Cosa pensava Steve Albini del mercato musicale, di internet, dello streaming e della musica indie? Ha ancora senso oggi? E per noi in italia?
Steve Albini è morto improvvisamente il 7 Maggio 2024. È stato un tecnico del suono che ha avuto un’influenza enorme sulla musica indipendente, sia per i suoi metodi di registrazione, sia per le sue opinioni, che esprimeva spesso e senza riserve.
Steve Albini ha raccontato per tutta la vita l’industria della musica. E questo racconto è lì per noi, pronto da leggere.
C’è una valanga di materiale reperibile in rete. Si trovano registrazioni di conferenze, interviste, testi scritti da lui,i suoi tweet, i post su Reddit, il canale YouTube degli Elettrical Audio.
Mi sembrava cosa utile provare a mettere insieme e srotolare per il pubblico di lingua italiana questo racconto sparpagliato. Perché, sebbene il mercato discografico sia in continua trasformazione, dalle idee di Albini si possono trarre molti spunti di riflessione. Tanto più che oggi c’è un’ossessione generalizzata per la perfezione, la gran parte della musica commerciale è realizzata al computer e la poca roba suonata con strumenti veri viene sottoposta a un editing maniacale che la rende tanto impeccabile quanto innaturale.
Perfino su YouTube i musicisti sembrano angosciati dall’errore e tutto risulta smaltato, liscio, ultraterreno. E vuoto.
Prima di cominciare: questa è la prima puntata di una trilogia dedicata a Steve Albini.
1) Chi era e cosa diceva Steve Albini
2) The Problem with music di Steve Albini
La trasformazione di Albini
Dalla quantità di materiale reperibile scritto da e su Steve Albini, emerge la parabola di un uomo con un’etica incrollabile e idee anticonformiste, che è riuscito a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto in un ambiente amorale e conformista come quello della produzione musicale. E questa storia professionale è inestricabilmente connessa alla sua evoluzione personale: Albini era «uno stronzo» che col tempo si è trasformato in una persona affabile e rispettosa.
Steve Albini era nato nel 1962 a Pasadena, in California, ma viaggiò molto con la sua famiglia a causa del mestiere di suo padre, uno scienziato che studiava gli incendi e che veniva da una famiglia di origini piemontesi. Steve scoprì i Ramones a 14 anni grazie a un’amico e da lì sviluppò una passione assoluta per il punk rock. Mantenne più o meno gli stessi gusti musicali per tutta la vita.
Nel 1981 fondò i Big Black, che si sciolsero nell’87. Nelle loro canzoni affrontava spesso argomenti controversi come abusi sessuali, razzismo e misoginia in maniera provocatoria e disturbante allo scopo di sensibilizzare il pubblico. I Big Black si autoproducevano e organizzavano da soli concerti e promozione, in aperto contrasto con i meccanismi del music biz.
Poi mise su una band che si chiamava Rapeman (stupratore) e che durò meno di due anni. Il nome orribile e francamente disgustoso, che veniva da un manga giapponese, era nato proprio con l’intenzione di essere «repellente». Questa idea di «infastidire», di provocare sempre e a tutti i costi era il modo di Albini e i suoi amici di porsi in contrasto con un’industria dell’intrattenimento che cerca sempre di essere tranquillizzante e accomodante.
Ai concerti dei Rapeman c’era gente che faceva picchetti contro di loro. E il giovane Albini non si capacitava del fatto che quelle erano proprio le persone che avrebbe voluto tra il pubblico, perché erano quelle che la pensavano come lui. Evidentemente gli sfuggiva il fatto che la gente che si batte contro il sessismo e la violenza di genere difficilmente si mette ad ascoltare le parole di una band che si chiama «Stupratore».
Nel 2023 ha dichiarato di vergognarsi per quel nome, come di molto altro.
Controversie
Nei primi anni ’20, Albini fu molto attivo su Twitter (ora X), dove scriveva e discuteva di musica, di attualità e di politica americana, con un punto di vista di sinistra e radicale (scriveva anche di poker, di cui era appassionato, ma non saprei se avesse un punto di vista di sinistra radicale anche su quello).
Per molto tempo, soprattutto durante gli anni ’80 e i primi ’90, si era fatto la fama di essere un «monumentale stronzo», come ha scritto Jeremy Gordon in un lungo e interessante pezzo sul Guardian. Albini scriveva articoli insultando in modo pittoresco band indie rock con cui magari aveva anche lavorato. Cantava canzoni usando con leggerezza «frocio» e «negro». Era al tempo stesso stimato per essere un inossidabile punk rocker anti-sistema, ma anche odiato per i suoi modi e il suo atteggiamento. Perché non tutti capivano il suo sarcasmo aggressivo. Oppure lo capivano ma lo trovavano di pessimo gusto.
Pensava davvero che dire «puttana» non fosse sbagliato, se lo dicevi per ridicolizzare gli atteggiamenti maschilisti e prevaricatori degli uomini. Per usare una sua stessa metafora, credeva di poter combattere il male «giocando con le immagini del male».
Poi, col tempo, cominciò a rendersi conto che il linguaggio ha un peso. Le persone che più odiava al mondo usavano orgogliosamente proprio quel tipo di parole. «Quello è stato l’inizio di una sorta di risveglio in me», disse. «Quando ti rendi conto che la persona più stupida nella discussione è dalla tua parte, significa che sei dalla parte sbagliata».
Per fare un esempio, i Big Black avevano prodotto un singolo che si chiamava «Il Duce» in cui volevano esprimere disprezzo per il fascismo. In copertina c’era Mussolini con lo sfondo di una bandiera Italiana. Risultato: un sacco di gente credeva che fosse un inno al dittatore. È abbastanza ovvio: se usi un’iconografia tipicamente fascista, ben poche persone si prenderanno la briga di analizzare il testo della tua canzone per scoprire che in realtà è anti-fascista.
Negli ultimi anni, sul suo profilo Twitter, aveva espresso solidarietà con quanti gli rinfacciavano certi atteggiamenti e la leggerezza con cui aveva usato certo termini. «Ho incontrato i miei punitori ai concerti», twittò.
Scrisse che non si aspettava alcuna condiscendenza e che anzi lui e quelli della sua generazione non erano stati ritenuti «abbastanza responsabili per le parole e i comportamenti che alla fin fine hanno contribuito a imbruttire la società».
Quella di Steve Albini è stata una vera evoluzione personale. Tra gli anni ’80 e ’90, era generalmente considerato un ribelle detestabile, arrogante e so-tutto-io che usava un linguaggio volutamente irritante. Chi l’ha conosciuto dalla fine degli degli anni ’90 in poi, invece, lo descriveva come una persona gentile e accogliente. Ribelle lo era sempre ma, evidentemente, aveva compiuto un lavoro su se stesso che aveva fatto emergere in lui l’empatia.
Diceva che il lavoro di tecnico del suono aveva avuto un ruolo importante in questa trasformazione: aveva imparato ad ascoltare i musicisti con cui lavorava, a lasciarli fare senza imporre la sua volontà. E in effetti questo divenne proprio l’aspetto più caratterizzante del suo modo di produrre musica.
Musicista e scrittore
Tornando alla musica, nel 1992 formò il trio punk hard core degli Shellac, con cui suonò fino alla fine della sua vita.
La musica era un’attività collaterale, per lui, una passione, ma non era il suo lavoro e questo gli permetteva di infischiarsene delle regole del music biz. La pagnotta la guadagnava in un altro modo.
Nel frattempo aveva fatto molte altre cose. Da ragazzo era stato redattore per alcune fanzine, testimoniando la nascita della scena punk rock di Chicago agli inizi degli anni ’80 e contemporaneamente si era laureato in giornalismo.
Cominciò anche a fare pratica nella registrazione audio e col tempo divenne così bravo da trasformare questa cosa in un lavoro.
Surfer Rosa
Nel 1988 attirò l’attenzione producendo l’album «Surfer Rosa» dei Pixies, quello da cui viene il celebre singolo Where Is My Mind. Il disco lasciò sbalordita la critica per gli attacchi taglienti delle chitarre e il suono realistico della batteria. Era uno stile di registrazione minimale, rude, dove la voce non sovrastava gli strumenti, ma era dentro il mix. Sembrava di assistere a un concerto dal vivo, ma con suoni molto più definiti e senza il chiasso del pubblico.
Albini diceva di aver appreso molto del suo stile dal tecnico del suono inglese John Loder, di cui era un fan.
I Nirvana
Nel 1992 i Nirvana volevano mettersi al lavoro per produrre il loro terzo album, cui volevano dare un indirizzo completamente diverso dal precedente Nevermind, prodotto da Butch Vig (futuro fondatore e membro dei Garbage). Fra le altre cose, Vig aveva convinto Kurt Cobain a doppiare voci e chitarre, dicendogli che lo faceva anche John Lennon (di cui Cobain era fan). Ma a dare una suono troppo leccato e ripulito era stato soprattutto il remix che avevano deciso di affidare a Andy Wallace.
Per il loro terzo disco, i Nirvana volevano tornare a un sound più punk rock.
La band aveva pensato a due nomi, Jack Endino (che aveva prodotto il loro primo album «Bleach») e Steve Albini.
Fu lo stesso Endino a far loro notare che non avevano voluto produrre con lui Nevermind e che d’altra parte non facevano che parlare di Albini. Il che era strano, perché tutti sapevano cosa aveva detto Albini dei Nirvana: in una delle sue tipiche esternazioni sopra le righe, li aveva definiti «i R.E.M. col fuzzbox».
Ora, per quanto mi riguarda, i R.E.M. sono stati una delle migliori band degli anni ’90, ma per un punk rocker duro e puro come Albini erano un gruppo di rockettino melodico.
Il fuzzbox (o semplicemente «fuzz») invece è un tipo di distorsore particolarmente ronzante.
In sostanza Albini intendeva dire che i Nirvana facevano canzoncine orecchiabili ma con le chitarre rumorose.
Dopo averli conosciuti cambiò completamente opinione sui Nirvana.
La lettera di Steve Albini ai Nirvana
Ci furono dei contatti tra la band e Albini il quale, alla fine, scrisse loro una lunga lettera, il cui succo era: se volete fare un disco veramente punk rock, senza continui rimaneggiamenti e ripuliture, sono l’uomo giusto per voi. Se invece volete fare il prodotto carino che piace alle major, non mi cercate.
Nella lettera, però, diceva anche cose molto interessanti su come andrebbe prodotto un disco di musica rock.
Quella che era una corrispondenza personale tra un tecnico del suono e i suoi potenziali clienti, oggi appare come un vero manifesto.
In quella lettera Albini scrisse cose che qualsiasi amante del vero spirito rock ‘n roll dovrebbe considerare come vangelo.
Per esempio:
«Molti pensano alla registrazione come a una stratificazione di suoni, ognuno dei quali attentamente controllato dal momento in cui viene prodotto fino al mixaggio finale. Il mio approccio è totalmente diverso».
E anche:
«Produrre un disco senza che si vedano le cuciture, dove ogni nota e sillaba è al proprio posto e ogni colpo di grancassa della batteria è identico, è veramente facile. Qualsiasi idiota con sufficiente pazienza e denaro può permettere che si compia un tale scempio. Preferisco lavorare a dischi in cui contano cose più importanti come l’originalità, la personalità e l’entusiasmo»
Oppure:
«Personalmente amo il suono potente di una batteria che suona come se fosse in una stanza vuota, con quei doppi colpi alla John Bonham e un suono pazzesco del rullante. […] Ma modellare un disco sui miei gusti è stupido quanto costruire una macchina in funzione della sua tappezzeria».
Poi chiudeva dicendo che non gli interessava quanto lo avrebbero pagato, potevano fare loro il prezzo, a lui sarebbe andato bene. E che non avrebbe mai voluto una percentuale sulle royalties, perché è una cosa immorale. Diceva che non avrebbe mai potuto accettare una percentuale su un disco che avrebbe venduto magari 3 milioni di copie, perché con tutti quei soldi non ci avrebbe dormito la notte.
In Utero ne vendette 15 milioni di copie, di fatto Albini rinunciò a milioni di dollari.
Nel febbraio del 1993 la band si procurò un furgone e raggiunse Albini in uno studio in Minnesota, dove registrarono tutto in un paio di settimane.
Dopo In Utero
Lì per lì sembravano tutti contenti del risultato, ma poi ci furono un po’ di discussioni: i Nirvana si fecero condizionare dalla casa discografica che inorridiva per quelle registrazioni così aspre. I brani che dovevano diventare singoli vennero rimaneggiati: «Heart Shaped Box», «Pennyroyal Tea» e «All Apologies» furono remixati da Scott Litt che, ironia della sorte, è famoso per aver prodotto diversi album di grande successo dei R.E.M.
Inoltre, tutto l’album fu affidato per il Mastering a Bob Ludwig per addolcire il suono generale del disco.
Ad ogni modo, In Utero rese comunque Steve Albini molto famoso. E questo finì col mettere sotto i riflettori anche le cose diceva.
Albini non era solo un tecnico del suono: era un punk rocker, con una conoscenza profonda del mercato musicale e che sapeva esprimersi e scrivere molto meglio della media degli appassionati di rock (aveva pur sempre studiato giornalismo).
Uno così è una spina nel fianco per un’industria che sostanzialmente prospera speculando sulla buona fede dei giovani (musicisti e fan).
Gli Elecrtical Audio
Nel dicembre del 1995 acquistò un edificio a Chicago dove fondare i sui studi, i mitici Electrical Audio. Non fu facile, si trovò in banca rotta più volte. Costruire uno studio di registrazione è dannatamente costoso e gli Electrical Audo ne comprendevano due, di studi, ognuno dei quali era suddiviso in più sale con caratteristiche acustiche diverse: alcune molto risonanti, altre acusticamente «morte» (cioè luoghi dove registrare suoni totalmente isolati).
Solo lo studio A era dotato di una consolle customizzata a 48 piste collegata a un registratore multitraccia Ampex a nastro. Tra le altre cose c’erano un vero organo Hammond e un pianoforte honky tonk (cioè di quelli in stile western, coi martelletti coperti di metallo). Tutta la struttura era stata progettata con criteri acustici molto particolari, come i muri di mattoni scollegati dalle fondamenta o le zone vuote tra pavimento e muro per scaricare le frequenze basse al di sotto della sala.
Gran parte dell’attrezzatura era vintage, compresi diversi microfoni a condensatore da decine di migliaia di dollari.
Oltre ad essere al verde per questo investimento folle, Albini faticava a trovare lavoro: dopo In Utero, le band piccole non lo cercavano perché credevano che ormai fosse inavvicinabile, mentre le major lo odiavano. Raccontò di aver venduto perfino le sue chitarre per finanziare la realizzazione degli Electrical Audio.
Ma era anche diventato famoso ed era bravo e molti musicisti lo adoravano. E così accadde che venne contattato da Jimmy Page e Robert Plant.
Walking into Clarksdale
Le due rock star erano reduci da un disco di enorme successo, il bellissimo «No Quarter», in cui avevano rivisitato molti classici dei Led Zeppelin accompagnati da orchestra e strumenti etnici. Per incidere il loro nuovo album «Walking into Clarksdale», chiesero ad Albini di raggiungerli agli Abbey Road Studios di Londra (per chi non lo sa, sono gli studi di registrazione più famosi del mondo).
Uscì fuori che Robert Plant era da tempo un ammiratore di Steve Albini.
Albini sapeva che era l’occasione della sua vita. «Ho fatto tutto il possibile per evitare di deluderli».
E filò liscia.
Non era paraculaggine: nonostante il background punk rock, Albini era un ammiratore di Plant e Page e dei Led Zeppelin. Fu una situazione spiazzante per lui, abituato a lavorare con band di rock alternativo con budget limitati, perché Plant e Page erano due super rock star con tutto il denaro del mondo a disposizione. In un’intervista Albini ha raccontato di una volta in cui Plant disse a Page che secondo lui in un certo brano ci sarebbe stata bene un’orchestra (forse era per «Most High» o forse «Upon a Golden Horse»); in meno di due giorni, un’arrangiatore aveva buttato giù tutta la partitura e 24 membri della London Synphony Orchestra erano in studio pronti per registrare.
26 anni dopo, alla notizia della morte di Albini, Jimmy Page ha scritto un post dicendo di essere orgoglioso del lavoro che avevano fatto assieme.
Oltre a risanare le finanze di Albini, questo disco fu una consacrazione: due mega star del rock «classico» avevano scelto lui e questo significava: hey gente, lavorare con Steve Albini è ok, non è solo per squattrinati punk rocker anti-sistema.
Walking into Clarksdale vendette poco, in confronto al precedente No Quarter, probabilmente perché non aveva alcun singolo facile e d’acchiappo. La critica l’ha giudicato in modo disomogeneo. Il brano «Most High» vinse un Grammy come migliore performance hard rock. Per me è un disco pieno di belle canzoni. Onestamente penso che abbia qualche punto debole, a volte la chitarre suonano un po’ «soffocate». Però mi piace, l’impressione generale è quella di disco «vivo», non c’è niente che suoni posticcio come in certi dischi moderni, molto più nitidi ma anche più plasticosi.
Le critiche di Elvis Costello a Rid of Me di PJ Harvey prodotto da Steve Albini
Viene spesso citato Elvis Costello come esempio di persona che non ama il modo di lavorare di Steve Albini. Non so se Costello sia la prima linea di un gruppo di detrattori o se sia un caso isolato.
Ad ogni modo, siccome l’ho trovato citato in più articoli, credo abbia senso soffermarsi sulla faccenda.
In un pezzo pubblicato su Pitchfork nel 2020, in cui ripercorre una serie di dischi che lo hanno influenzato, Elvis Costello ha affermato che «Rid of Me» di P.J. Harvey, prodotto da Steve Albini nel ’93, suona «di merda». «Questo tizio non sa niente di produzione», ha sostenuto.
Nell’articolo, Costello fa un confronto tra l’album in studio e la versione 4 Track Demos, che secondo lui è molto meglio.
Di cosa parla Costello?
Un anno dopo la pubblicazione dell’album Rid of Me (quindi nel 1994), PJ Harvey decise di far uscire le versioni demo (cioè i cosiddetti «provini») di alcune canzoni del disco. Si trattava di registrazioni che aveva fatto da sola, a casa sua, tra il ’91 e il ’92. Naturalmente Albini aveva ascoltato quelle registrazioni e le trovava fantastiche, al punto da consigliare lui stesso a PJ Harvey di pubblicarle. E infatti spaccano.
Spaccano perché sono dirette, semplici e oneste, decisamente in linea con lo spirito DIY («fai da te») del punk rock. Ma sono una cosa lontana da un album in studio, dove è normale cercare di complicare un pochino le incisioni, renderle più profonde, aggiungendo qualche strumento e qualche effetto.
Rid of Me prodotto da Albini è un disco estremamente semplice come produzione e per certi aspetti somiglia alle demo autoprodotte di qualche anno prima. Ma ovviamente comprende anche batterie e altri strumenti. E secondo me suona in modo pazzesco. Fatico proprio a capire come uno possa parlarne male. I gusti sono gusti, per carità, ma quando tutti gli strumenti sono in equilibrio tra loro, sono perfettamente nitidi ma al tempo stesso suonano tanto vivi che sembra di ascoltare una performance dal vivo, come si fa a dire a dire che un disco suona «di merda»?
Allora ho provato a fare un confronto tra questo album e uno di Elvis Costello.
Ovviamente il confronto doveva essere tra due produzioni dello stesso periodo storico. Costello ha pubblicato un album nello stesso anno di Rid of Me, il 1993, «The Juliet Letters», solo che si tratta di brani per voce e quartetto d’archi, dunque non ha senso paragonarlo a un disco rock.
Così ho preso a riferimento la produzione dell’anno successivo, «Brutal Youth».
È un disco che conosco molto bene, perché acquistai il CD originale quando uscì. Dal punto di vista compositivo è considerato da alcuni critici il disco peggiore di Costello. A me le canzoni sembrano belle, ma io sono spesso in disaccordo coi gusti dei critici musicali.
Comunque sia, nel ’94 avevo 17 anni e non capivo ovviamente niente di tecnica del suono. Il mio primo tentativo di autoproduzione lo feci un anno dopo, con un multitraccia quattropiste a cassette, prestato dal mio amico Francesco. Ci tengo a specificare che non è che sia migliorato molto nel campo della produzione audio. Mi sarebbe piaciuto diventare bravo ma, per quanto ci abbia provato, ci sono elementi fisico-matematici troppo ostici per me. E ci tengo a specificare anche che sono tutto tranne che soddisfatto di come suonano le mie produzioni.
Ad ogni modo, già nel ’94 mi sembrava che Brutal Youth di Elvis Costello suonasse strano.
Riascoltandolo oggi, mi pare francamente terribile. Sono un semplice appassionato con molte carenze tecniche, ma a me pare evidente che in Brutal Youth la voce suona eccessivamente alta in tutte le tracce, la chitarra è quasi sempre troppo bassa e confusa e in generale tutti gli strumenti suonano «inscatolati».
Con tutto il rispetto per Elvis Costello, che considero un grandissimo cantautore, secondo me giornalisti e blogger farebbero bene a prendere le sue parole con le pinze.
Non sto qui a sostenere che Steve Albini sia il più grande tecnico del suono di tutti i tempi. Aveva senz’altro anche lui i suoi limiti. Ma se ha avuto un’influenza tanto grande nel campo della produzione della musica rock e il suo lavoro è stato imitato e preso a esempio da produttori e band in tutto il mondo, un motivo c’è.
Il concetto di «Hands Off»
Si è molto parlato della scomparsa di Albini, perché è stato uno dei produttori musicali più influenti nella storia del rock. Non amava la definizione di produttore e preferiva essere chiamato sound engineer, cioè ingegnere del suono. Siccome però la traduzione letterale in italiano suona ambigua, perché di solito usiamo la parola «ingegnere» per indicare un laureato in ingegneria, preferisco usare il termine tecnico del suono.
Curiosamente, nonostante fosse famosissimo, di tutti gli album a cui ha lavorato Steve Albini l’unico che ha sbancato le classifiche è stato In Utero. E tuttavia era oggetto di grande ammirazione da parte di molti appassionati di musica, perché dietro i suoi microfoni erano passati alcuni dei più importanti musicisti della scena alternative rock degli anni ’90, dagli Helmet a PJ Harvey passando per i Jesus Lizard e i Fugazi (anche se con questi ultimi non andò bene).
Gli anni ’90 sono stati il decennio dell’avvento delle tecnologie digitali nella produzione musicale. Negli studi di tutto il mondo si era diffuso l’uso del D.A.T. (Digital Audio Tape). Albini lo schifava e registrava rigorosamente in analogico.
Ma l’aspetto più noto del suo modo di lavorare era il concetto di «hands off» (cioè «giù le mani» o anche «via le mani»). Sostanzialmente, impostava i microfoni (moltissimi, a quanto ne so, posizionati con grandissima cura), premeva il tasto rec e poi lasciava che la band suonasse come era solita fare, senza dare consigli o imporre le sue idee.
Nel 2012 aprì una pagina AMA (Ask Me Anything, cioè «chiedetemi qualsiasi cosa») sul social network Reddit. In seguito deve aver cancellato l’iscrizione, perché tutti i suoi interventi risultano da «account eliminato», però sono ancora lì e possono essere letti.
Un utente gli chiese conto del fatto che Dylan Baldi della band Cloud Nothing aveva detto che mentre registrava nello studio di Albini, questo aveva passato tutto il tempo su Facebook.
La risposta è interessantissima.
«Quando ho iniziato a registrare dischi mi sedevo davanti alla console concentrandomi sulla musica ogni secondo. Ho scoperto a mie spese che tendevo a giocherellare inutilmente con le cose e i dischi finivano per suonare distorti e strani. Ho sviluppato un paio di tecniche per evitarlo, per impedirmi di creare confusione, ma al tempo stesso prestando attenzione a sufficienza per individuare i problemi.
Per molto tempo ho letto, ma doveva essere roba davvero noiosa e poco interessante. La rivista The Economist era perfetta, così come manuali tecnici e cataloghi di pezzi di ricambio. Ne avevo una pila vicino alla console. Non può essere nulla di interessante o avere una trama, come un romanzo, perché altrimenti potresti restarne assorbito e smettere di prestare attenzione alla sessione. Deve essere davvero noioso, così da farti cercare una scusa per metterlo via e fare qualcos’altro. Questa si è rivelata un’ottima strategia, in modo che se qualcosa suona male o qualcuno ti dice qualcosa, presti immediatamente tutta la tua attenzione e la tua concentrazione non è stata sprecata fissando gli altoparlanti e sforzandoti tutto il giorno».
Considerava se stesso come una sorta di operaio, tant’è vero che, in quasi tutti i video e le foto all’interno del suo studio, compare con indosso una tuta blu, come fosse un metalmeccanico o un carrozziere.
Umile operaio
Diceva di aver lavorato a oltre 2000 progetti.
Ma la cosa forse più incredibile è che si faceva pagare molto poco, per essere una star degli studi di registrazione.
Nella famosa lettera ai Nirvana, Albini diceva di voler essere pagato come un idraulico.
Avere Steve Albini dietro la consolle all’Electrical Audio costava $900 al giorno. Non molto più di un idraulico, in effetti. Tuttavia era una cifra molto piccola, per un nome così celebre. Oltretutto, solitamente consegnava i master (cioè le versioni finali delle canzoni, da cui si realizzano le copie da mettere sul mercato) in meno di una settimana.
In pratica potevi registrare un disco con Albini spendendo poche migliaia di dollari, una cifra abbordabile per una band indie che si era creata un seguito suonando dal vivo.
Ma non solo.
Albini continuò sempre a rifiutarsi di prendere una percentuale sulle royalties. Si faceva pagare il lavoro, punto e basta. Una volta che il disco era fatto non prendeva più niente, lasciava tutte le royalties ai musicisti che quel disco l’avevano scritto e suonato.
Costi e tempi contenuti dipendevano anche dal suo modo minimalista di lavorare. I musicisti, di solito, suonavano tutti insieme. Non usava fare sovraincisioni a meno che non fosse proprio necessario. Non amava far doppiare voci e strumenti, non faceva editing spinto per perfezionare i passaggi imprecisi. Usava un sistema di microfonazioni per riprendere la band nel modo più nitido possibile, in maniera da restituire il suono di una esibizione dal vivo.
Era anche dannatamente bravo, ovviamente, conosceva molto bene il suo mestiere. Ma soprattutto si atteneva a una regola rigida: non influenzare i musicisti. Cercava di restituire una sorta di fotografia fedele del loro sound.
Il fatto che non abbia inciso molti dischi da top 5, dipende probabilmente anche dal fatto che le major tendenzialmente lo evitavano come la peste. Per almeno due ragioni.
La prima era che il sound che lui tirava fuori dalle band somigliava a quello nudo e sporco di un concerto rock. Di quelli suonati nei locali coi muri di mattoni e gli amplificatori a palla. Non il sound patinato e ruffiano che all’industria musicale piace ficcare nelle orecchie delle persone.
La seconda era che Steve Albini andava a raccontare le porcate con cui le major facevano soldi alle spalle dei musicisti. E la gente lo stava a sentire.
Vai alla SECONDA PARTE ☞The Problem with Music di Steve Albini
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