Qual è il significato de La Storia Infinita, dell’Auryn, del viaggio di Bastiano nel mondo di Fantàsia? Proviamo a farci un giro anche noi?
Questo non è un articoletto da leggere in trenta secondi, sappi che ho intenzione di rapirti e portarti in giro molto a lungo: prepara le valigie.
Anche perché fra i vari temi che emergono ne La Storia Infinita ce n’è uno particolarmente attuale, che ci riguarda tutti da vicino.
Insomma La Storia Infinita sarà anche una scusa per parlare d’altro.
Ah, logicamente questo articolo
+++CONTIENE SPOILER+++
Cos’è La Storia Infinita
In Italia, il titolo La Storia Infinita è famoso soprattutto per il film del 1984 diretto dal regista tedesco Wolfgang Petersen, ispirato all’omonimo romanzo pubblicato nel 1979.
L’autore di questo romanzo è Michael Ende e anche lui era tedesco.
Non prenderò in considerazione il film (un grande classico che ho comunque amato moltissimo), perché ha modificato molti dettagli rilevanti e, soprattutto, ha troncato letteralmente a metà la vicenda: oddio, troncare a metà una storia infinita sembra un rompicapo filosofico, perciò diciamo che il film ha impoverito il senso del racconto originale.
In Italia il romanzo fu pubblicato per la prima volta da Longanesi nel 1981.
Questa qui sotto è la mia edizione stampata nell’82.
Trovo bellissima l’illustrazione della sovracopertina, di Roswitha Quadflieg, una visione prospettica del giardino-labirinto che conduce alla Torre d’Avorio, che risplende sullo sfondo.
La copertina interna, invece, è fatta per ricordare il libro rubato da Bastiano nella bottega del Signor Coriandoli, «di seta color rubino cupo», con l’Auryn al centro (quello vero, ma ne parliamo più sotto).
In realtà la tengo solo per collezionismo, quando leggo il romanzo uso la mia edizione da battaglia, quella in brossura dell’editore Corbaccio.
L’illustrazione di copertina è di Claudia Seeger, con alcuni dei principali personaggi del romanzo.
In casa mia c’è anche l’edizione Salani, ha voluto comprarla mia figlia per sé quando aveva otto anni: avevamo letto il libro insieme come storia della buonanotte e le era piaciuto così tanto che ne volle una copia tutta sua.
Purtroppo (come era già successo con l’edizione TEA del 1988) non ha il testo bicolore: il romanzo infatti deve avere parte del testo scritta in rosso e parte in verde-azzurro. È una mancanza proprio imperdonabile, ma a mia figlia piace perché ha un formato più piccolo: i bambini adorano i formati piccoli, li sentono più a loro misura.
L’illustrazione di copertina è la stessa usata da Corbaccio, circondata dai due serpenti che formano L’Auryn.
Nessuna delle edizioni italiane ha mai usato i meravigliosi capolettera originali creati da Roswitha Quadflieg, forse perché, essendo colorati, costa molto stamparli; sono stati sostituiti da quelli disegnati circa duecento anni fa dal pittore italiano Antonio Basoli. Belli, certo, ma non c’entrano niente con La Storia Infinita.
Questo qui sotto è il primo capolettera del romanzo, coi protagonisti del primo capitolo: il fuoco fatuo, il minuscolino, l’incubino e il mordipietra.
I lettori italiani non hanno mai potuto godere di questi ventisei piccoli capolavori della Quadflieg.
Ma stavamo parlando di come il film abbia in gran parte tradito le intenzioni del romanzo.
A causa di tali modifiche Michael Ende si arrabbiò così tanto che pretese di far rimuovere il suo nome dai titoli della pellicola (cosa che non gli fu concessa, per fortuna).
Comunque, già questo ci dà la misura del personaggio con cui abbiamo a che fare.
Michael Ende
Michael Ende nacque in Baviera nel 1929, quattro anni prima dell’avvento al potere del partito della svastica.
Era figlio del geniale pittore surrealista Edgar Ende, che si vide confiscare le opere dal regime nazista in quanto «arte degenerata».
Fu un rapporto burrascoso quello col padre, soprattutto quando questi lasciò la madre per una ragazza coetanea di Michael. Lo scrittore, a un certo punto, arrivò a riconciliarsi col genitore e fu un momento decisivo anche per la sua vita artistica: la pittura surrealista ha influenzato moltissimo la sua narrativa e il tema del ritorno al padre è un elemento chiave de La Storia Infinita.
Nel Capitolo XXV – La Miniera delle Immagini, il protagonista Bastiano si trova in un luogo pieno di delicatissime lastre su cui sono impresse visioni che ricordano fortemente l’arte surrealista; scavando in una profonda miniera, trova la raffigurazione di un signore in camice da dentista (il padre di Bastiano) e questo lo conduce alla salvezza.
Ma, come dicevamo, tutto il romanzo è impregnato dell’influenza surrealista: i paesaggi, i personaggi, le situazioni sembrano uscite dall’immaginario di Salvador Dalì, di René Magritte o di Alejandro Jodorowsky. Le Paludi della Tristezza, oppure l’Oracolo del Sud, il terrificante Ygramul Le Molte, la città d’argento di Amarganta, il gigantesco leone Graogramàn e il suo deserto multicolore, la Città degli Imperatori o anche Donna Aiuola.
La Storia Infinita è un susseguirsi di immagini assolutamente spiazzanti, scaturite da una fantasia lasciata libera di fluire senza limiti, volontariamente spinta a perdersi nel sogno.
Nel Manifesto del Surrealismo del 1924, André Breton sosteneva che la dimensione del sogno ha importanza pari a quella della realtà. E che sfruttando l’onnipotenza del sogno si può arrivare a un livello superiore alla realtà chiamato surrealtà (da cui il nome del movimento).
È un fatto importante, ma per ora torniamo a Michael Ende.
Era un giovanotto quando la Seconda Guerra Mondiale stava volgendo al termine e la sconfitta della Germania era imminente. Come molti ragazzi fu costretto ad arruolarsi, ma disertò con una fuga rocambolesca.
Si racconta che, cercando di raggiungere casa di sua madre, Michael abbia percorso ottanta chilometri in una sola notte. Se questa storia è vera, deve aver corso ininterrottamente fino al mattino.
Io ci credo: non so voi, ma io potrei correre una notte intera, se avessi i nazisti alle calcagna.
Successivamente entrò nel Fronte per la Baviera Libera, un’organizzazione antinazzista.
Finita la guerra, la strada per diventare scrittore fu lunga e difficile.
Voleva scrivere per il teatro (era un fan di Bertolt Brecht), ripiegò facendo l’attore. Poi scrisse il suo primo romanzo, Le avventure di Jim Bottone.
Negli anni ’70 venne a vivere a Genzano di Roma con sua moglie, in una bella casa immersa nel verde (qualcuno dice che in passato fosse stata un rifugio di contrabbandieri, ma non ho capito se è vero). I coniugi la chiamarono Villa Liocorno e qui Ende riuscì a completare un romanzo a cui lavorava da anni: Momo.
Il centro della vicenda di Momo è un antico teatro, ispirato alle rovine del teatro romano che si trovano nell’area archeologica del Monte Tuscolo. Ci sono andato in un giorno infrasettimanale di pioggia, sperando di poterlo fotografare vuoto, ma l’ho trovato recintato e sbarrato: è accessibile solo di domenica per le visite guidate. Qualcuno ha scritto l’orario di apertura con un pennarello (sbiadito dalle intemperie), su un foglio di carta attaccato con lo scotch.
Ad ogni modo, Momo e i suo amici ci potrebbero andare a giocare solo di domenica.
Pagando il biglietto.
Invece di recente, a Genzano, un teatro all’aperto di proprietà del comune è stato restaurato e intitolato allo scrittore tedesco, così ora esiste un Anfiteatro Michael Ende.
Nel ’79 il nostro diede alle stampe il suo capolavoro assoluto, La Storia Infinita.
Visse in Italia fino al 1985, quando, alla morte della moglie, tornò in Germania.
Alla fine degli anni ’80 si trasferì in Giappone, terra che amava molto, e lì sposò la traduttrice giapponese de La Storia Infinita. Ma morì di cancro poco tempo dopo, a 65 anni.
Michael Ende è stato un uomo costantemente ribelle: un disertore in tempo di guerra, un autore di letteratura fantastica quando si chiedeva agli intellettuali realismo e impegno politico. Criticato duramente dai letterati del suo tempo (con la solita accusa di escapismo che già era stata rivolta a Tolkien e a tutta la letteratura fantastica) Ende fece spallucce, godendosi l’ammirazione di bambini e ragazzi di tutto il mondo.
E quando l’industria cinematografica provò a fare di lui lo scrittore del momento, se ne andò sbattendo la porta.
In una fase storica di fortissima accelerazione come quella del secondo ‘900, Michael Ende scelse come animale-simbolo del suo approccio alla vita la tartaruga, presente in molte delle sue storie.
Ma c’è un altro elemento ricorrente nelle sue opere, assolutamente centrale ne La Storia Infinita: il rapporto tra noi esseri umani e la narrazione.
Ed è di questo che andiamo a parlare ora.
La Narrazione
Quando ci immergiamo in una narrazione, entriamo in uno stato molto simile a quello dell’ipnosi.
Non è una provocazione o un’esagerazione, è proprio letteralmente così. Se sembra strano, è soprattutto perché siamo abituati a pensare all’ipnosi come a quella roba da mesmerizzatori col pendolo. Ne ho parlato ampiamente in un altro articolo, quindi ora non ci perderemo in chiacchiere su questa cosa (a chi interessa, deve cliccare qui ☞Trance Narrativa d’Ascolto).
Il punto è che lo stato di concentrazione profonda in cui ci immergiamo quando guardiamo un film, leggiamo un libro o assistiamo a uno spettacolo teatrale ci fa provare sensazioni fisiche, come se la finzione fosse realtà: cì capita a tutti di avere il batticuore durante una scena particolarmente forte.
Un pezzo della nostra mente sa che è tutto finto, ma solo un pezzo. Il resto di noi si immerge senza condizioni in un mondo parallelo.
Come vedremo più avanti, la narrazione è una sorta di magia, ogni racconto si comporta come un incantesimo.
Purtroppo, come tutti sanno, esiste anche la magia malvagia, che nasce allo scopo di piegare la volontà degli altri. Per fortuna, c’è un modo facile per riconoscere quest’ultima, la presenza del finale: nel senso che le storie nate con cattive intenzioni non ce l’hanno o comunque lo rimandano a un futuro lontano nel tempo che non arriva mai; sono progettate per andare avanti all’infinito. Si comportano come un ipnotista che dice «al tre ti sveglierai» ma non ha alcuna intenzione di pronunciare la parola «tre».
Ok, sto anticipando troppo.
E ora preparati, perché entriamo nel cuore pulsante della questione.
Il Mondo parallelo
La narrazione è gioco e sogno: ci permette di sperimentare realtà lontane o impossibili e per questo espande la nostra comprensione della realtà.
In una delle scene più belle del romanzo Momo, un gruppo di bambini immagina che l’antico teatro sia una nave e loro siano un equipaggio di esploratori. In quelle pagine si apre il confine tra il racconto principale e l’avventura immaginata dai bambini e il lettore viene catapultato in una fantasia nella fantasia.
Quando il gioco dei bambini finisce, il lettore torna alla vicenda principale e il confine si richiude alle sue spalle.
Nelle opere di Michael Ende questo confine tra realtà e fantasia è presentato come un confine tra due mondi paralleli.
Su questo dualismo si struttura la Storia Infinita. Nel romanzo ne viene data una spiegazione completa da qualcuno capace di attraversare il confine tra i due mondi: il lupo mannaro Mork
I Due Mondi
Poiché gli esseri umani non credono in Fantàsia, questa viene invasa dal Nulla, che divora ogni cosa. Il Nulla non è visibile, quando lo si guarda si ha la sensazione di essere ciechi.
Il Nulla è cecità.
Ma quando una creatura di Fantàsia cade nel Nulla, non sparisce: il Nulla è infatti la porta che conduce al mondo degli uomini, cioè la realtà.
Questo spiega il mostro Mork al giovane pelleverde Atreiu, che sta proprio cercando un modo per andare nel mondo degli uomini, ma scopre che non può.
«Se ci andate, poi ci dovete rimanere per sempre. […] E quando ci siete caduti dentro, vi rimane addosso, il Nulla. Siete come una malattia contagiosa, che rende gli uomini ciechi, così che non distinguono più l’apparenza dalla realtà. Sai come vi chiamano laggiù?»
«No», mormorò Atreiu.
«Menzogne!», abbaiò Mork.
Le Menzogne
Il termine storytelling in lingua inglese è utilizzato per indicare l’atto di raccontare una storia.
Sul sito dell’associazione americana National Storytelling Network leggiamo (traduzione mia):
«Lo storytelling è l’arte interattiva di usare parole e azioni per rivelare gli elementi e le immagini di un racconto mentre si stimola l’immaginazione dell’ascoltatore»
Insomma, per gli americani, lo storytelling è una forma d’arte che consiste nel narrare una storia usando la voce e il corpo, stimolando l’immaginazione di chi ascolta.
Semplice.
In anni recenti, però, la parola ha assunto una sfumatura tutta particolare.
Viene usata per indicare una tecnica di marketing applicata da aziende, da piccoli imprenditori e da uomini politici.
Nel libro Storytelling d’Impresa, la Guida Definitiva, Andrea Fontana scrive che:
«Storytelling non significa raccontare storie».
E poi più avanti (all’interno di una spiegazione complessa e anche interessante) che lo storytelling è «comunicare attraverso storie».
Capito? Non più raccontare storie, ma comunicare attraverso storie.
È una sfumatura di senso che cambia tutto.
In effetti, con un pizzico di creatività, si può comunicare qualsiasi cosa attraverso una storia, anche la bolletta della luce, per dire.
Un filino deprimente, però, se confrontato con la forma d’arte proposta dal National Storytelling Network. Perché di fatto riduce il concetto di storytelling a tecnica di comunicazione, a mero strumento per veicolare informazioni, visioni del mondo, ideologie.
Non so se mi sono spiegato.
Per gli storyteller americani lo scopo è la narrazione in sé, emozionare valorizzando personaggi e vicende. Si racconta «solo» per il piacere di emozionare. Basta, non ci sono secondi fini.
Per un marketer, invece, l’arte in sé non ha più importanza, è degradata a strumento di comunicazione, non è più il fine, ma il mezzo. Quello che conta davvero è vendere il prodotto.
Ok, dirai tu, ma perché parli di questo?
Ma perché lo slittamento semantico del termine storytelling è esattamente ciò che accade alle creature di Fantàsia quando cadono nel Nulla (in realtà ci si gettano, in preda a un’incontrollabile attrazione suicida).
Gli incolpevoli abitanti di Fantàsia, attraversando il Nulla, entrano nel nostro mondo e smettono di essere personaggi di racconti fantastici, per diventare invenzioni che servono a forzare la volontà degli esseri umani.
In pratica, escono dal campo dell’arte per entrare in quello del marketing.
Serviranno per «posizionare un prodotto, per dare significato commerciale a una marca, per ottimizzare un’identità digitale». Queste parole lo ho prese dal testo di Fontana, ma ricordano sinistramente quelle ringhiate da Mork allo sconvolto Atreiu:
«Resta calmo, piccolo sciocco. Non appena verrà il tuo turno di saltare nel Nulla, diventerai anche tu un servo del potere, senza volontà e irriconoscibile. Chi lo sa a che cosa potrai servire. Forse servirà il tuo aiuto per indurre gli uomini a comperare cose di cui non hanno bisogno, o a odiare cose che non conoscono, o a credere cose che li rendono ubbidienti, o a dubitare di cose che li potrebbero salvare. Con voi creature di Fantàsia, nel mondo degli uomini si fanno i più grossi affari, si scatenano guerre, si fondano imperi…»
Se mi hai segui to fin qui, cominci a intuire quanto il pericolo in cui versa Fantàsia è ben più di una buona intuizione narrativa, è il racconto di qualcosa che sta capitando a tutti noi.
E che le menzogne di cui parla Mork, quelle con cui «si fondano imperi», sono le stesse che ci vengono propinate tutti i giorni.
Governare gli imperi
Alt, facciamo un passo indietro.
Perché Mork la fa facile, ma in realtà sta descrivendo un processo articolato, non così facile da credere e la maggior parte delle persone sarà convinta che si tratti di assurde esagerazioni di un autore di libri per bambini con la testa tra le nuvole.
Non è così.
Ci sono tre elementi chiave del discorso di Mork.
1) La progressiva scomparsa della fantasia nella nostra epoca.
2) A causa di questa scomparsa, personaggi e storie fantastiche si pervertono e diventano strumenti di propaganda, inganno, marketing.
3) Perdendo la fantasia, gli esseri umani diventano facili prede delle menzogne.
Chiave di Mork 1: scomparsa della fantasia
È un processo che ha caratterizzato la trasformazione dell’Occidente almeno dalla nascita della corrente filosofica positivista ed è collegata allo sviluppo dell’industrializzazione. Abbiamo abbandonato miti, credenze, fiabe in un percorso che ci ha però resi schiavi di nuovi regimi, del mercato, di una falsa logica che sta distruggendo il mondo.
L’antropologa Stefania Consigliere ha efficacemente sintetizzato tutto questo col termine «disincanto».
Lo spiega in modo illuminante in un recente libro che ha fatto parecchio parlare di sé, Favole del Reincanto – Molteplicità, immaginario, rivoluzione. Ecco come riassume la devastante supremazia del reale sul fantastico nel mondo di oggi:
«Ciò che esiste è positivo ed è quindi oggettivo, vero e buono; ciò che non esiste si carica di tutte le qualità negative e sarà quindi anche non oggettivo, falso e cattivo. […] Al di fuori della razionalità logico-deduttiva non ci sono alter-razionalità, ma solo irrazionalità e superstizione»
In questo modo, tutto ciò che non è logico viene sottomesso (compresi gli esseri umani non-razionali: dagli indigeni dell’amazzonia ai pazzi, passando per i bambini).
Folletti, spiriti della Natura, ninfe, divinità, antichi miti sono fuori dal campo della realtà, siamo d’accordo. Ma questo significa che non devono esistere?
Nelle società antiche o non occidentali, queste creature irreali hanno una funzione precisa, sono il tramite tra gli esseri umani e la Natura, perché danno anima ad alberi, fiumi, montagne, erbe, animali, venti.
Non sto promuovendo qualche forma di neopaganesimo o di animismo.
Il punto è che ciò che appare illogico alla moderna mentalità occidentale risponde invece a logiche diverse.
Ma nel mondo disincantato in cui viviamo oggi tali creature devono essere rimosse perché, scrive ancora la Consigliere:
«Questo processo è funzionale alla nuova dinamica produttiva: solo in un cosmo inerte il plusvalore può macinare senza ostacoli. Togliendo ogni limite etico allo sfruttamento delle terre, delle acque, dei cieli e dei viventi, il disincanto rende accettabili le spoliazioni che incrementano i godimenti fungibili. Senza la de-personalizzazione del cosmo, agroindustria, fracking, centrali nucleari e filiere estrattive apparirebbero per quello che sono: imprese distruttive e mortifere; e lo spargimento di veleni, tossici e inquinanti si mostrerebbe immediatamente angoscioso e criminale».
A me viene da aggiungere: sarà un caso se, da Tolkien in poi, la narrativa fantastica è sempre andata a braccetto con l’ambientalismo? In Michael Ende l’ambientalismo è un tema ricorrente, vedi Momo, oppure quell’altra godibile fiaba per bambini che è La Notte dei Desideri.
Ma non andiamo fuori tema.
Il punto è che, senza rendercene conto, abbiamo cacciato l’irrazionale, il sogno e il fantastico dalle nostre vite per trasformare il mondo in una macchina che ci sta stritolando.
Come?
Veniamo al secondo passaggio del processo descritto da Mork.
Chiave di Mork 2: personaggi e storie fantastiche si pervertono
Secondo il mannaro, questa cultura del disincanto fa sì che personaggi e storie fantastiche si pervertano in menzogne, in propaganda, in false promesse e nel peggiore marketing.
Abbiamo già parlato dello slittamento semantico del bellissimo termine inglese storytelling, che si è ridotto a indicare uno strumento per far passare messaggi di qualsiasi tipo.
E abbiamo anche anticipato che da tempo ormai lo storytelling è ampiamente usato in politica
Ecco come sintetizza il francese Christian Salmon nel libro La Politica nell’Era dello Storytelling:
«Le campagne elettorali sono diventate dei “festival di narrazione” durante i quali si affrontano dei personaggi più che delle ideologie, e in cui l’elezione sanziona l’efficacia della performance di un attore/candidato».
Per Salmon, la politica è da tempo affetta da una sindrome da Mago di Oz; il mago/capo di stato è solo un imbonitore da fiera, che costruisce un personal-brand attraverso messe in scena e narrazioni.
Salmon fa risalire la genesi di questa sindrome al successo della campagna elettorale di Barack Obama, ma in Italia già da anni avevamo sperimentato l’autonarrazione di Berlusconi: chi si ricorda la sua biografia di 125 pagine dal titolo Una Storia Italiana, spedita gratis a casa di milioni di elettori?
Ma lo storytelling non si limita alle singole biografie dei politicanti, siamo continuamente immersi in un sistema di narrazioni funzionale al meccanismo di produzione e consumo. E più ci lasciamo disincantare, più questo meccanismo ci stritola.
Tutte le più importanti operazioni politiche vengono anticipate da una propaganda narrativa: un qualche tipo di cattivo (i terroristi, Saddam Hussein, un virus personificato), vuole distruggere il mondo, ma la nostra eroica classe dirigente lo fermerà.
Il compianto Valerio Evangelisti ha coniato un concetto secondo me potentissimo: quello di colonizzazione dell’immaginario.
Il sistema capitalistico consumista ha svuotato le nostre vite dal sogno e dal fantastico e poi ha riempito questo vuoto con nuove narrazioni, che sono noiosissime, spesso ansiogene e ancora più spesso false ma che condizionano le nostre vite e ci spingono a consumare in modo compulsivo o accettare politiche repressive.
Ecco cos’è la colonizzazione dell’immaginario.
L’appiattimento delle nostre vite su narrazioni brutte e soffocanti ha anche effetti paradossali.
In quel trascinante tomo tutto dedicato alla nascita e allo sviluppo dei complottismi che è La Q di Qomplotto, lo scrittore Wu Ming 1 spiega chiaramente quanto bisogno ci sia di nuove forme di incanto (usa il tempo passato, ma sta parlando del presente):
«Le fantasie di complotto non davano risposte solo alla rabbia, alla frustrazione, all’insofferenza nei confronti del mondo così com’era, ma anche al bisogno di incanto e meraviglia, di angolature da cui guardare il mondo e sentirsi diversi».
Perché – spiega Wu Ming 1 – piuttosto che accettare vite orrendamente piatte e senza speranza, molte persone preferiscono credere ad assurde fantasie di complotto: che fanno apparire il mondo un luogo orribile, certo, ma comunque vi reintroducono la follia, il sogno, la meraviglia:
«La meraviglia non risiedeva solo nel bello, ma anche nel perturbante […]».
Insomma, dovremmo esserci capiti, a questo punto.
Abbiamo bisogno di narrazioni.
Però le narrazioni fantastiche sono relegate al ruolo di futili passatempi, oppure di sottoletteratura o di arte di serie B, perché ci distraggono dal quotidiano, dal messaggino whatsapp del capo, dalle ultime notizie su qualche «nemico» vero o immaginario, dalle scadenze, dal Pil, dal ciclo di produzione e consumo.
Dominano invece narrazioni finto razionali, spesso del tutto illogiche ma funzionali al sistema economico in cui viviamo.
Ma perché mai la fantasia dovrebbe salvarci?
Si potrebbe pensare che dovrebbe essere un razionalismo più razionale la vera fonte di salvezza.
Chiave di Mork 3: gli essere umani senza più fantasia diventano facili prede delle menzogne
La teoria proposta da Ende e altri frickettoni della sua risma è che per salvarsi, gli esseri umani devono tornare a giocare con la fantasia.
Che la narrativa fantastica, il mito o la fiaba possano salvarci dalle autodistruttive leggi del mercato sembrerà senz’altro a molti un’assurdità.
Solo artisti e poeti possono credere a simili baggianate, dirà una persona assennata.
Per la relazione tra fantasia e capacità di interpretare la realtà, ci viene in aiuto sempre Valerio Evangelisti in Le Strade di Alphaville, secondo cui il lettore di sottoletteratura (gialli, fantascienza, horror, eccetera) ha:
«minori probabilità di essere sedotto e addomesticato del consumatore abituale di letteratura “alta”. È abituato a immergersi in piccoli o grandi inferni metropolitani, a penetrare in galassie rette da regole pazzesche, a esplorare mondi alternativi, a scorgere l’incubo nascosto dietro la normalità apparente. La sua narrativa preferita è narrativa del coinvolgimento: è fatta apposta per non lasciare indifferenti».
E questo perché:
«Tematiche come il razzismo, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa “di genere” pane quotidiano. Si può dire lo stesso della letteratura che da noi è considerata “alta”? Ma mi facciano il piacere, avrebbe risposto Totò».
Ecco perché è così dolorosamente vera la scoperta di Atreiu: se noi esseri umani ci lasciamo disincantare perdiamo letteralmente la capacità di pensare ai grandi temi della vita: smettiamo di confrontare il presente con l’utopia, cioè col mondo come lo vorremmo o come vorremmo che fosse per i nostri figli.
Ed ecco perché, come dice Valerio Evangelisti, la narrativa deve essere narrativa del coinvolgimento!
Perché solo una immersione profonda negli universi fantastici, utopici, distopici, ucronici e fantascientifici ci permette di fare confronti con la realtà che viviamo. Come un viaggio in paesi diversi ci permette di fare confronti col nostro.
Ecco perché la narrazione deve essere incanto, ecco perché deve essere magia!
Il lettore/spettatore di narrazioni fantastiche è molto esigente, non è mica facile dargliela a bere: vuole essere stupito, vuole la meraviglia, vuole sgranare gli occhi, altrimenti il racconto fantastico non funziona.
E dunque il narratore deve essere un mago?
Beh, in effetti Ende avrebbe voluto che il suo romanzo fosse confezionato in modo da sembrare un antico libro di magia.
Diciamo che l’autore deve essere almeno un po’ prestigiatore, con un discreto arsenale di trucchi da sfoderare.
Il narratore è un mago
All’inizio di questo viaggio abbiamo anticipato che la narrazione è una forma di magia e che questa può essere esercitata con buone intenzioni o no.
Abbiamo visto che le narrazioni (pervertite) possono essere usate per fondare e governare imperi, vendere prodotti e idee politiche. Ma abbiamo anche anticipato che esiste un modo per riconoscere la magia «nera» da quella buona: la presenza o meno di un finale.
Come vedremo tra poco, il finale de La Storia Infinita ruota attorno a questo concetto, in una delle intuizioni più geniali di Michael Ende.
Dopo averci accompagnati nel mondo parallelo del sogno, un racconto dalle buone intenzioni ci riconduce alla realtà.
Il ritorno alla realtà è realizzato attraverso un finale, che risponde efficacemente a tutte le domande aperte dalla narrazione e consente serenamente di chiudere il libro, uscire dalla sala, spegnere lo schermo e tornare alle relazioni umane.
Un racconto malvagio, al contrario, non ha alcuna conclusione; se ce l’ha, la rinvia all’infinito, la proietta in un futuro irraggiungibile. E continua a chiederci all’infinito di comprare il prodotto, di votare il candidato, di sopportare la privazione di qualche libertà, di sacrificarci in nome di qualche dio.
Una storia malvagia si comporta come lo scrolling infinito dei social media, è un moltiplicarsi di promesse senza fine.
Il suo scopo è irretire la volontà e non lasciarla più andare.
Anche quando si presenta come un gioco, non lo è mai davvero: è una narrazione pervertita, una menzogna.
Il gioco dell’Incanto
Il prestigiatore compie davanti ai miei occhi qualcosa che è fisicamente impossibile, dicendo di essere un mago. So che non è vero e che la sua magia è un trucco. E lui sa che io lo so.
Stiamo giocando insieme, né più né meno di un romanziere col suo lettore.
Anche il romanziere presenta il racconto come reale, ben sapendo che il lettore non ci crede davvero, almeno non del tutto.
Dai Promessi Sposi ai libri di Tolkien passando per il Nome della Rosa, quanti romanzi dichiarano falsamente di derivare da un precedente manoscritto?
È un gioco fin troppo facile e si può spingere verso frontiere ben più avanzate.
Basti pensare alle bufale costruite dal Luther Blisset Project (poi sempre rivelate e la rivelazione era parte stessa del gioco mediatico).
A volte il gioco consiste nel mettere in crisi la mente del pubblico: basta il verso di una canzone, come in Centro di Gravità Permanente di Franco Battiato, a lasciare milioni di italiani con un dubbio irrisolto: che cavolo è il free jazz punk inglese?
Si tratta di usare la creatività per mettere la mente in bilico, in una condizione di dubbio, di curiosità, di ricerca di nuove idee.
E così torniamo all’arte surrealista, da cui eravamo partiti.
Personalmente posso guardare questo quadro di Magritte all’infinito, la testa mi va in cortocircuito alla ricerca di un senso: è notte o giorno? E in che senso il titolo Impero delle Luci?
Dove si ferma l’opera d’arte e dove comincia la mia mente? I pensieri che si scatenano in me davanti a questo genere di opere sono stati certamente previsti dall’autore, dunque sono parte dell’opera?
Ma questo è niente! La Storia Infinita è un caleidoscopio in cui realtà e finzione si riflettono a vicenda su più livelli, al punto da diventare una sorta di paradosso filosofico.
Il confine si dissolve
Ende ci porta direttamente nel dominio della Surrealtà, come diceva Breton.
Il confine tra realtà e sogno si dissolve definitivamente.
La Storia Infinita è al tempo stesso il titolo del romanzo che teniamo tra le mani, il titolo del libro che legge Bastiano e il titolo del libro scritto dal Vecchio della Montagna Vagante.
Tu lettrice o lettore leggi un libro in cui si racconta che Bastiano legge un libro in cui si racconta che l’Infanta Imperatrice e il Vecchio della Montagna Vagante leggono un libro che si sta scrivendo in quello stesso istante. E quello è esattamente il libro che tu tieni fra le mani!
Sono tre libri contenuti uno dentro l’altro eppure, al tempo stesso, l’ultimo è il primo!
E tu chi sei?
A questo punto, tu sei solo una lettrice/lettore o sei anche un personaggio del libro?
Lo Specchio nello Specchio
La chiave di questo collegamento tra realtà e finzione è l’essenza stessa de La Storia Infinita e viene spiegata proprio dal Vecchio della Montagna Vagante all’Infanta Imperatrice.
Per come la vedo io, lei è giovane e femmina, rappresenta la creatività pura; lui è vecchio e maschio e rappresenta la sacra dedizione di un autore alla sua opera.
Quando lei gli chiede se tutti loro, tutta Fantàsia siano solo «apparenza e riflesso», lui risponde con una domanda:
«Che cosa mostra uno specchio che riflette uno specchio? Lo sai tu, Occhi d’Oro, Sovrana dei Desideri?»
Questa frase non può essere compresa col pensiero logico.
Ma qui c’è il significato di Auryn, qui sta il senso dei due serpenti che si mordono la coda formando un ovale: i due serpenti rappresentano la realtà e la fantasia, che sono una nutrimento dell’altra e al tempo stesso nascono una dalla bocca dell’altra.
E quindi spieghiamo che questo qui sotto non è l’Auryn.
Questa è un’inutile complicazione che è stata inserita nel film.
L’Auryn come è descritto nel romanzo (e in realtà si scrive AURYN, tutto maiuscolo) è un semplicissimo ovale. Ed è così per un motivo: perché deve richiamare l’Urobòro, un simbolo antichissimo (pare che fosse usato già dagli antichi egizi) che rappresenta la ciclicità della vita.
Michael Ende ha ripreso questo simbolo ma lo ha diviso in due serpenti, per rappresentare la reciproca interdipendenza tra realtà e fantasia. Attraverso il Vecchio della Montagna Vagante, ci spiega che realtà e fantasia si riflettono l’una nell’altra, come due specchi posti uno di fronte all’altro.
Che sia un concetto chiave della poetica di Ende lo dimostra il fatto che Lo Specchio nello Specchio è il titolo di una delle sue raccolte di racconti (tra le sue poche opere destinate a un pubblico adulto).
Il romanzo stesso è una rappresentazione concreta di questo rispecchiarsi di realtà e fantasia.
In effetti, noi stiamo a Bastiano come Bastiano sta ad Atreiu. E questa sovrapposizione tra il piano reale e quello narrativo l’hanno vissuta sulla pelle tutti i bambini che negli anni ’80 hanno visto il film per la prima volta. La scena più emozionante fu vedere Bastian che pronunciava le parole:
«Che sia proprio io…?»
L’immedesimazione per una bambina o un bambino era potentissima. Il sogno di essere chiamati personalmente a far parte di un’avventura fantastica sembrava realizzarsi lì, in quel momento. Solo chi l’ha vissuto sa quanto è stato emozionante.
Oggi quei bambini cresciuti possono prendere tra le mani il libro e scoprire che è ancora in grado di abbattere il confine tra realtà e sogno, in tanti modi e così articolati che il romanzo è al tempo stesso una favola leggerissima, un gioco interattivo e un rompicapo filosofico, tutto nello stesso momento.
Tutto il romanzo non fa che chiamarci in causa, continuamente, ma senza mai nominarci direttamente. Non si comporta come un libro game, ma il nostro coinvolgimento è sottinteso, sta tutto nell’immediatezza dell’immedesimazione tra noi e Bastiano.
Quando l’Infanta Imperatrice obbliga il Vecchio della Montagna Vagante a ricominciare a leggere il libro daccapo crea una storia circolare che, giunta a quel punto, riparte ogni volta dal momento in cui Bastiano entra nella bottega del Signor Coriandoli.
L’Imperatrice imprigiona se stessa, tutta Fantàsia, Bastiano e anche noi in un ciclo infinito.
(A proposito, notare la finezza: il romanzo si apre con l’insegna scritta sul vetro della bottega mostrata al rovescio, come riflessa in uno specchio. Ende sembra metterci da subito oltre lo specchio, dentro la storia e insieme ai suoi personaggi.)
L’Infanta Imperatrice fa questo gesto estremo per convincere Bastiano a saltare dentro il mondo di Fantàsia.
Se lui non troverà il coraggio, anche noi potremmo restare intrappolati a leggere una storia che ricomincia daccapo all’infinito.
Dunque, quando Bastiano finalmente si convince, salva Fantàsia e anche noi, permettendoci di proseguire nella lettura.
E dopo? Cosa avviene dopo?
Dopo avviene la caduta del lettore nella storia.
La caduta nella storia
Questa è l’idea da cui parti Michael Ende quando iniziò a scrivere La Storia Infinita: quella di un bambino che, leggendo una storia, ci finisce letteralmente dentro e non riesce più a uscirne.
A questo punto del racconto, l’Infanta Imperatrice scompare, diviene introvabile e lascia Bastiano in balia di se stesso, con un solo messaggio, quello scritto dietro Auryn: «Fa’ ciò che vuoi».
Un messaggio che era solo per lui, perché Atreiu, che pure ha portato Auryn per molto tempo, non poteva leggerlo, essendo analfabeta.
A ben guardare l’Imperatrice, dall’aspetto così dolce e affascinante, si comporta come una sirena, un’irresistibile ammaliatrice, una maga ingannatrice che attira gli esseri umani per dare forma al suo impero e poi li abbandona al proprio destino, tanto che la maggior parte di loro non torna più alla realtà e finisce a condurre un’esistenza di follia nella cosiddetta Città degli Imperatori.
Bastiano, al culmine di un percorso di perdizione, alla fine si salva, ma non grazie a lei, che non compare più. Bastiano ha rischiato di restare intrappolato per sempre nel mondo della fantasia, perdendo se stesso in un delirio di onnipotenza che porta alla perdita di tutti i ricordi e, quindi, di se stessi.
Perché se è vero che gli esseri umani hanno bisogno di restare in contatto col sogno e la fantasia, è vero anche che non possono prescindere dal contatto con la realtà. E in particolare, con l’amore (che nel caso di Bastiano si concretizza in quello per il padre).
Per questo i due serpenti: perché è un gioco di equilibrio.
Senza il contatto con la realtà si finisce col perdere il senno.
Giungiamo alla fine della Storia
Quando decide di deporre Auryn, Bastiano rinuncia ai propri desideri e così ha accesso alle Acque della Vita:
«Noi, le Acque della Vita
da se stesse generate
fonte tanto più arricchita
quanto più vi dissetate»
Aveva dimenticato tutto di se stesso, trasformato dai propri desideri in un vuoto superuomo senza ricordi, senza nome e destinato a vagare senza scopo e senza senno nella Città degli Imperatori.
Senza: nonostante tutti i desideri che ha potuto esaudire, è la mancanza il concetto più adatto a descriverlo. Non ha più niente.
Niente tranne Atreiu, l’eroe del racconto fantastico che tanto lo aveva appassionato all’inizio di tutto.
Atreiu non no lo ha mai abbandonato e ora accompagna Bastiano a bere l’acqua magica. Così il nostro protagonista torna a essere se stesso e può finalmente correre ad abbracciare suo padre: la porta della realtà si schiude di fronte a lui.
Il racconto ha assolto il suo compito: ha salvato la vita del suo lettore.
Per concludere
La Storia Infinita ci mostra l’universo diviso in due mondi, quello della realtà e quello della fantasia. Questi due mondi sono interdipendenti: nascono l’uno dall’altro e si nutrono l’uno dell’altro.
Il mondo della fantasia ha bisogno dell’immaginazione e dei desideri degli esseri umani per crescere e prosperare; mentre gli esseri umani hanno bisogno della fantasia, altrimenti perdono la capacità di interpretare gli eventi che li circondano e diventano facili vittime di inganni, propaganda e di una logica autodistruttiva.
La nostra è un’epoca che ha estromesso la fantasia dal discorso pubblico e ha pervertito il nostro bisogno di narrazione: il mondo della fantasia è dunque in uno stato di emergenza, l’equilibrio tra realtà e fantasia è rotto.
Tutto parte da un assunto molto simile a quello posto da André Breton alla base del surrealismo: solo la connessione tra realtà e fantasia rende l’essere umano completo
Affinché sia raggiunto questo stato di completezza, il mondo della fantasia deve chiamare l’essere umano, costringendolo a compiere un immersione totale: perciò la narrativa fantastica deve essere una narrativa del coinvolgimento e il narratore deve essere un vero e proprio incantatore.
Per non cadere nell’estremo opposto, però, si deve poter sempre tornare alla realtà. Ogni buon racconto deve essere in grado di condurci alla fine della storia, indietro nel nostro mondo. Perché si è completi solo nelle relazioni umane, cioè nell’amore.
Col passare dei decenni, anche la critica letteraria, che l’ha bistrattato e insultato per anni, ha dovuto accettare che La Storia Infinita è un capolavoro.
È probabilmente uno dei più bei libri mai scritti sul rapporto tra esseri umani e narrazioni, perché affronta l’argomento mettendolo in scena, operando una vera e potente forma di reincanto, con una storia coinvolgente e appassionante per bambini e adulti, costruita su molteplici livelli e che continua a svelare la sua profondità a ogni rilettura.
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