere in pochi secondi un messaggio alla band che amano e avere una risposta. «Se una cosa del genere fosse stata possibile quando ero adolescente», dice Albini, «sono sicuro che sarei stato una vera scocciatura per i Ramones».
«Un paio di anni fa», racconta, «la mia band ha fatto un tour nell’Europa Orientale. Abbiamo suonato in tutti i posti caldi: Repubblica Cieca, Polonia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Bulgaria, siamo arrivati fino a Istambul in Turchia». Albini racconta di essere stato accolto come un amico e di aver suonato in locali delle stesse dimensioni di quelli in cui è stato ospitato nell’Europa Occidentale o in Australia. «La differenza chiave è che nella maggior parte di quei posti non avevamo letteralmente mai venduto un singolo disco. Il 100% della nostra esposizione era avvenuta tramite canali informali su internet».
Oggi è tutto talmente semplice che le band di un tempo «avrebbero sbavato» per avere le stesse opportunità. «Il vecchio sistema era stato progettato dall’industria per servire gli attori all’interno dell’industria. Il nuovo sistema, dove la musica è condivisa in modo informale e le band hanno una relazione diretta con i fan, è stato costruito dalle band e dai fan nella maniera della vecchia scena underground. Salta tutti i passaggi intermedi».
Un altro cambiamento importante è il fatto che le persone sono diventate molto più «indulgenti nei loro gusti», dice Albini. Non essendo più obbligato ad ascoltare le playlist delle radio, il pubblico è più curioso di spaziare tra generi diversi e musiche di altri paesi e continenti. Col risultato che nascono community online praticamente per qualsiasi stile musicale e le persone possono confrontarsi e scambiarsi informazioni. Gli ascoltatori sono più «appassionati» e sono disposti a spendere molto di più per acquistare merchandise e vedere spettacoli dal vivo.
C’è stata un’evidente inflazione nel costo dei biglietti dei concerti, che oggi sono molto più costosi che in passato. Eppure le persone acquistano questi biglietti.
Funziona?
A questo punto Albini cita una frase che dice di aver sentito molte volte:
«Dobbiamo fare in modo che la distribuzione su internet funzioni per tutti»
Sentenze del genere, spesso pronunciate da persone che lavorano all’interno dell’industria discografica, sono sibilline e piene di tranelli.
Il soggetto della frase è «noi. Ma chi è questo noi?
Non il pubblico, che non è mai stato coinvolto nei processi decisionali sulla distribuzione musicale. Né certo i musicisti.
Il «noi» è la «parte amministrativa del vecchio business delle registrazioni, ecco chi». E questa gente non è ovviamente soddisfatta di come vanno le cose oggi. Non è che «dobbiamo fare in modo» è che «loro vogliono» fare in modo.
In verità non c’è alcun bisogno di «capire» nulla.
Quando questa gente parla di «far funzionare la distribuzione» si riferisce al suo bisogno di controllarla. Ma i file pubblicati online non sono controllabili. Non puoi controllare qualcosa, una volta che l’hai lasciata andare nel mondo, dice Albini, che sia un uccellino o una scorreggia. «Non puoi richiamare indietro la scorreggia, per quanto ti piacerebbe, e non puoi proteggere l’uccellino».
E il concetto di «distribuzione»? È una parola ingannevole.
Distribuire significa prendere dei prodotti fisici, immagazzinarli, inventariarli, tassarli. Inoltre, i prodotti fisici possono essere contati in modo chiaro e obiettivo, mentre non è così con i file. Non puoi contare quanti file sono rimasti sullo scaffale per verificare quanti ne hai effettivamente venduti.
E che si intende con «funzionare»?
Funzionare per chi? Etichette, musicisti e ascoltatori hanno desideri e necessità differenti e in contrasto tra loro.
Se gli ultimi 30 anni ci hanno insegnato qualcosa, dice Albini, è che musicisti e ascoltatori, se li si lascia fare, «possono andare d’accordo: le band possono capire come portare la loro musica davanti al pubblico e il pubblico capirà come ricompensarli».
«Vedo più band e ascolto più musica che mai in vita mia. Ci sono più concerti, più canzoni disponibili che mai, le band vengono trattate con più rispetto e hanno più controllo sulle loro carriere e destini […] È davvero emozionante».
Diritto d’autore
Albini conclude dicendosi a favore dell’abolizione del diritto d’autore per come lo conosciamo oggi, perché crea storture e ingiustizie. Per esempio impedendo a musica di autori morti di essere usata liberamente. O di usare la musica per scopi non commerciali. Anche perché la musica è diventata parte integrante di certi paesaggi. Non ha senso che venga controllata e si cerchi di fare soldi anche con questa cosa.
«Beh, a meno che i detentori dei diritti non mi permettano di ribaltare il tavolo. Se pensi che il mio ascolto valga qualcosa, ok, lo penso anch’io. Mandi una canzone di Phil Collins mentre faccio la spesa? Pagami $20. Def Leppard? Facciamo $100. Miley Cyrus? Non stampano soldi a sufficienza».
Riassumendo
Prima dell’avvento di internet il mercato musicale era il mercato delle registrazioni e tutto ruotava attorno alla possibilità di vendere i supporti fonografici che contenevano quelle registrazioni. Era facile, perché il pubblico desiderava a ogni costo quelle registrazioni, era disposto a spendere cifre molto alte per averle.
L’avvento di internet e della tecnologia del file sharing ha sconvolto questo sistema, perché il pubblico ha avuto all’improvviso la possibilità di avere quelle agognate registrazioni gratis
Lo sconvolgimento è derivato dal fatto che la vendita delle registrazioni non portava guadagni solo ai musicisti e ai discografici, ma a tutta una rete di professionisti che andava dai negozi di dischi alle tipografie, passando per i pubblicitari, i magazzinieri e le ditte di trasporti.
Se è vero che tutte queste persone hanno visto di fatto svanire le loro possibilità di guadagnarsi da vivere grazie all’industria discografica, così non è stato per i musicisti. Cioè, all’inizio forse sì, ma sul lungo periodo band e cantanti hanno trovato il modo di continuare a lavorare.
Il germe della possibile sopravvivenza economica di chi produce musica era già presente nel vecchio sistema: la musica underground è sempre vissuta senza tutto quel complicato meccanismo fatto di decine di passaggi e sprechi e mazzettari e profittatori. La musica alternativa è sempre sopravvissuta creando rapporti diretti tra musicisti e fan.
Secondo Albini, la musica oggi può continuare a vivere sfruttando gli stessi principi del vecchio undergound.
I soldi non arrivano più dalla vendita di LP, Cd o musicassette (se non in quantità molto marginale), ma verranno dai concerti, dalla vendita del merchandise e da forme di crowdfunding.
Se prima i musicisti facevano concerti per pubblicizzare i loro dischi, oggi semmai è il contrario.
Tutto bello ma vi dico la mia
Ci sono alcuni appunti da fare, a conclusione di questa lezione di Steve Albini. L’impianto generale del discorso secondo me è sostanzialmente valido ancora oggi, ma ci sono da mettere alcuni puntini sulle i. Un po’ perché è passato molto tempo, un po’ perché lui aveva una visione parziale delle cose: quella di chi è nato e lavora nel cuore dell’impero.
Le cose sono cambiate dal 2014
A tanti anni di distanza, possiamo dire che Steve Albini ci aveva visto più o meno giusto.
La musica non è morta e, sebbene non sia facile, molti riescono a farne un lavoro.
Nel 2014 per Steve Albini la musica era su internet principalmente come file sharing, cioè condivisione illegale di mp3 tramite software peer-to-peer come Emule o Torrent.
Nel 2015 (un anno dopo la conferenza di Melbourne) Spotify contava già 68 milioni di iscritti, ma nel 2024 ne conta oltre 600 milioni (dati da prendere con le molle perché forniti da Spotify).
Nel 2015 poi è nata Apple Music, che fra l’altro offre l’ascolto di file lossless (cioè ad alta qualità).
Negli anni successivi, Albini divenne molto critico nei confronti di Spotify, al punto che tutti i brani dei Big Black e degli Shellac furono rimossi dalla piattaforma. Albini contestava al servizio di streaming di essere posseduto in parte dalle major (che hanno una fetta di azioni della società) e di aver impostato un modello di business che fornisce grossi ricavi alle etichette più grandi e briciole ai musicisti.
Ma al momento dell’uscita del loro ultimo album, nel 2024, gli Shellac decisero di rimettere il loro catalogo su Spotify. Albini è scomparso 10 giorni prima della pubblicazione del disco, ma la decisione era stata presa prima, da lui, gli altri membri della band e la loro etichetta. Perché fondamentalmente pensavano che non avesse senso limitare la circolazione della loro musica.
La fine del file sharing
Il file sharing è sostanzialmente morto: nessuno ha più bisogno di fare una cosa illegale e rischiare di prendersi valanghe di virus sul computer per collezionare nell’hard disk file audio di bassa qualità. La musica è già a disposizione di chiunque abbia una connessione internet, gratis (con la pubblicità) o pagando un abbonamento da pochi euro al mese.
Ma questo per i musicisti non-mainstream (cioè la stragrande maggioranza di chi fa musica) non ha cambiato niente o quasi.
Per incassare una media di $1000 al mese lordi un musicista deve ottenere da 1,5 a 12 milioni di ascolti all’anno, a seconda del servizio (Apple Music è quello che paga di più, YouTube è quello che paga meno). Ma questi soldi vanno poi suddivisi tra l’artista e il proprietario del master, cioè l’etichetta discografica.
Cantanti italiani di grande successo come Mahamoud, Annalisa o i The Colors totalizzano centinaia di milioni di ascolti, ma sono delle eccezioni: la maggior parte degli artisti presenti sulla piattaforma totalizza alcune migliaia di stream all’anno e coi soldi di Spotify può solo sperare di rientrare delle spese di produzione del disco.
Per tutti loro, quindi, rimane valido quello che aveva predetto Albini: per arrivare a fine mese band, cantautori e compositori devono entrare in contatto diretto con i fan e proporre loro l’acquisto di merchandise, eventi dal vivo, spartiti o forme di finanziamento in cambio di contenuti esclusivi.
L’autopromozione non è una cosa facile
Albini la mette giu un po’ troppo facile. Autopromuoversi non è un gioco. È un lavoro, per il quale bisogna acquisire competenze. L’amara verità è che alcuni artisti non sono semplicemente in grado di farlo, per indole, per mancanza di tempo o per cocciutaggine.
Quando Albini fa il paragone con le vecchie scene musicali underground degli anni ’80 e ’90 parla di contesti molto vivaci, in cui le band si facevano forza l’una con l’altra e si stimolavano a vicenda.
Ma nella maggior parte dei casi, specie oggi, i musicisti sono isolati e devono portare avanti il loro lavoro facendo tutto da soli.
Non siamo mica gli americani
Un altro elemento che secondo me Albini sottovalutava era il fatto di essere americano.
Si calcola che l’inglese sia parlato fluentemente da circa 1,5 miliardi di persone nel mondo.
Quelli che parlano italiano sono circa 65 milioni: un mercato quasi 25 volte più piccolo.
Inoltre, il pubblico di lingua inglese è anche quello più maturo nell’utilizzo di internet e dunque più disposto a spendere denaro online.
Se sei un musicista che si autopromuove e pensi che 65 milioni di italiani siano comunque un sacco di gente, devi considerare che riuscirai a farti conoscere solo da una minuscola frazione di queste persone. E solo una frazione di questa frazione sarà effettivamente interessata alla tua musica. E solo una frazione della frazione della frazione sarà disposta anche a pagare per la tua musica.
Però si può fare
Eppure, al netto di queste puntualizzazioni, penso che l’impianto generale del discorso sia comunque valido. E penso di poterlo testimoniare, visto che da più di qualche anno la musica è per me una secondo lavoro.
Ci vuole perseveranza, voglia di mettersi in gioco e in una posizione di dialogo con il potenziale pubblico, che è diverso per ogni artista. Per alcuni musicisti funziona vendere t-shirt, per altri vale la pena stampare dischi in vinile. I fan di alcuni musicisti sono disposti a pagare per partecipare a delle live esclusive, altri non vedono l’ora di acquistare uno spartito di carta.
Forse l’insegnamento migliore che ci ha lasciato Steve Albini è questo: bisogna aprire la mente e non restare ancorati al passato, che non era poi così roseo come lo dipingono.
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