È uno splendido mattino di settembre. Me ne sto seduto al tavolino di un bar all’aperto, nei pressi del Colosseo, con la mia compagna, mia suocera e mia figlia di quasi cinque mesi. Classico bar per turisti, prezzi alti e caffè cattivo.
Mentre il personale cerca di guastarmi l’atmosfera col marocchino più schifoso che abbia mai bevuto, si avvicina un musicista gitano con una fisarmonica. Abituato a sentire le solite nenie trite e ritrite buttate lì, penso che non potrebbe andare peggio.
E invece resto piacevolmente sorpreso: il musicista romanó* suona le canzonette pallose che mi aspettavo, ma in modo tanto magistrale da renderle intriganti: movimenti di bassi divertenti e armonizzazioni zeppe di alterazioni jazz fanno sembrare fresca persino la solita My way.
Riesce a farmi mandar giù il marocchino che sa di bruciato. [Read more…]
Musica sacra
Estate del 1997, mi pare. Sto in villeggiatura presso un mucchietto di case in mezzo ai monti: niente bar, niente ufficio delle poste, non c’è un medico, un giornalaio, un tabaccaio. Un pugno di edifici classificato come frazione di un paese che sta tante, tante curve di montagna più a valle. Un mio carissimo amico ha una magione in questo avamposto in bilico sul confine del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, versante marchigiano.
La proposta, rivolta a me e a un altro amico, è stata:
«Suoniamo alla messa di Ferragosto?»
Sì, perché in questo posto non hanno un forno che faccia il pane, ma una chiesa dove sentir messa, quella sì.
Siamo tutti giovani, atei e mangiapreti. Ovviamente partiamo senza indugi.
Due settimane fuori dal mondo. Niente carnai in spiaggia, rave illegali o pogo forsennato all’international rock-festival nel vattelappesca-shire. Andiamo a scrivere musica per paesani cattolici. [Read more…]
Belle figure
Estate del 2001.
Mi trovo insieme a Paolo Coppini al Circolo degli artisti, noto locale romano, per partecipare a una serata di musica dal vivo all’aperto, con un palcoscenico enorme, un sacco di pubblico, un sacco di luci. È uno di quegli eventi in cui vari artisti si alternano sul palco per 10 o 15 minuti ciascuno. Stiamo lì dal pomeriggio per fare il soundcheck. Sotto il cielo ancora luminoso, sulle sedie destinate al pubblico ancora vuote, ci facciamo i beati affaracci nostri: io tengo in braccio la chitarra e proviamo qualche canzone.
A un certo punto si avvicina questo vecchietto.
Lì per lì non lo riconosco, ma è un tipo famoso: attore di teatro prestato più volte al cinema d’autore. Comunque in quei mesi è noto soprattutto per un ruolo secondario in una fiction di successo per famigliole tele-lobotomizzate. Si avvicina a me e mi dice sorridendo, umile:
«Accidenti, sei bravo a suonare la chitarra!»
«Grazie… »
«Ti posso chiedere una cortesia?»
«Ma certo» rispondo io, per nulla insospettito.
«Sai, stasera vorrei cantare una canzoncina e avrei bisogno di un musicista che mi accompagni… » [Read more…]
Il patto col Diavolo
Era un giorno del 1991. Joe Strummer se ne stava stravaccato sul divano di casa sua, davanti alla TV. Scorrevano immagini della Prima guerra del Golfo. A un certo punto, inaspettatamente, sullo schermo apparve il Diavolo. E il Diavolo si rivolse direttamente a Joe: Hey Joe, gli disse sghignazzando, te lo ricordi che abbiamo fatto un patto? La tua anima in cambio del successo mondiale. No, Joe non se lo ricordava.
Beh, non era esattamente il Diavolo in persona. In verità era un missile. Un missile americano, per essere precisi. Pronto a partire per radere al suolo qualche edificio di Baghdad. E non è che avesse proprio parlato, il diavolo-missile: più che altro portava un messaggio scritto. Qualche marine aveva dipinto una frase sulla fiancata di quella bomba: Rock the Casbah.
Strummer rimase decisamente scosso. Aveva trascorso la vita a cantare e predicare l’antimilitarismo e l’antiamericanismo e all’improvviso si rendeva conto che chiunque poteva prendere una sua canzone, privarla del senso originario e usarla per fare propaganda becera alla guerra.
Gli avevano portato via la sua musica, la sua anima. Per via del verso drop your bombs between the minarets, cantato su quel ritmo funky accattivante, Rock the Casbah era da tempo in rotazione nella radio ufficiale dell’esercito statunitense.
Hanno raccontato i suoi amici, anni dopo, che quel giorno Joe, sul divano della sua bella casa, davanti al suo costoso, grande televisore, cadde in una crisi che durò a lungo. Forse rimpianse la casa occupata dove viveva da ragazzo. Forse rimpianse l’ingenua indigenza di quando i Clash abbozzavano i primi accordi, Quando era un povero e sconosciuto strimpellatore, ma era ancora padrone della sua anima.
Eddie Lang: bastava dire: “Pensaci tu, Eddie!”
Eddie Lang è la storia della chitarra moderna, ne rappresenta le fondamenta, con la sua vita incredibile e il suo genio tanto grande quanto sottovalutato.
“Durante le trasmissioni radiofoniche capitava spesso di dover improvvisare delle modulazioni che nessuno aveva mai provato. Allora Paul Whiteman, sotto lo sguardo ammirato e preoccupato dei musicisti, diceva:
«Pensaci tu, Eddie!»”
A parlare è Frank Trumbauer detto Frankie, che suonò per molti anni nell’orchestra di Paul Whiteman, una mega-band di 40 elementi. L’Eddie in questione è quello che io considero uno dei più importanti chitarristi di sempre: Eddie Lang.
Questo è uno dei tantissimi ricordi presenti in questo libro storico scritto da Adriano Mazzoletti, dal tittolo Eddie Lang, Stringin’ the blues
A farmi conoscere Eddie Lang fu Paolo Coppini. Il jazz degli anni ’20 era una delle sue specialità.
Anni dopo volli approfondirne la conoscenza, ma non era facile, perché su di lui si è scritto pochissimo. Sapevo dell’esistenza del libro di Mazzoletti, ma non lo avevo mai letto. Poi un giorno, facendo un giro tra le bancarelle della Festa dell’Unità di Roma, a Caracalla, mi imbattei in una copia usata di questo volume.
Comprata al volo.
Ho fatto spesso di questi affari nelle bancarelle.
Quella di Eddie Lang e del suo grande amico Joe Venuti è una storia su cui si potrebbe fare un filmone della madonna. Una storia di riscatto sociale, di amicizia, di talento, di successo, notti brave, risse, scherzi. Una storia di italiani che spazzano via lo stereotipo dell’italoamericano mafioso a suon di accordi alterati e virtuosismi mai sentiti prima.
Facendo un sacco di soldi, tra l’altro.
Eddie Lang era uno pseudonimo (preso dal nome di un giocatore di basket, tale Eddy). All’anagrafe si chiamava Salvatore Massaro. Quando suonava blues per i neri (i dischi cosiddetti race records) si faceva chiamare Blind Willie Dunn (mitici i duetti con un altro talento chitarristico dell’epoca, il bluesman nero Lonnie Johnson).
Perché tutti questi nomi? Probabilmente per celare all’americano medio la cruda verità: che il figlio di due immigrati molisani gli faceva il culo a stelle e strisce a tutti, bianchi wasp e bluesmen neri.
Per lui era facile, cresciuto in una famiglia dove tutti suonavano qualche strumento e il padre era un mezzo liutaio.
Eddie/Salvatore ha inventato l’uso della chitarra solista nel jazz (all’epoca la chitarra era usata solo per l’accompagnamento dai cantanti blues o come strumento ritmico nel jazz). Salvatore imbracciava la sei corde e suonava quello che c’era da suonare, con una tecnica solida come il granito, lasciando tutti a bocca aperta.
Se accompagnava un cantante famoso, gli suonava sotto accordi mai sentiti e improvvisava spettacolari contrappunti sulla corda singola.
E il suo amico Joe Venuti non era da meno. Matto come un cavallo, rissoso, sempre in vena di scherzi assurdi, col suo violino era capace di suonare qualsiasi cosa con un tocco impareggiabile. Insieme incantavano pubblico e musicisti.
Lo stile di Eddie Lang, secondo me, è unico. I paragoni coi grandi chitarristi venuti subito dopo mi sembrano forzature. C’è troppa differenza col fraseggio frenetico e travolgente di Django Reinhardt o con quello dolce e ispirato di Charlie Christian.
Secondo Mazzoletti invece Lang ha avuto un’influenza determinante proprio su questi due. Va detto che è stato probabilmente il primo a usare accordi diminuiti e scale esatonali. Il suo tocco è semplicemente perfetto: elegante, pulito, solido, ma anche originale, intriso com’è di musica popolare italiana, chitarra classica (pare che non abbia mai perso un concerto americano di Andrès Segovia) e blues (certe notti se ne andava ad Harlem e si metteva a suonare insieme ai neri, in un periodo in cui le orchestre miste erano rarissime).
Eddie Lang è morto giovane, per un caso di mala sanità. Gli hanno fatto una anestesia che si è rivelata letale. Lo stavano operando per togliergli le tonsille. Era il 1933.
Oggi la figura di Eddie Lang è in corso di rivalutazione (vedi anche l’Eddie Lang Jazz Festival di Monteroduni). In parte forse ha contribuito anche il testo di Mazzoletti, che è un’opera storicamente importante. La seconda metà del libro è dedicata alla discografia completa: una ricerca così è amore puro.
Paolo Coppini
Paolo Coppini irrompe nella sala all’improvviso. Gli avventori del locale restano col bicchiere a mezz’aria, tutti con la bocca spalancata. Non capiscono se è una specie di scherzo o se si tratta di un matto pericoloso.
«Bonasera, sò Coppini!», grida con tono irruento.
«E me presento perché non me conosce veramente nessuno… Eppure sò trent’anni che canto ste canzoncine…
“E se vede che te sei promosso male – me fa uno l’altra sera – Le canzoni sò carine, demenziali… “.
Ma come demenziali – j’ho risposto – che cominciamo subito co l’etichette?! Guarda che l’òmini passano, ma l’etichette restano… »
A questo punto si dà una mano sulla faccia e bofonchia:
«… Ma no, volevo dì esattamente er contrario… ».
Nessuno capisce la battuta, nessuno capisce che sta recitando un copione.
Nessuno ride, stanno ancora tutti col bicchiere sospeso.
Partiamo con le canzoni e Paolo sfodera la sua voce sempre al limite della stonatura.
Il pubblico si ammorbidisce, ma solo un pochino. Qualcuno ride, qualcuno riprende a chiacchierare. Il tipo del tavolo a sinistra del palcoscenico sghignazzerà per tutto lo spettacolo. Riderà di Paolo Coppini, non delle sue battute.
Nessuno dei presenti immagina da dove venga quel modo di irrompere nella scena, quel modo di cantare e di mescolare teatro e canzoni. È un pubblico casuale, abituato alle canzoncine pop delle autoradio e dei centri commerciali.
Sono quasi tutti giovani, la maggior parte di loro non ha mai sentito neanche nominare Gaber e Jannacci. Nessuno di loro è mai stato a teatro in tutta la vita.
Nessuno immagina che molti anni addietro i giornali, quelli veri, i grandi quotidiani a tiratura nazionale scrivevano di Paolo Coppini descrivendolo come una versione più stralunata di Paolo Conte. Lo definivano bislacco, spudoratamente stonato e felice di esserlo, naturalmente esilarante.
Stefano è mio cugino, è un film maker e si è messo in testa di seguire Coppini per riprenderlo durante gli spettacoli e durante le sue giornate lavorative. Così quella sera è venuto con noi e ha piazzato un paio di videocamere ai lati del palco.
Qualche tempo dopo pubblicherà un documentario dal titolo Romanina Blues.
Romanina blues
La Romanina è una delle tante periferie della capitale nate per pura speculazione edilizia. Chilometri di caseggiati sorti intorno a una vecchia borgata povera, con più centri commerciali che fermate di autobus.
Paolo Coppini raccontava di essere finito a vivere a La Romanina per un naturale processo di estromissione dai quartieri centrali, colonizzati dalla ricca borghesia.
Coppini raccontava sempre i dettagli della sua vita tra il serio e il faceto, era sempre difficile distinguere la verità dalla battuta detta per il puro gusto dell’autoironia.
Romanina blues racconta la marginalità di un talento creativo relegato alla periferia della Storia, dei grandi processi economici e sociali. Ha vinto dei premi.
La cosa più importante che ha fatto, probabilmente, è stato far nascere una grande amicizia tra Paolo e Stefano, ma ha anche il merito di aver trascinato Coppini fuori da quei localini pieni di avventori annoiati, distratti, malignamente sghignazzanti.
Al termine delle proiezioni in vari festival, quando era presente, Coppini veniva immancabbilmente fermato da qualche spettatore che gli chiedeva dove poterlo acoltare dal vivo o acquistare un suo CD. In più di una occasione seguirono richieste di esibizioni dal vivo, soprattutto presso i circoli politici della sinistra. [Read more…]